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Carlo Cammarella

Carlo Cammarella

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Al Roma Jazz Festival Portal, Sclavis, Marguet, Texier, Le Querrec – tra musica e fotografia

Ecco l’occhio dell’elefante che in ogni momento osserva intensamente i fatti della vita come se li vedesse per la prima ed ultima volta”. Non è un frase di circostanza inventata dal nulla, ma un proverbio africano che nel nostro caso sintetizza la filosofia che si cela dietro il concerto/rappresentazione che abbiamo avuto il piacere di osservare ieri sera all’Auditorium. E non è un caso che il verbo da noi utilizzato sia per l’appunto “osservare” e non ascoltare, come forse sarebbe più consono per la musica. Non è un caso perché nel concerto di ieri, dal titolo “L’œil de l’elephant”, la musica di Michel Portal(clarinetto e sassofono), Louis Sclavis (clarinetto e sassofono soprano), Christophe Marguet(batteria) e HenriTexier (contrabbasso) si è fusa con il linguaggio visivo di Guy di Le Querrec, fotografo d’eccezione dall’esperienza pluridecennale.

Due linguaggi espressivi, due forme d’arte sublimi, due modi di comunicare emozioni che attivano due percezioni differenti e che possono dialogare fra loro senza generare niente di artificioso. La fotografia che guida la nostra immaginazione verso l’esplorazione, verso l’ignoto, verso quell’istante che viene bloccato per sempre dallo scatto di una macchina che ha il potere di farci rivivere emozioni ormai passate. La musica, perfezione del suono e delizia dell’udito. Un’arte dentro un’altra arte, un mix fra due linguaggi così diversi e così simili, una forma espressiva che guida l’altra trascinandoti verso mondi lontani, periodi passati, attimi immortalati, il tutto accompagnato da una musica ricercata per l’occasione che si tinge di Jazz e che stringe la mano alla tradizione francese.

E veniamo al concerto. Come i musicisti si sistemano sul palco, il silenzio viene rotto dal ritmo incalzante della batteria, poi davanti ai nostri occhi iniziano a scorrere le immagini e a mano a mano intervengono anche gli altri strumenti. La prima sessione si chiama “Baci Rubati”, un susseguirsi di immagini, di mondi inesplorati (spesso eterogenei fra loro), attimi immortalati che prendono vita nuovamente accompagnati dalla musica del quartetto. Un bacio fra due innamorati, fra due clandestini, fra due mucche, fra madre e figlio, tutto a tema con una melodia che si sposa perfettamente con quello che vediamo. Poi, si passa ad un’altra sessione intitolata “Qui l’ombra”, in cui spiccano giochi di luce grotteschi alternati a fasi più inquietanti, ad un’altra ancora chiamata “Più veloce del vento” dove, invece, al centro dell’attenzione c’è il movimento. Insomma, di sessioni ce ne sono state davvero tante e ne citiamo soltanto qualcuna, anche perché altrimenti rischieremmo di ridurre il tutto ad un freddo elenco di numeri ed immagini.

Quindi, nella serata di ieri ciò che veramente ci ha colpito è stata la pulsazione. Pulsazione che viene resa attraverso uno scatto, attraverso un attimo rubato, pulsazione che viene scandita dalla musica, filo conduttore di una rappresentazione originale, linfa vitale di un mondo che nuovamente prende forma. Le Querrec è un viaggiatore, nella sua produzione ci sono foto divertenti, foto comiche, foto ironiche, foto del passato, foto di grandi jazzisti, foto dei suoi viaggi in Africa e in continenti sconosciuti dove la povertà è ancora il protagonista ineccepibile. La parte che spicca fra tutte, secondo noi, è quella finale, in cui viene esposto, sempre a suon di musica, un reportage dal titolo “Sulle tracce di Big Foot”, effettuato nel 1990 negli Stati Uniti, proprio nelle terre ancora popolate dai nativi. Un viaggio in condizioni estreme, in terre inospitali, dove ancora le tribù, pur avendo accettato una parte di progresso, vivono secondo le loro leggi.

Insomma, quello di ieri è stato uno spettacolo diverso, un concerto/rappresentazione in cui possiamo dire di aver imparato, o se non altro osservato e ascoltato, qualcosa di diverso, che ci ha fatto riflettere non soltanto sul mondo visto dal libero occhio di Guy Le Querrec, ma anche sulla fusione di arti e linguaggi e perché no, anche sull’abbattimento dei confini culturali.

Carlo Cammarella

Ettore Fioravanti 4et al 28divino

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Può il linguaggio del Jazz fondersi con la musica pop, con quella d’autore e magari anche con le sonorità psichedeliche? Che ci crediate o no, la risposta è si. E la dimostrazione tangibile di quanto abbiamo appena detto la troviamo nel quartetto di Ettore Fioravanti (Ettore Fioravanti 4et), composto dall’omonimo batterista, da Francesco Allulli al sax, da Marco Bonini alla chitarra e da Francesco Ponticelli al contrabbasso. L’occasione di poter ascoltare questa formazione che ama mescolare queste sonorità ci si è presentata venerdì scorso al 28divino jazz club e, visti anche i precedenti, non ce la siamo lasciata sfuggire.

 

Quindi, torniamo per un momento alla domanda iniziale ed entriamo nel dettaglio. Come fa questo quartetto a far confluire musiche così eterogenee in un unico discorso? Cominciamo col dire che per fare una cosa del genere, ci vuole un gruppo ben consolidato e uno studio quasi maniacale degli interventi strumentali, senza il quale quei silenzi e quelle pause non avrebbero lo stesso effetto. Diciamo, poi, che la voglia di sperimentare ce la devi avere un po’ nel sangue, nel senso che devi essere aperto a confrontarti con stili diversi, e per finire devi essere anche capace di farli confluire in un discorso che abbia un filo logico. E queste caratteristiche il quartetto le possiede proprio tutte quante, insieme ad una buona dose d’ironia che sul palco non guasta proprio per niente.

E veniamo alla serata di venerdì. Il concerto comincia con le note della chitarra di Marco Bonini, un inizio quasi in sordina, con una musica distesa e rilassata, seguito dagli altri componenti che entrano quasi in punta di piedi, senza che ci sia qualcuno che prevalga e creando un’atmosfera adatta all’apertura di un sipario. Proprio come Un’aria di Vetro, titolo di questo primo brano. Poi, quasi a spiazzarti, il basso comincia con un ritmo sincopato che si incastra perfettamente con il tempo della batteria, una musica concitata, molto differente da quella precedente, ma, come vi avevamo accennato in precedenza, è proprio questa la caratteristica del quartetto, quella di non dare punti di riferimento. E quindi, stando a questa filosofia, la musica prosegue, ti prende sempre di più e arriva anche il gioiellino di questo primo set.

Poco prima della pausa, infatti, il gruppo presenta una versione del tutto personale di A walk on the Wild Side, il capolavoro di Lou Red, che ovviamente viene arrangiato in chiave jazz. E questa volta la musica d’insieme, con gli interventi suonati al punto giusto, sostituisce le parole del cantautore americano, fondendosi con la musica pop e allargandosi anche all’improvvisazione. La seconda parte del concerto, invece, è senza dubbio quella più sperimentale, quella in cui vengono toccate le sonorità più particolari che ci fanno capire la vera anima del quartetto. Il brano che ci ha colpito di più, infatti, si chiama Strategia della Tensione. Immaginate una chitarra distorta incastrata perfettamente con il timbro di un sassofono che ci ricorda le sirene della polizia o se preferite un disco volante che sta per atterrare sul pianeta terra. Immaginate tutto questo, che naturalmente viene accompagnato da un ritmo incalzante e deciso, e ottenete la strategia della tensione secondo l’Ettore Fioravanti 4et, una musica che certamente non si allontana dal jazz e che, allo stesso tempo, abbraccia le sonorità più sporche della musica psichedelica. Ed il risultato di questa serata è qualcosa di atipico, di sublime, una sperimentazione che va anche verso il pop e che, grazie all’alchimia dei componenti del quartetto, acquista un’identità ben definita.

Carlo Cammarella

foto di Roberto Panucci

Stefano di Battista women’s land featuring Gino Castaldo inaugura la nuova stagione dell’Alexandeplatz


Quando parliamo di musica, generalmente siamo portati a credere che un compositore per prima cosa scriva la parte melodica. Magari potremmo dire che è stato ispirato da un’immagine, da qualcosa che lo ha attirato, dal ricordo di un viaggio, da un paesaggio particolare, ma è raro che dietro ad un insieme di composizioni (quelle che poi possono dar vita ad un CD) ci sia un pensiero ben strutturato. Forse detto in questo modo, questo concetto potrebbe sembrare un po’ artificioso, ma questo succede soltanto quando parliamo di musicisti che hanno l’estro o l’intelligenza per creare qualcosa con solide fondamenta.

Perché questo preambolo così noioso? Effettivamente basterebbe esporre le cose così come si sono svolte o descrivere uno per uno i brani della serata che stiamo per raccontare, ma a dir la verità la cosa ci è sembrata un po’ riduttiva. E allora partiamo dall’inizio e diciamo che innanzitutto la riapertura dell’Alexanderplatz non poteva che offrire uno spettacolo migliore con il ritorno di Stefano di Battista, sassofonista di fama internazionale, che ha presentato il suo nuovo progetto Women’s Land. Insieme a lui sono saliti sul palco Roberto Tarenzi, al pianoforte, Dario Rosciglione, al contrabbasso, Roberto Pistolesi, alla batteria, e c’è stata anche la partecipazione straordinaria diGino Castaldo, uno dei critici musicali più importanti in Italia.

E così siamo arrivati al nodo cruciale. Ogni brano proposto dal quartetto è stato introdotto da una lettura di Gino Castaldo: sono le donne del passato, quelle che hanno lasciato il segno nella storia, le protagoniste delle composizioni, ognuna legata al suo tempo, alle sue tradizioni, alla sua natura e anche alla musica del periodo in cui è vissuta. Ed ecco svelato il motivo per cui dietro alle musiche di Stefano di Battista c’è un pensiero ben strutturato, perché queste donne, che siano Anna Magnani, Rita Levi Montalcini, o Lara Croft, hanno preso vita proprio grazie all’ispirazione di un gruppo di musicisti che si sono calati, momento per momento, in epoche, mondi e culture diverse.

Dunque, tornando alla splendida serata che venerdì scorso abbiamo avuto il piacere di vedere all’Alexanderplatz, diciamo che il concerto è cominciato con la descrizione di Rita Levi Montalcini; due note di basso hanno accompagnato la voce di Gino Castaldo che ha iniziato raccontando una parte della vita di questa importante scienziata, quella trascorsa negli Stati Uniti. E poi, dopo questo breve preambolo, è cominciata la musica, il sassofono lentamente è salito d’intensità e ha preso il sopravvento; le parole, ciò che resta del mondo razionale, hanno lasciato il posto alla melodia, all’emotività, all’inconscio del suono. Il brano è cominciato con una melodia molto dolce, per poi approdare in un blues, una musica un po’ nostalgica che ci ha trasportato per qualche istante da un’altra parte, in America, magari quando Rita Levi Montalcini era in vacanza o in una delle sue tante lezioni universitarie. E poi sono arrivate le prime variazioni, la musica si è trasformata in improvvisazione pura fino a tornare al tema originale.

Ma di donne su cui parlare bisogna dire che ce ne sono davvero tante. E quindi è arrivato il turno di Molly Bloom, la Penelope di Joyce, è arrivato quello di Anna Magnani, la cui figura è stata accompagnata da una melodia malinconica che ben si lega all’immagine di una donna fragile e triste. E sempre con un po’ di immaginazione, spaziando da un periodo storico all’altro, il quartetto ci ha fatto avvicinare a Lucy, la prima donna del mondo, passando per Lara Croft, associata ad un ritmo ed una musica più moderni ed incalzanti, fino a raggiungere Coco Chanel, elegante come sempre anche attraverso i disegni del sassofono.

Ogni donna ha una sua musica, un suo linguaggio, qualcosa che la rappresenta o che può essere una fonte di ispirazione. Stefano di Battista questo lo ha compreso perfettamente e per questo ha dato vita ad un progetto del tutto originale, capace di spaziare tra musica e lettura. E quindi, lo possiamo proprio dire, per l’Alexanderplatz non poteva che esserci un’apertura migliore, un modo originale per inaugurare una nuova stagione che sicuramente ci darà modo di apprezzare tanti altri musicisti.

Carlo Cammarella

foto di Mauro Romano

Toquinho incanta il pubblico di Villa Celimontana

Siamo giunti al 2 agosto, pochi giorni dopo la fine del grande esodo estivo, e Roma, città di caos, di traffico e di grandi viavai, è sempre più sgombera, sempre più calda, sempre più irriconoscibile. Soltanto pochi temerari sono rimasti a lavorare, a soffrire sotto il caldo giornaliero e a sognare di uscire dalla routine, ma per quei fortunati che sabato scorso (31 luglio) si sono recati a Villa Celimontana è stata sicuramente una serata indimenticabile, una di quelle che sogni di vedere da una vita e che non ti vuoi assolutamente perdere. Sul palco di una delle manifestazioni del jazz più attese dell’anno, è salita una persona che la musica l’ha percorsa in tutta una vita, un musicista che negli anni 50 ha cominciato a studiare la chitarra e che, partendo dalla bossa nova, ha sfiorato altri mille linguaggi fondendoli con quello della sua terra, il Brasile, un paese che di musica ne ha prodotta davvero tanta. E questo artista, poliedrico e virtuoso, è Antonio Pecci Filho, meglio conosciuto come Toquinho, da quel nomignolo che la madre gli ha attribuito quando era bambino.

Ve lo ricordate tutti vero? Toquinho, quel mago della chitarra, quel cantante raffinato che ha collaborato con il poeta Vinicius de Moraes, che ha cantato con Ornella Vanoni, che ha scritto canzoni indimenticabili, che ha girato l’Italia in diverse tournè, che adora il nostro paese forse perché è così simile al suo, forse perché è così diverso. Insomma, qui parliamo di uno dei mostri sacri della musica, di un’artista che in Italia c’è stato per molto tempo, lasciando un segno indelebile e scaldando i cuori di tutti quelli che lo hanno seguito; parliamo di uno che la chitarra l’ha studiata, l’ha assorbita e la reinventata con uno stile che esula da ogni classificazione di genere. E accanto a lui, special guest della serata, c’era anche una sua vecchia compagna di viaggi, una componente della sua band storica, Badi Assad, senza dubbio una delle cantanti brasiliane più interessanti in circolazione.

Ma torniamo a noi, cominciamo col dire che a partire dalle 20 e 30 non c’era più un biglietto, all’interno della villa i posti a sedere erano tutti esauriti e la gente scalpitava per trovarsi uno piccolo spazio davanti al palcoscenico. E quando Toquinho è salito sul palco, tutto è cambiato, quella musica è riuscita a creare una struttura armonica capace di trasportarci in un’atmosfera sublime, irreale, magica, che ti fa perdere la cognizione del tempo e che ti fa vivere scenari paralleli e surreali. Si comincia con un po’ di bossa nova, qualcosa di classico per rompere il ghiaccio, magari per riscaldare il pubblico, poi Toquinho si stacca dal gruppo, suona quella chitarra come soltanto lui sa fare e, fra un pezzo e un altro, dialoga con il pubblico in modo confidenziale, come se conoscesse uno per uno tutti i presenti. Certo, come dicevamo prima, la base su cui lavora Toquinho, il suo punto di partenza, è sicuramente la bossa nova, ma durante il concerto di momenti interessanti ce ne sono stati davvero tanti, come se l’intera esibizione fosse divisa in varie sezioni che vengono tenute in piedi da un unico filo conduttore.

E, oltre ad essere un musicista senza limiti, Toquinho è anche un abile comunicatore, ti spiega tutto quello che suona, ti trasporta nel suo territorio più congeniale raccontandoti tutto ciò che si nasconde dietro le melodie. E quando meno te lo aspetti ti sorprende con ritmi incalzanti che approdano in universi inesplorati, sono mondi paralleli che prendono l’ispirazione da una tradizione quasi ancestrale, che Toquinho definisce in due parole “Afro Samba”. E quando senti queste parole, quando ascolti un ritmo sudamericano così incalzante, qualcosa che attinge da mondi lontani e che si è trasformato nel tempo, allora capisci che stai ascoltando una musica irripetibile, una melodia che proviene da un incrocio di mondi che inspiegabilmente suonano. E , mentre rimani affascinato da tutto quello che la musica può comunicare, il concerto prosegue con una rapidità disarmante. Arriva anche il momento di Badi Assad e la musica acquista tutto un altro sapore. Cantante, chitarrista, percussionista unica possiede una voce capace di eguagliare la potenza di un’intera orchestra, qualcosa di simile ad un aereo che si schianta dolcemente sui timpani degli ascoltatori. Per un momento la vediamo cantare da sola, accompagnata dalla sua unica chitarra, poi comincia con quella tecnica che l’ha resa tanto famosa, utilizza il corpo, la voce come se fossero una percussione, come se lei, in prima persona, fosse uno strumento musicale che respira.

Ma il momento più toccante del concerto, quello che ti fa venire veramente la pelle d’oca, arriva quando Toquinho canta e suona quelle magiche melodie che sono nate dalle collaborazioni con artisti italiani; parliamo di quei brani che legano la nostra tradizione a quella del Brasile, musiche che vanno al di là dei confini e che rimbalzano dalla costa dell’oceano Atlantico per giungere a quella del mar Mediterraneo. E’ impossibile dimenticare “O que serà”, la canzone suonata con Fiorella Mannoia, oppure “La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria”, il frutto di un’importantissima collaborazione con Ornella Vanoni. E questi sono brani rimasti nel cuore degli italiani, qualcosa che ci fa veramente sentire vicini ad un artista, un musicista, capace di superare le frontiere. E alla fine del concerto Toquinho concede tre bis, come se non volesse andarsene dal palcoscenico, come se ci fosse un feeling fra lui ed un pubblico che non lo vuole allontanare. E che dire di più? Ascoltando questa musica, vedendo un artista di questo calibro su un palcoscenico così importante come il Villa Celimontana, abbiamo capito di aver assistito ad un concerto irripetibile. E forse le parole non sono sufficienti per spiegare le emozioni o per raccontare quello che veramente è stato il concerto di uno degli artisti più interessanti del mondo.

Carlo Cammarella

Michael Rosen Tricolor a Villa Celimontana

Quando parliamo del Brasile pensiamo subito alla samba, alla bossa nova, pensiamo ad una terra che ha prodotto tanta musica che oggi viene apprezzata ed ascoltata dappertutto. Sono melodie molto raffinate, che stanno facendo il giro del mondo e che oggi stringono la mano al Jazz mescolandosi con uno dei linguaggi più complessi della musica. Certo, che questi due generi siano confluiti in un unico discorso è un fatto più che assodato, un fatto che forse non stupisce neanche più di tanto, tranne quando ascolti alcuni geni che ti lasciano davvero senza parole. Parliamo del quartetto Michael Rosen Tricolor, quello che proprio ieri abbiamo avuto il piacere di ascoltare nella cornice di Villa Celimontana.

Lui, Michal Rosen, newyorkese trapiantato in Italia dal 1987, più che un musicista è un’istituzione, un mago del sassofono che ha alle spalle collaborazioni con artisti del calibro di Mina, Celentano, Renato Zero, Danilo Rea, Roberto Gatto, Stefano Bollani, Enrico Rava e Danilo Perez. E gli altri non sono da meno.Alfredo Paixao, bassista di Rio de Janeiro, ci viene subito in mente perché ha collaborato con Pino Daniele, mentre Israel Valera, il batterista del quartetto, è un giovane promettente di origine messicana capace di tener testa a dei colossi come quelli già citati. E infine c’è l’argentino Natalio Mangalavite, pianista, compositore, arrangiatore che, soltanto per citare qualche nome, ha collaborato con Fabio Concato, Ornella Vanoni, Javier Girotto e Peppe Servillo.

E veniamo al nostro concerto. Se pensate che questi musicisti, provenienti da diverse parti del continente americano, abbiano problemi di comunicazione, forse avete sbagliato concerto. Qui parliamo di gente che non ha bisogno di parole, che sale sul palco e con un’occhiata riesce a far convergere il linguaggio della musica dove meglio crede. Gente che ha studiato, cha ha passato la vita davanti allo strumento, che ti trasporta in mondi lontani con semplicità. Ieri i musicisti hanno deciso di trasportarci in Brasile, di farci atterrare nell’aeroporto di Rio, magari  salutando la statua del Cristo Redentore, e così è stato. Inizialmente hanno suonato qualche bossa nova molto raffinata, poi si sono cimentati in ritmi più incalzanti, di quelli che ti fanno venire voglia di battere il piedi e di metterti a ballare; il tutto senza trascurare la genialità dell’improvvisazione. Michael Rosen, con il sassofono è capace di una potenza inaudita, riesce a far muovere le sedie quando prende un acuto, ma anche di far uscire suoni delicati ed armoniosi. E sono proprio questi crescendo e diminuendo i protagonisti della serata, sono le improvvisazioni, l’alternarsi di brani lenti con altri molto più accesi.

Ma oltre ai ritmi sudamericani c’è anche qualcos’altro, qualcosa che ci ricorda la nostra terra, che ci appartiene, che ci fa respirare le atmosfere degli anni ’50 e, perché no, magari quelle di un film di Fellini con un bel sottofondo musicale; non a caso un brano del repertorio, peraltro uno dei più belli, si chiama “Un Film Italiano” e un altro ancora “Fotografia”, titoli e musiche azzeccate che colpiscono dritto al cuore, che ti fanno rilassare, che ti immergono nel passato attraverso i ritmi dell’America Latina. E poi Alfredo Paixao sa anche cantare bene, compie dei soli vocali all’unisono con il suo strumento e a volte il suo basso, brillante e molto presente, sembra quasi avvicinarsi alle sonorità (o magari alla filosofia stessa) di una chitarra elettrica. Quindi, verso la fine Paixao, canta “Anna Verrà”, una canzone di Pino Daniele, che per l’occasione viene proposta con una bossa nova che ci si sposa davvero bene. Il concerto si conclude con un samba, “Bala Com Bala”, un ritmo incalzante e veloce, di quelli che veramente ti fanno venire voglia di alzarti in piedi e di iniziare a ballare.

Dunque, quella di ieri è stata una serata che ci ha fatto vivere per un po’ l’atmosfera del Brasile, una serata da non dimenticare sotto il cielo di un’estate romana che da sempre ci regala forti emozioni.

Carlo Cammarella

A Concert of Sacred Music di Duke Ellington all’Auditorium

Quando parliamo di Duke Ellington, pensiamo ad uno dei mostri sacri della Musica del 900, pensiamo alle atmosfere newyorkesi degli anni 30, degli anni 40, degli anni 50; pensiamo alle big band, alle trasmissioni televisive in bianco e nero, alle vecchie registrazioni in vinile, ad un Jazz orchestrale che sfugge alle etichette ed alle classificazioni di genere. Tuttavia, pochi sanno che nell’ultima parte della sua vita, tra il 1965 ed il 1974, Duke compose 3 “Concerti di Musica Sacra” per big band, coro e voce solista che rappresentano una sorta di testamento spirituale di uno dei più grandi musicisti del 900. 

Questi concerti gli vennero commissionati in ordine di tempo dall’episcopato della California (per la Grace Cathedral di San Francisco), dall’episcopato di New York (per la Cattedrale di San John the Divine di New York) e dal Presidente Sir Colin Crow (per l’Abbazia di Westminster di Londra in occasione del 25° anno delle Nazioni Uniti). Duke Ellington, che ha sempre considerato questa musica come la più importante della sua vita, amava presentare una scelta fra questi tre concerti dal titolo “A Concert for Sacred Music”. E quella che abbiamo ascoltato ieri sera alla Cavea dell’Auditorium è stata un’esecuzione più che fedele alla musica originale e ai manoscritti di Duke Ellington, oggi conservati allo Smithsonian Institute di Washington. Petra Magoni, versatile e brillante come sempre, ha interpretato le parti di Alice Babs, la cantante svedese che ispirò a Duke Ellington molte melodie del secondo e terzo concerto, ed è stata accompagnata dal PMJO (Parco della Musica Jazz Orchestra) e dal Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

Dopo che i musicisti sono saliti sul palco della Cavea, la musica ha preso subito il sopravvento e ci ha trasportato da un’alta parte, in un’altra città, magari nei luoghi dove suonava Duke Ellington o magari in qualche Chiesa americana dove spesso il rito viene accompagnato dal canto e dalla musica. Quella di Duke Ellington è una musica originale, ma con un forte senso di appartenenza ad una cultura, quella afro-americana, trapiantata negli Stati Uniti. E’ qualcosa che ti ispira serenità, che ti fa venire voglia di chiudere gli occhi per immaginare di passeggiare lungo le strade newyorkesi, magari quando cade la neve e i tetti dei grattacieli sono ricoperti da un soffice manto bianco. La fusione fra la musica classica ed il Jazz ci sembra l’elemento preponderante di questa musica, quello che forse la rende unica ed inconfondibile. Ed è difficile sezionare i vari momenti in cui un genere o un linguaggio ne sostituiscono un altro, perché l’insieme di canto, orchestra e coro, si amalgama in maniera perfetta, come solo i grandi direttori d’orchestra sanno fare.

Petra Magoni dialoga con il coro in un botta e risposta, a volte recitano insieme come se pronunciassero una preghiera, poi c’è un assolo di pianoforte, poi subentrano i fiati del PMJO che fraseggiano fra loro alternandosi l’uno con l’altro, poi la musica approda in uno swing incalzante. E tutto questo confluisce in un unico discorso, senza che uno abbia l’impressione che siano stati usati linguaggi diversi. E forse è proprio così, forse Duke non pensava di certo ai generi musicali quando componeva questa musica, magari aveva in mente delle immagini ben precise che lo trasportavano in luoghi sconosciuti o più semplicemente aveva la capacità di astrarsi da tutto il resto del mondo. Ma diciamo la verità, queste cose appartengono soltanto ai grandi geni, appartengono a quelli che riescono a distaccarsi dal presente per immergersi totalmente nella musica. E questo lo diciamo perché tutti questi linguaggi, a metà fra il classico, il jazz ed il sacro, confluiscono in un unico discorso senza che il tutto venga reso artificioso. E quello che abbiamo ascoltato ieri sera all’Auditorium, è stato un omaggio più che degno ad uno degli artisti più originali di tutti i tempi.

Carlo Cammarella

Stefano Bollani e Chick Corea all’Auditorium

Quando si ascolta un concerto, o magari un disco, in cui l’unico strumento è il pianoforte, l’impressione è quella di avere davanti qualcosa di autosufficiente, che si completa da sé. Ma quando di pianoforti ce ne sono due, quando al posto di due mani ce ne sono quattro, ciò che da solo sembra completo diventa sublime, perfetto, un intreccio di colori che attraverso il suono raggiunge le parti più nascoste del nostro udito. Proprio come ieri sera alla Cavea dell’Auditorium, quando all’ora del tramonto, mentre il cielo della capitale cominciava a cambiare colore, sono saliti sul palcoscenicoStefano Bollani e Chick Corea. Due stili diversi, due modi quasi opposti di approcciarsi alla tastiera, Bollani davanti al suo strumento non sta mai fermo, salta sullo sgabello, si alza in piedi, batte il piede scandendo gli accenti ritmici, tutto quello che suona lo vive attraverso i movimenti del corpo. Corea, invece, è più posato, si muove meno, ma se lo si guarda attentamente si può notare che muove il labiale, come se stesse cantando all’unisono i suoni che produce accarezzando la tastiera. Che dobbiamo dire, allora? Forse che gli opposti si attraggono e che, quando sono così opposti, la raffinatezza del suono e gli intrecci armonici, anche se improvvisati in quell’istante preciso, sono davvero perfetti.

E, quindi, senza che uno se ne accorga, poco dopo che i due pianisti si sono seduti sullo sgabello, il concerto è già entrato nel vivo, Bollani e Corea dialogano a suon di note, a volte anche a gesti, come se fossero l’uno l’alter ego dell’altro, è difficile comprendere chi in quel momento stia suonando un assolo, chi l’accompagnamento o chi magari un walking bass, perché quella che ascoltiamo è una vera e propria pioggia di note che viene giù come grandine, che si scaglia dolcemente sull’udito di un pubblico ipnotizzato. E’ una musica che ti prende, che ti stuzzica, che ti stupisce. E, mentre sei totalmente preso, mentre sei ipnotizzato da un insieme di armonie che siannodano l’una all’altra come le spire di due serpenti, Bollani e Corea continuano a suonare, a perdere la cognizione del tempo, a non dare alcun punto di riferimento, come se giocassero a spiazzarti attraverso le costruzioni armoniche.

Il gioiello della serata, il brano che spicca su tutti, arriva poco prima della fine del primo set ed è un pezzo scritto da Chick Corea, ovviamente arrangiato per l’occasione, che si chiama “Spain”. Dura 20, 25, forse 30 minuti, difficile dirlo con precisione perché di certo, quando ascolti due musicisti suonare in questo modo, non ti viene voglia di guardare l’orologio. Il brano comincia con delle scale ascendenti che si alternano con scale discendenti, poi va in crescendo, in diminuendo, è un’improvvisazione pura che scaturisce dall’emozione del momento. A un certo punto sembra che dialoghino fra loro, cominciano un botta e risposta che parla attraverso il linguaggio della musica. E poi, dopo circa 10 minuti di preludio, approdano al tema della canzone. In questo modo si conclude il primo set, fra gli applausi di un pubblico che rimane a bocca aperta. 

Durante la seconda parte della serata cambiano registro, iniziano una musica più dissonante, forse meno orecchiabile e più elaborata, sempre con questi crescendo e diminuendo, che somigliano alla marea dell’oceano che a tratti sovrasta la spiaggia per poi portarsi via qualsiasi cosa. Ma c’è anche il tempo per i ritmi sudamericani, molto amati da Corea, per qualche standard come “There will never be another you” e c’è anche il tempo per un piccolo colpo di scena. A un certo punto Bollani si alza in piedi, si avvicina al microfono, si accende una sigaretta, comincia a cantare accompagnato dalle note del collega statunitense, poi si siede e fa un assolo vocale andando all’unisono con il pianoforte. E il concerto prosegue fino all’ultima sfumatura, c’è tempo per un bis, anche per un tris, il pubblico non li vuole proprio lasciare andare via e si avvicina alle ringhiere del piano superiore della Cavea per chiedere a suon di battiti di mano il ritorno dei due musicisti. Loro apprezzano, salgono sul palco nuovamente e concludono la serata con un altro standard: “Blue Monk”. Cosa possiamo dire di più? Quando due virtuosisti sanno suonare bene ed eccellono nel loro strumento è una cosa, quando al talento si uniscono anche una buona dose di divertimento e di ironia, la musica emoziona ancor più di quello che già potrebbe. Ed è quanto successo ieri sera all’Auditorium.

Carlo Cammarella

Un nuovo Max Ionata Trio all’Alexanderplatz

E’ stato un esperimento quello al quale abbiamo assistito venerdì sera all’Alexanderplatz, il primo concerto in cui questa formazione si è esibita dal vivo, la prima volta in cui Max Ionata al sassofono, Nicola Angelucci alla batteria e Vincenzo Florio al contrabbasso sono saliti sul palco insieme. C’è da dire che i musicisti già si conoscevano, Nicola proviene dallo stesso paese di Max, è presente in molti dei suoi dischi e fra i due c’è un’intesa perfetta. Anche per Vincenzo non si tratta di una prima volta, ha collaborato con Max in altre occasioni e possiede quell’alchimia necessaria per integrarsi fin da subito nel trio. E poi, quando la cornice in cui si suona è l’Alexanderplatz, l’atmosfera che si crea suscita forti emozioni e mette tutti a proprio agio.

Mentre aspettiamo che il concerto cominci, le luci sono ancora piuttosto tenui, i musicisti parlano delle ultime cose davanti al bancone del bar e dal palco si intravede soltanto la scritta azzurra con il nome del locale. Ma non appena il trio sale sulla scena, bastano pochi minuti, qualche sguardo d’intesa e scatta subito qualcosa, una scintilla prende subito vita e la parola passa direttamente alla musica. Si parte con un po’ di improvvisazione pura, qualcosa per rompere il ghiaccio con il pubblico del locale, poi si passa all’esecuzione di alcuni standard come  “A Weaver of Dreams”, “A Nearness of You” e “Woodin’ You”; alcune canzoni famose, altre un po’ meno, ma ciò che conta realmente è che le melodia raggiunga la sensibilità degli ascoltatori.

Esperimento riuscito, l’intesa si consolida fin da subito e tra uno standard e un altro c’è ampio spazio per l’improvvisazione dei singoli. Spicca il suono profondo del sassofono, spiccano le variazioni ritmiche della batteria, spiccano anche quei silenzi che messi al punto giusto possono dare quel tocco particolare al brano di turno. E durante il secondo set, poco prima della fine del concerto, non poteva mancare un gioiellino che abbiamo ascoltato con piacere, un tocco di inventiva e di virtuosismo che troviamo soltanto nei jazzisti più bravi. Il trio, infatti, si cimenta con Out of Nowhere, uno standard molto conosciuto, che tuttavia viene eseguito con un arrangiamento creato dai musicisti per l’occasione, cioè una Bossa Nova meno scandita, con aperture più particolari spesso utilizzate nel jazz moderno. Il concerto, quindi, scorre veloce, le note del sassofono continuano a deliziare l’udito dei presenti e Max, dopo un’ora e mezza di performance, saluta il pubblico che entusiasta applaude il trio.

A fine serata ci avviciniamo ai musicisti per farci raccontare alcuni retroscena. Max ci spiega che, pur avendo fatto poche prove, è contento di come si sono comportati sul palco, il trio è una delle formazioni che predilige e non è vero che senza pianoforte la musica è incompleta, anzi la dinamica dei brani acquista delle sonorità molto interessanti. Anche lui è d’accordo con il nostro giudizio, il brano riuscito meglio è senza dubbio Out of Nowhere che, grazie a quella ritmica particolare, ha acquisito un taglio distinguibile e personale; un’idea di Vincenzo che con l’occasione ha voluto proporre quel ritmo per quel preciso brano. Dopo questa breve chiacchierata Max ci saluta dicendoci che spera di poter suonare nuovamente con questa formazione e, quindi, di tornare presto nel locale. Dunque, lo possiamo proprio dire: “Buona la Prima” per questo nuovo “Max Ionata Trio”. E a questo punto non vediamo l’ora di poter assistere anche ad una seconda ed una terza volta.

Carlo Cammarella

Carol Sudhalter – The Octave Tunes – una recensione

Pubblicato dall’etichetta discografica Alfa Music, The Octave Tunes è il decimo lavoro che porta la firma diCarol Sudhalter, sassofonista e flautista statunitense, che già da tempo ha dimostrato un amore incondizionato per il nostro paese. Il suo ultimo progetto, che vede la partecipazione di numerosi musicisti, fra cui spicca come special guest Vito di Modugno (hammond), rispecchia tutta la sua esperienza maturata negli innumerevoli progetti musicali a cui ha preso parte. Ed è l’eleganza, secondo noi, la caratteristica principale che da sempre ha contraddistinto una musicista versatile ed espressiva. Un’eleganza che troviamo perfettamente presente in The Octave Tunes e un nome curioso scelto perché tutti i brani cominciano proprio con un intervallo di ottava.

E veniamo subito al contenuto di questo Cd. Carol Sudhalter, che troviamo in questo caso al flauto, al sax tenore e soprano, ama spaziare fra diversi stili. E non stupitevi se accanto agli standard di Duke Ellington o di Haven Gillespie, troverete dei classici come Somewhere Over The Rainbow o Alice in Wonderland, oppure musiche meno conosciute dal sapore spagnoleggiante. Non stupitevi perché tutto il contenuto di The Octave Tunes è scelto ed arrangiato con cura ed armonia. Carol Sudhalter, che è una musicista dalla grande esperienza, ama rileggere i brani in maniera personale, senza, però, cambiare il senso o la direzione che l’autore ha deciso di imprimere alla sua opera. Motivo per cui ciò che fuoriesce da questo progetto è un lavoro di facile ascolto, molto delicato, che non travalica troppo i confini di quanto è stato già scritto. Quindi, non aspettatevi quella tendenza alla sperimentazione o a mescolare i generi che caratterizza molti dei musicisti moderni, ma semplicemente il gusto di suonare dei brani che non hanno bisogno di essere stravolti.

Degno di nota è anche il fatto che a seconda dello strumento utilizzato da Carol Sudhanter il brano che ascoltiamo acquista un colore diverso. Si passa dal suono più delicato del flauto a quello più cupo e gutturale del sax baritono: lo strumento che, secondo noi, riesce a dare quel tocco di originalità in più rispetto agli altri. E poi basta ascoltare Somewhere Over The Rainbow oppure You go to my Head di Gillespie per capire che lo strumento giusto nel posto giusto fa davvero la differenza. Un tocco di grazia in più lo dona anche lo hammond di Vito di Modugno che ci regala una versione molto personale diDaydream di Duke Ellington. Insomma, un CD di facile ascolto, in cui spiccano la grazia e l’eleganza di una musicista versatile ed essenziale.

Carlo Cammarella  

Scott Colley – Empire – una recensione

Scott Colley non ha di certo bisogno di presentazioni. Navigato contrabbassista dall’esperienza pluridecennale ha collaborato come side man con artisti del calibro Herbie Hancock, Jim Hall, Andrew Hill, Michael Brecker, Chris Potter e Pat Metheny. Un curriculum d’eccezione che lo fa figurare sicuramente fra i grandi nomi del jazz americano ed internazionale e che lo vede partecipare a più di 100 registrazioni in altrettanti progetti. Il suo ultimo lavoro da leader, pubblicato da Cam Jazznel 2010, si intitola Empire e vi partecipano musicisti comeRalph Alessi (tromba), Brian Blade (batteria), Bill Frisell (chitarra elettrica) e Craig Taborn(Piano). Un lavoro pregevole in cui la commistione dei singoli elementi genera un piacevole stato di tensione capace di ipnotizzare l’ascoltatore.

Quindi, senza troppi giochi di parole, la prima cosa che possiamo dire dopo aver ascoltato questo CD è che Scott Colley la voglia di sperimentare ce l’ha davvero nel sangue. E non lo diciamo soltanto perché questa è la costante invariabile di questo lavoro, ma soprattutto perché il risultato è qualcosa di veramente sorprendente e di unico. L’insieme armonico che accompagna melodie semplici ed orecchiabili dà, infatti, quella marcia in più ad un disco che senza quell’alchimia di gruppo non sarebbe sicuramente lo stesso. E sono proprio le dissonanze, gli accordi lasciati in sospeso, una punta impercettibile di psichedelia a rendere questo lavoro unico e accattivante. E di conseguenza non è soltanto l’estro dei singoli ad uscire fuori, ma il lavoro d’insieme che, unito ad uno spiccato utilizzo di dissonanze, aggiunge quell’alchimia necessaria alla riuscita di un lavoro che potremmo facilmente paragonare, tanto per fare un esempio, ad un quadro futuristico d’avanguardia.

Il Cd si apre con “January”, un brano anch’esso dalle sonorità dissonanti che comincia in modo quasi sospeso e che prosegue con una melodia sempre più nitida. Ma l’anima sperimentale di Colley è visibile in quasi tutti i brani di Empire a partire proprio dal secondo: “The Gettin Place” dove, insieme alle dissonanze, spicca une perfetta pulizia del suono che, unita a cambi di tempo e di stile, fa davvero la differenza. C’è lo spazio anche per melodie più dolci e per così dire, più nitide, come “For Sophia”, terza track, e “5:30 A.M”, brano che ci ricorda quella confusione tipica delle ore mattutine, quando tutti fanno fatica a carburare. Insomma, quello che ci teniamo a sottolineare è che Scott Colley ha sicuramente costruito Empire con un filo conduttore ben preciso e distinguibile. Quindi, vi consigliamo vivamente di ascoltare questo CD con un buon impianto che sicuramente vi darà modo di distinguere i colori e le sfaccettature che lo compongono.

Carlo Cammarella

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