Il D’Amico Da Ros Duo racconta il nuovo disco: “Un progetto per recuperare le radici del suono”
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Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, Di Crepe, di Sogni e di Futili Desideri è l’ultimo disco del D’Amico da Ros Duo. Un disco sperimentale in cui una musica essenziale, ridotta all’osso raggiunge nuovi territori grazie all’utilizzo dei loop, dell’elettronica e delle percussioni. La band è composta da Cristiano Da Ros al basso e Gabriella D’Amico al canto ed insieme ci hanno raccontato questo nuovo progetto…
Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?
Certo, Carlo! Partiremmo dal titolo, “Di Crepe, di Sogni, di Futili Desideri”. Diciamo pure che, per intitolare un disco così, ci vuole almeno un po' di incoscienza, poiché è alto il rischio che chi voglia ascoltarlo neanche si ricordi come si chiama! Detto questo, abbiamo rischiato, perché il titolo racchiude il senso del progetto e di quello che intendiamo esprimere sia con la musica che con i testi. Viviamo in un mondo per lo più impegnato a perseguire desideri “utili”. Il danaro, la fama, una certa qual “serenità” che consenta di “vivere bene” senza rischiare troppo. Ma che vita è questa, se non una vita che ha il sapore della morte in partenza? Il desiderio è una forza dirompente, che ti porta a sognare mondi possibili e a perseguire “desideri futili”. Quei desideri che, a detta di molti, non portano da nessuna parte e che, tuttavia, sono i soli desideri in grado di farti sentire davvero vivo. Ecco, volendo sintetizzare, il disco parla di questo: della voglia di vivere che non si ferma davanti agli ostacoli, che non ha paura di guardare dentro le crepe, che non ha paura del dolore e dell’angoscia connaturata al desiderio e che soprattutto, si muove realizzando cose che, magari, per altri sono futili, ma per chi le desidera, sono l’essenza delle giornate.
Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?
Il progetto nasce da un’idea ben precisa: recuperare le radici del suono, cioè il ritmo e la melodia, per poi costruirci intorno qualcosa di molto diverso. Abbiamo cominciato a suonare insieme nel 2016. All’epoca si trattava di un repertorio acustico, prettamente costituito da standard jazz della tradizione americana. Poi ci siamo detti: perché non aggiungere un po' di elettronica? E, così, è nato il nostro primo disco, “Shades of Freedom”, che raccoglie standard jazz, ma anche brani rock/pop, completamente ri-arrangiati per voce e contrabbasso, e con un notevole uso dell’elettronica. Dopo questo primo lavoro, abbiamo dato fondo a tutto il materiale inedito che, negli anni, ognuno per sé, aveva accumulato e lavorato, lo abbiamo totalmente rielaborato e così è venuta fuori l’idea di un disco composto di soli brani inediti, per di più in italiano, che abbiamo voluto colorare con un ampio lavoro di post produzione. Risultato: un disco che, come sappiamo e come ci è stato detto da più parti, è difficile da etichettare. Ma questo era un rischio calcolato e, come per il titolo, abbiamo deciso di correrlo, trovando nella Emme Record Label l’etichetta giusta cui, a quanto pare, piace rischiare quanto noi!
Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?
Dipende. Un punto di partenza, relativamente alla scrittura di testi in lingua italiana: fino ad oggi, avevamo scritto solo in lingua inglese e per me (Gabriella) l’inglese era un ottimo modo per nascondermi, mentre l’italiano mi costringe a svelarmi. Una fotografia di quello che siamo oggi, relativamente alla musica e ai testi. Sicuramente non un punto di arrivo: siamo già al lavoro sul prossimo disco. Chissà cosa succederà questa volta!
Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?
Gabriella: per me, come cantante, fondamentali sono state e sono senza dubbio due icone del jazz e mi riferisco a Billie Holiday e Nina Simone. L’influenza che ho subito da entrambe non è nel però nel modo di cantare, ma nell’approccio alla musica, nel calore che entrambe mettevano nel fare quello che facevano. Rachelle Ferrel, saltando di qualche anno in avanti, per alcuni stilemi dai quali traggo ispirazione qua e là. Poi, naturalmente, ci sono i musicisti: Miles David, Duke Ellington, Charles Mingus, Bill Evans, per restare in ambito jazz. Ma se esco dal jazz si apre un altro mondo e allora, in quello che ispira il mio lavoro, c’è molto rock-prog anni 70 (Pink Floyd, Yes, Emerson Lake and Palmer), ma c’è anche tanto cantautorato italiano, da Dalla (che più che un cantautore era un genio assoluto), a De Gregori, a Guccini, a De André. Nei miei testi in italiano qualcosa c’è anche che viene da loro direi. Da ultimo, ci sono figure come Fiona Apple, Björk, PJ Harvey, la cui creatività musicale e vocale nonché la capacità di giocare con la voce e con i suoni, non può che costituire un riferimento e un’ispirazione per me.
Cristiano: di primo acchito, Charles Mingus e Dave Holland, entrambi non solo grandi contrabbassisti ma anche compositori prolifici ed arrangiatori raffinati. Molte delle cose che ho scritto sono state ispirate dal loro lavoro. Molte altre figure del Jazz sono state importanti nella mia crescita sia come musicista sia come bassista: Monk, Davis, Ellington, Gil Evans, Ron Carter e Ray Brown, Jaco Pastorius. Ho avuto la fortuna di studiare con Hein Van de Geyn, Eddie Gomez e Rufus Reid è stata, anche umanamente parlando, un’esperienza davvero illuminante. Musicalmente parlando, nasco come bassista elettrico e ho lavorato in molti ambiti, specialmente nel mondo del Blues, che amo particolarmente e che mi ha dato davvero molto. Riflettendo sulla musica che mi ha maggiormente influenzato, molta è quella che è nata e si è sviluppata il quel periodo magico periodo che sta a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70.
Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?
Lavoriamo percorrendo strade diverse ogni volta. Senza dubbio quello che abbiamo sperimentato in questo disco e cioè, da un lato, la lingua italiana nei testi, dall’altro, un mix che noi stessi non ci aspettavamo tra la voce, il contrabbasso e la post-produzione elettronica, è risultato per noi e - a quanto pare - anche per gli altri, un punto stilistico di approdo interessante. Pur non credendo di fermarci qui, lo consideriamo senz’altro una cifra stilistica che, almeno per il momento, immaginiamo ci accompagnerà anche nei progetti a venire.
Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?
Stiamo già lavorando ad un altro disco in italiano, ma in verità ne abbiamo anche uno in inglese, praticamente finito, ma ancora non registrato e scritto prima di Di Crepe, di Sogni, di Futili Desideri. Siamo un po' indecisi sul cosa portare avanti e, anche questa volta, credo che ci faremo guidare dall’ispirazione del momento come è stato con questo disco, nato mentre ne stavamo scrivendo un altro (quello in inglese!). Possiamo senz’altro dire che, se anche fosse il disco in inglese a “vincere la gara”, ovviamente verrà riletto alla luce dell’esperienza che abbiamo fatto quest’anno. Quanto ai concerti, al momento abbiamo qualcosa in programma per l’estate, principalmente concerti legati al circuito della Emme Record Label che, anche in un momento così duro per la musica, continua a lavorare sodo e a non fermarsi. Per il resto, speriamo di ricominciare presto anche su Milano, ma questo purtroppo, al momento, non dipende da noi.