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Beatrice Arrigoni racconta Nel canto presente: “Un disco dedicato alla poesia italiana contemporanea”

 

Pubblicato dall’etichetta Honolulu Records, “Nel Canto Presente” è l’ultimo disco che porta la firma del duo formato da Beatrice Arrigoni e Fabrizio Carriero. Un progetto sperimentale, dedicato alla poesia italiana contemporanea, in cui l’improvvisazione ha un ruolo senza dubbio preponderante. Ne abbiamo parlato con Beatrice Arrigoni.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Nel Canto Presente” è un duo sperimentale formato da me alla voce e agli effetti, e Fabrizio Carriero alla batteria e alle percussioni. È un progetto dedicato alla poesia italiana contemporanea nel quale converge un lavoro di ricerca condotto negli ultimi anni sulla parola poetica, e sulle possibili connessioni col suono e col gesto improvvisato. In ogni pezzo abbiamo musicato delle poesie italiane (in maggior parte contemporanee) utilizzando l’improvvisazione sia come metodo di costruzione del brano che come elemento narrativo: il processo compositivo ha portato come risultato a dei brani strutturati più che a improvvisazioni vere e proprie, laddove  tuttavia all’improvvisazione viene sempre riservato un momento specifico all’interno di ogni brano, e laddove il gesto e il materiale utilizzato (per quanto prestabilito e indicato a parole in una semplice partitura visuale)  portano sempre a risultati estemporanei e unici, legati al qui ed ora; in questo senso “Nel Canto Presente” è anche un progetto di improvvisazione.

La selezione dei testi è stata condotta sia in base alla mia predilezione per liriche dal carattere evocativo, astratto e scarsamente narrativo, sia in base al desiderio personale di non dare spazio ai classici della tradizione ma ad autori contemporanei legati anche al mio vissuto: alcuni poeti provengono dalle mie terre d’origine (Bergamo e Alberobello) e alcuni li conosco di persona; ho pensato di mettere in musica le loro parole anche in virtù del legame diretto che c’è con loro.

La scelta di utilizzare testi della contemporaneità nasce dal desiderio di abbracciare il nostro tempo: abbiamo sentito come importante e urgente parlare dell’oggi all’oggi, così come suonare qualcosa di attuale nel senso di irripetibile, perché legato al presente e all’istante preciso della performance. È stato poi naturale orientarsi verso la poesia, perché rappresenta un ambito letterario molto fertile dal punto di vista musicale in termini di forma, ritmo, metro, significanti e significati, contenuti, “evocazioni”. Tra le altre cose, la poesia non ha sempre referenti precisi dunque lascia spazio al vago e all’astratto, all’interpretazione personale, mentre il suo carattere fortemente espressivo riesce a dare un peso espressivo anche alla musica.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Io e Fabrizio Carriero abbiamo iniziato a suonare insieme nel 2015, quando abbiamo deciso di provare a improvvisare utilizzando come elemento di partenza dei testi poetici in inglese. Ci siamo incontrati nei circuiti del jazz milanese nonché a scuola, presso i “Civici Corsi di Jazz” di Milano, ma l’ispirazione non è arrivata dagli ambienti accademici. Lo spunto è giunto da un lato attraverso un incontro con Norma Winstone avvenuto in un workshop del 2015 – durante il quale la cantante confidò di ispirarsi alla poesia per scrivere i propri testi –, dall’altro lato attraverso il lavoro condotto sotto la guida del compositore e pianista Stefano Battaglia, nei suoi laboratori di ricerca dedicati all’improvvisazione.

All’inizio del nostro connubio io e Fabrizio abbiamo scelto di lavorare sulle liriche di Emily Dickinson, la cui produzione poetica vastissima è caratterizzata da una forte musicalità a livello metrico-formale; per certi versi non è stato facile capire come costruire i brani, ma dal punto di vista del canto è stato per me molto naturale lavorare con l’inglese, perché è la lingua che utilizzo di più da sempre; abbiamo lavorato su aspetti musicali molto elementari sfruttando la natura timbrica, melodica e percussivo-ritmica dei nostri strumenti, e intorno agli elementi parametrici di base della musica – declinabili ovviamente in maniera diversa – abbiamo costruito delle strutture precise per ogni poesia. Ci piaceva l’idea che il suono d’insieme fosse acustico, che nella sua semplicità e funzionalità mantenesse un carattere “primordiale” – in virtù degli strumenti coinvolti, che per certi versi sono quanto di più primordiale esista –, e per questo non ci siamo preoccupati di aggiungere altri particolari strumenti oltre a quelli impiegati. Il progetto su Emily Dickinson ha assunto una forma definitiva prendendo il nome di “My River runs to thee”, ed è stato pubblicato nel 2018.

Nel corso degli anni, tuttavia, ho personalmente maturato la necessità di una maggior connessione col testo dal punto di vista dell’autenticità e della spontaneità, e in questo senso ho compreso che l’italiano poteva rappresentare una scelta importante e preziosa, anche in considerazione della mia passione per la lingua italiana e per la scrittura (non a caso sono laureata in Lettere Moderne). Abbiamo pensato che l’italiano potesse dare stimoli molto diversi e che potesse portare a risultati inediti, e al tempo stesso – proprio per la difficoltà che comporta improvvisare col testo italiano – abbiamo vissuto l’idea dell’italiano come fosse una “sfida”.

Gradualmente abbiamo sentito anche il bisogno di integrare l’organico con nuovi elementi timbrici (non necessariamente acustici) e di lanciarci su un repertorio di testi più “attuale”: la ricerca di nuovi suoni, di nuovi testi e di nuovi equilibri timbrici ha portato alla nascita di “Nel Canto Presente”, dopo un periodo piuttosto ampio di sperimentazione su testi contemporanei anche diversi, che alla fine non sono convogliati nel disco ma attraverso i quali siamo riusciti a trovare un nuova dimensione espressiva in rapporto all’italiano. Sembra superfluo, ma la scelta della lingua nel canto è davvero cruciale per la resa musicale complessiva, soprattutto in un progetto in cui il suono – inteso come elemento puro, nella sua essenza – è il punto focale del lavoro. In ogni caso, abbiamo fatto in modo che la sonorità del progetto avesse un carattere per certi versi anche “rituale” (oltre che “primordiale”), attraverso la scelta di armonie modali, bordoni, melodie stilisticamente affini al canto etno/folk (che io amo particolarmente).

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

“Nel Canto Presente” rappresenta un po’ tutte queste cose, insieme. Innanzitutto penso che un disco sia sempre e comunque la testimonianza di un momento preciso, poiché l’artista è in continua evoluzione: il disco non può che essere manifesto di una particolare fase espressiva e stilistica, ma la sua unicità sta proprio nella capacità di rappresentare un momento particolare della storia dell’artista. In secondo luogo, il nostro attuale progetto è sicuramente il punto di arrivo di una ricerca che si è espansa ed evoluta nel tempo, e che per certi versi ha anche esaurito alcune sue forze propulsive; non smette però di essere un percorso in continua evoluzione, sia perché non è nella nostra natura smettere di fare ricerca, sia perché il progetto stesso ha di per sé un carattere cangiante e irripetibile in quanto connesso al linguaggio improvvisativo. Ci sarà sempre un elemento di novità ogni volta che suoniamo questo repertorio: l’evoluzione sta nel compiere sempre gesti diversi e nuovi, e la possibilità di suonare i brani agendo in maniera differente – senza che la musica crolli o che sia compromessa – ci dà la sensazione di poter crescere ed evolverci senza dover per forza mettere un punto conclusivo all’esperienza. Questo perché la natura del repertorio è quella di brani strutturati ma non veramente scritti, per cui abbiamo sempre una certa libertà dal punto di vista espressivo, gestuale, e di materiale da utilizzare. Ciò non toglie, naturalmente, che il disco apra a riflessioni di varia natura su prospettive progettuali future, ed evoluzioni ulteriori dal punto di vista dello stile, del linguaggio, dell’approccio alla musica e all’improvvisazione.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Quando io e Fabrizio abbiamo cominciato a lavorare insieme non avevamo in mente degli esempi particolari di duo voce e batteria a cui ispirarci; abbiamo sperimentato con tutto quello che potevamo mettere in campo di nostro dal punto di vista dei generi e degli stili, lasciandoci alle spalle con totale spontaneità l’idea di improvvisare come due musicisti di jazz. In questo senso, è stato cruciale il nostro eclettismo musicale e l’apertura a linguaggi diversi, tanto che ci è venuto naturale trovare una nostra dimensione musicale ed espressiva. La prima fase del lavoro è stata di estrema sperimentazione, e spesso le prove consistevano in una parte iniziale di “esercizi” di improvvisazione e di libera improvvisazione senza testo, utili a farci entrare in sintonia, a farci trovare la giusta dimensione di interplay (anche a livello mentale), utili a farci lavorare su singoli parametri musicali e narrativi.

Nel nostro progetto converge comunque tutta la musica che abbiamo ascoltato prima e durante questi anni di lavoro insieme, sia musica a cui ci siamo ispirati insieme per il duo, sia musica a cui ci siamo accostati individualmente in base al nostro gusto personale. Dal punto di vista del duo sono stati di riferimento, tra i vari: Monica Demuru e Cristiano Calcagnile – eccezionali performer che abbiamo ascoltato dal vivo più volte – , Abbey Lincoln e Max Roach – in particolare nei momenti di duo contenuti nel disco We Insist! Freddom Now Suite –, gli artisti ECM Tamia e Pierre Favre, il batterista Günther Sommer e la cantante Irene Schweizer.

Per quanto mi riguarda, mi hanno ispirato ad esempio i lavori sulla voce di alcuni compositori come John Cage, Luciano Berio, George Aperghis, György Ligeti, nonché cantanti come Cristina Zavalloni, Maria Pia De Vito, Norma Winstone, Sara Serpa, Jen Shyu, Björk, e artiste ECM di estrazione etno-folk come Savina Yannatou (interessante soprattutto nei lavori con Barry Guy), Iva Bittova, Areni Agbabian, e Sidsel Endresen; è stata importante per me anche la musica vocale del Rinascimento e del Barocco, nonché le arie antiche. Quanto a Fabrizio, sono sempre state forti le influenze del trio di Keith Jarrett, ma tra i batteristi che più lo hanno influenzato ci sono sicuramente Carlo Virzi, Michele Rabbia, Roberto Dani, Christian Lillinger.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Non abbiamo ancora idee precise circa l’evoluzione del progetto, ma le direzioni potrebbero essere quella dell’aggiunta di nuovi membri all’interno del gruppo come un musicista di elettronica, e quella del lavoro su testi originali scritti da noi. Dal punto di vista musicale, ci piace l’idea di unire in maniera più definita e compiuta l’aspetto acustico e quello elettronico attraverso la presenza di qualcuno che sia esperto di live electronics, mentre sotto il profilo narrativo sarebbe bello costruire una nostra drammaturgia tramite la scrittura di testi che raccontano una storia, o che sono legati tra loro da un tema dominante, da un filo conduttore che scegliamo noi. Si tratterebbe cioè di scrivere dei testi appositamente, e non più di musicare brani preesistenti. Ancora, potrebbe essere interessante sperimentare con testi di prosa, che hanno un’impostazione discorsiva completamente diversa da quelli di poesia. Ma abbiamo bisogno di tempo per maturare una scelta precisa sul futuro. Intanto ci godiamo l’uscita di questo disco, che rappresenta per noi un motivo di grande gioia considerando il periodo drammatico che abbiamo attraversato.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Non abbiamo registrazioni in ballo ma qualche concerto sì, anche col repertorio dedicato ad Emily Dickinson. Il momento è ancora difficile dunque non abbiamo un calendario fitto di date, ma confido che possano saltare fuori altre occasioni e situazioni, magari anche in virtù dell’interesse che questo progetto può suscitare negli ambienti non strettamente musicali ma magari più affini al teatro o alla letteratura. Il nostro progetto propone infatti un viaggio anche letterario, e il suo carattere performativo lo rende per certi versi anche un po’ “teatrale”. Speriamo solo di non dover essere più costretti a stare completamente fermi com’è stato in questi mesi, perché è stato un momento davvero molto complesso sotto diversi punti di vista (per noi, come per molti altri).

 

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