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Le vie del Pane e del Fuoco – intervista ad Ettore Fioravanti

Si chiama Le vie del Pane e del Fuoco l’ultimo lavoro del quartetto di Ettore Fioravanti prodotto dalla nuova etichetta discografica Note Sonanti. Un progetto sperimentale  a cui hanno preso parte musicisti come Marcello Allulli al sax, Marco Bonini alla chitarra, Francesco Ponticelli al contrabbasso e anche Enrico Zanisi al pianoforte. Si tratta di un disco in cui diverse sonorità confluiscono in un unico filo conduttore che è il linguaggio del jazz. E noi che abbiamo già avuto modo di vedere dal vivo questa formazione abbiamo deciso di approfondire l’argomento con Ettore Fioravantiin persona.

Ettore, per cominciare volevamo chiederti di raccontarci la genesi di questo progetto. Come è nata questa collaborazione fra musicisti così diversi per stile e per età?

“Il quartetto nasce dalla ricerca di personalità compatibili e disponibili a creare un ensemble maggiormente elastico e flessibile rispetto alle formazioni che ho gestito in passato. Con Marcello Allulli c’erano già state numerose collaborazioni, lui rappresenta insieme la voce pura e l’iconoclasta; Marco Bonini ha nel repertorio tutte le sfaccettature della chitarra, dal rock all’elettronica all’improvvisazione radicale; infine Francesco Ponticelli possiede uno dei più bei suoni di basso da me sentiti in  questi ultimi anni, e ha il dono della sintesi. Forse loro tre rappresentano quello che non sono io, e mi completano.”

Questo nuovo lavoro, dal titolo “Le vie del pane e del fuoco” ha, secondo noi, una natura decisamente sperimentale: è una scelta che avete fatto per dare vita a qualcosa di innovativo oppure qualcosa che avevate proprio nel vostro DNA?

“Ho sempre suonato musica libera, quasi per terapia: una delle possibilità che mi regala il quartetto è proprio l’imprevedibilità, l’improvvisazione collettiva, il girotondo tenendosi per mano dove tutti danno forza a tutti. Tutto ciò non impedisce di continuare ad amare e rappresentare la vena melodica che penso di avere dentro, come la hanno i miei compagni. Il jazz veramente free vuol dire anche fare una canzone, magari rovesciandola, ma rispettandone gli elementi caratterizzanti.”

Quindi, perché avete deciso di portare avanti un approccio ad un jazz forse più contaminato piuttosto che tradizionale?

“Boh, sai le cose le fai e ti trovi a farle con quelli che hai scelto senza troppa coscienza. Anche la conoscenza spesso fa gabbia intorno ad un’idea perché relaziona quello che fai ad un progetto precostituito. Ma noi siamo carpentieri che tradiscono molto spesso il progetto disegnato, e lo fanno proprio con la voglia di mettersi alla prova: il rischio che sia un disastro c’è, e guai a chi lo tocca ‘sto rischio. Ma il feeling deve viaggiare e guai a chi lo ingabbia.”

E soprattutto quale potrebbe essere secondo te l’anima di questo disco?

“Credo proprio la compattezza del gruppo: ci sono pochi assoli nel vero senso del termine, il più dei casi ci sono depistamenti a turno dalla linea centrale, e mi piace pensare che se uno si sgancia gli altri lo tengono per le bretelle per permettergli di rientrare in riga prima o poi. Inoltre credo che se si faccia il calcolo degli “sganciamenti” ci sarebbe un pari e patta fra tutti e quattro. Comunque la ricerca di questi equilibri ci tengo che sia fatta con la musica più che con le parole, cioè è conseguenza degli assestamenti tellurici del feeling di gruppo piuttosto che di singole piroette intellettuali studiate a tavolino per staccarsi dalla routine del tema-impro-tema.”

E per quanto riguarda questa formazione, così eterogenea dal punto di vista generazionale, ci vuoi parlare dell’approccio che avete in sala di registrazione?

“La differenza di età io la sento più sul piano delle fonti ispirative e formative, che nel caso di loro tre sono senz’altro più variegate delle mie. L’approccio rock per me rappresenta un vestito della domenica: anche se sono cresciuto col rock, nel mio cervelletto vagano più le musiche dei King Crimson e di Lucio Battisti che quelle dei Beatles o Rolling Stones. Nel mio passato vedo di più la canzone (intesa proprio come relazione fra una melodia agganciata al suono delle parole) e la sinfonia (ma de noantri, sia ben chiaro), cioè una storia compositiva con variazioni e ripetizioni. Loro tre vivono i suoni di oggi con maggiore osmosi, e non hanno remore a usare le chitarre “alla Nirvana” accoppiate a Straight no chaser. Lo fanno in automatico e senza sovrastrutture. E questo voglio imparare da loro.”

Quindi, dovendo trarre delle conclusioni da questo disco, cosa ti aspettavi all’inizio e cosa, invece, è venuto fuori una volta che è stato registrato?

“Bella domanda, perché racchiude tutte le altre: diciamo che è venuto diverso dalla mia prefazione, ma non l’ho mica cancellata, ho solo aggiunto un epilogo che la contraddice. E poi forse succederà che quando si registrerà ancora (prevedo entro sei/sette mesi) anche l’epilogo di cui sopra sarà tradito. Ho portato un pezzo jazz ed è diventato un rockabilly, la canzone di Mina è un puzzle smontato e rimontato a rovescio, gli accordi tonali sono diventati atonali e viceversa. Siamo un gruppo di traditori musicali, felici di esserlo.”

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