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The Enchanted Garden – Claudio Filippini si racconta

Giovane e talentuoso pianista originario di Pescara, Claudio Filippini è un musicista che nonostante la giovane età dimostra già una maturità fuori dal comune. Il suo ultimo lavoro da studio, dal titolo The Enchanted Garden, pubblicato nel settembre 2011 da Cam Jazz, rappresenta forse appieno il percorso musicale ed interiore che ha portato avanti in questi ultimi anni. Ad acompagnarlo in questa avventura Luca Bulgarelli al contrabbasso e Marcello di Leonardo alla batteria, due musicisti che collaborano con Claudio già da diverso tempo e che saliranno insieme a lui sul palcoscenico della Casa del Jazz, domani 5 gennaio 2012, per presentare questo progetto. Con l’occasione Claudio Filippini ci ha raccontato volentieri la genesi e lo sviluppo di questo suo “giardino incantato”.

Claudio, The Enchanted Garden è il tuo ultimo progetto che ti vede come leader. Come è nata questa avventura?

“The Enchanted Garden” nasce fondamentalmente come un’esigenza, un bisogno di voler finalmente testimoniare il lavoro di un trio iniziato 7 anni fa e che non era mai entrato in studio di registrazione. Quando iniziammo a suonare insieme, nel 2004, ogni concerto era diverso dall’altro; tutto era improvvisato e seguiva un corso molto naturale. Il nostro sound si è formato così, grazie all’improvvisazione ci siamo conosciuti sempre di più. Nell’ultimo anno ho scritto alcuni brani, di lì il passo è stato breve, una volta decisa la musica siamo entrati in studio.”

Il titolo di questo disco ci è sembrato fin da subito molto suggestivo e allo stesso tempo ci ha dato l’opportunità di viaggiare anche un po’ con la fantasia in territori nuovi che forse si nascondono solo nell’anima. Ci vuoi raccontare il percorso musicale ed interiore che ha portato alla nascita di questo tuo “Giardino Incantato”?

“E’ difficile rispondere a questa domanda! Il lavoro di composizione è stato molto lento, ho cercato di mettere insieme un repertorio che rispecchiasse la mia storia ed il mio mondo musicale, in tutte le sue sfaccettare; per fare questo ho deciso di prendermi tutto il tempo di cui avevo bisogno. L’idea del “Giardino Incantato” mi è venuta cercando di mettere in musica le mie ultime esperienze di vita. Da qualche anno abito in una casa in campagna, lontano da tutto e da tutti. Essendo abituato a stare nel caos della città praticamente da quando sono nato, questa mia nuova dimensione mi ha fatto scoprire molte cose nuove. Il “Giardino Incantato” è il posto nel quale torno dopo i vari tour, il mio spazio senza tempo nel quale posso concentrarmi e scrivere musica in tutta tranquillità.”

E le tue fonti di ispirazione?

“Musicalmente parlando sono una persona molto curiosa. Mi piace ascoltare di tutto senza pregiudizi, prendendo ciò che c’è di buono in ogni cosa. A volte scelgo che musica ascoltare in base all’umore, un po’ come quando si sceglie quale vestito indossare. Tuttavia credo che la vera ispirazione venga dalle esperienze che ognuno fa nella propria vita; dai viaggi, dalle passioni, dallo stress, dalle conquiste, dalle sconfitte, dalle gioie e dalle delusioni. E’ difficile che io mi sieda al piano e pensi “Ok, adesso scrivo un pezzo”. La maggior parte delle volte succede che sviluppo una semplice idea che già mi canticchio nella testa, che siano semplicemente tre note o una figurazione ritmica, un intervallo o qualsiasi altra cosa.”

Quali sono stati per te i più grandi maestri, quelli che davvero hanno lasciato il segno in tutta la tua esperienza nella musica?

“Non saprei stilare un elenco di chi abbia lasciato il segno nella mia esperienza musicale. Posso solo dire che nel mio percorso ho avuto la fortuna di incontrare tantissime persone, che hanno contribuito a fare di me ciò che oggi sono. E non parlo esclusivamente di musicisti. Viaggiando molto ho avuto la fortuna di conoscere esseri umani eccezionali, persone di grande cultura, grande carisma e ampie vedute. Spesso basta una frase detta in un modo particolare, un’occhiata, un semplice consiglio, che ci si aprono subito delle porticine. Io ho imparato molto da tante persone con più esperienza di me ma anche da chi con la musica non ha niente a che fare. Spesso si incontrano persone illuminanti quando meno te l’aspetti.”

Come vedi l’attuale panorama musicale italiano? E soprattutto è difficile per un giovane emergere in un periodo forse così difficile?

“L’Italia non sta vivendo un periodo felice di per sé, ci troviamo in un momento storico molto particolare e ovviamente la musica ne risente di conseguenza. E’ sempre più difficile fare musica dal vivo in Italia, ma credo che il problema principale sia il problema culturale. Il musicista in Italia viene ancora considerato come il giullare di corte (se gli va bene), e molti non sanno che per diventare un musicista professionista ci vuole fatica, studio e tanti sacrifici. Molta gente non sa che suonare un concerto per pianoforte e orchestra può avere lo stesso coefficiente di difficoltà che eseguire un trapianto a cuore aperto. Certo, i rischi non saranno gli stessi, di musica non è mai morto nessuno, ma la difficoltà può essere la stessa se non addirittura superiore. La musica è una cosa seria. Gli enti pubblici non finanziano più i festival, le rassegne, le mostre, gli spettacoli teatrali. L’Italia che era la culla delle arti in generale è diventata la patria della mediocrità e del pressappochismo. C’è anche il problema “televisione” che riguarda soprattutto i giovani. Al ragazzino che va ancora a scuola gli viene inculcata l’idea che la musica siano solo i Talent Show, e che vincere “X-Factor” sia il punto di arrivo di chi vuole fare musica nella vita. Il ragazzino non ha idea di come si accordi la chitarra ma a lui non interessa, il ragazzino vuole vendere milioni di copie. Il ragazzino non ha capito che se vuole cantare bene o suonare bene uno strumento e fare un disco deve stare zitto, ascoltare, e schiumare il sangue su quello strumento per anni. E che i risultati si vedono dopo anni e anni di fatica e sudore. La rovina di tutto è questa voglia sfrenata di successo. Per quanto riguarda la professione del musicista, spesso mi chiedono se si può vivere di sola musica. La mia risposta è sì a patto che non si abbiano le fette di prosciutto sugli occhi o ancora peggio nelle orecchie. Bisogna non avere pregiudizi, e cercare di suonare quanta più roba possibile con quanta più gente possibile. Un musicista, o nel mio caso un pianista, se vuole vivere di musica deve saper leggere bene la musica, conoscere gli stili e suonare in molte situazioni musicali diverse tra loro, conoscere l’armonia, avere nozioni di arrangiamento, conoscere gli strumenti musicali (o quantomeno i loro timbri e le loro estensioni), saper accompagnare, saper improvvisare, ma anche saper guidare un’automobile per molte ore di fila, riuscire a dormire 5 ore a notte, saper usare internet in modo intelligente, saper rispondere alle e-mail, avere un sito internet, curare i contatti, fare public relations, saper stare sul palco, essere sempre garbato con gli altri sul posto di lavoro e generalmente non rompere mai le palle se non è strettamente necessario, saper usare software per registrare musica, conoscere un minimo le tastiere e soprattutto avere molta molta pazienza.”

C’è un musicista in particolare con cui prima o poi ti piacerebbe suonare almeno una volta? Diciamo un sogno nel cassetto…

“Bella domanda, ce ne sono tantissimi! In particolare mi piacerebbe suonare con Brian Blade, Avishai Cohen, Wayne Shorter, oppure duettare con Herbie Hancock (in verità è già successo molti anni fa, a Sacile nella fabbrica dei Fazioli) o andare in tour con i Chemical Brothers, con gli Air, con Bjork, con Fiona Apple. Beh, direi che può bastare.”

E per quanto riguarda i prossimi progetti? Stai già pensando a qualcosa di nuovo?

“Sto già lavorando contemporaneamente a due dischi nuovi, sempre con la Camjazz. Il primo l’ho già registrato ed uscirà a Marzo, il secondo lo registrerò a metà gennaio e uscirà quest’estate, ma per il momento non voglio svelare niente!”

Grazie per la tua disponibilità e in bocca al lupo

“Crepi il lupo e grazie a voi di tutto!”

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The Sky above Braddock – intervista a Mauro Ottolini

Di Mauro Ottolini and Sousaphonix vi avevamo già parlato qualche tempo fa in occasione dell’uscita del CD The Sky Above Braddock, pubblicato da Cam Jazz (per leggere la recensione cliccaqui). Un lavoro che ci ha davvero incuriosito sia per l’originalità sia per la storia che racconta attraverso brani interessanti e così diversi fra loro. Per capire meglio la filosofia di un disco che, secondo noi, merita davvero di essere raccontato nei minimi dettagli, abbiamo parlato direttamente con il suo autore, Mauro Ottolini, che ci ha raccontato volentieri alcuni aneddoti e alcune particolarità di questo lavoro.

Mauro, The Sky above Braddock è un lavoro che narra la storia di questa cittadina e del grande esodo conseguente alla chiusura dell’acciaieria di Andrew Kenergy. Perché hai deciso di raccontare questa vicenda?

“L’idea mi è venuta leggendo un libro molto bello di Mario Calabresi dal titolo la “Fortuna non esiste”. E’ un libro composto da vari racconti che parlano di casi veri e di casi inventati e di come è possibile sollevarsi in qualche maniera da un tracollo, per vivere meglio di prima. In mezzo a questo libro c’è un racconto che si chiama “Il Raccolto arriverà”, che parla appunto di Braddock. Calabresi spiega di essere stato in questa città in rovina e racconta la sua vera storia vera. Quindi, questo album è iniziato da un libro, è diventato un disco che a sua volta è diventato la colonna sonora di un cartone animato costruito sul secondo brano: “The Workman Blues”. Per tutti questi motivi il contenitore di partenza del disco era una scatola d’acciaio e bulloni; un modo per rappresentare il legame che c’è con la storia dell’acciaieria attorno alla quale si sviluppa la storia di Braddock”.

Quindi, tutto il disco ruota intorno a questa storia…

“Si, diciamo che tutto ruota intorno alla storia di questa acciaieria. Nel 1875 nasce questa grossa industria dell’acciaio, la più grossa degli Stati Uniti, fondata da Andrew Kenergy, e dà lavoro a 20 mila persone. In questo modo a Braddock avviene uno sviluppo gigantesco che la fa diventare una cittadina molto popolata. Il crollo dell’industria metallurgica degli anni 50, però, porta alla chiusura della fabbrica. Ne consegue un forte movimento operaio accompagnato da molte proteste, ma le cos non cambiano e crescono la povertà e la disoccupazione. Per questo motivo molte persone se ne vanno, molti vendono la casa, crescono le rapine, gli stupri, i rapimenti di bambini e la droga diventa una piaga che elimina l’85 % cento dei giovani. L’unico ristorante rimasto è “Voccelli pizza”, il cui proprietario viene assassinato nel 2006 con un colpo in testa. Ora, infatti, non c’è neanche un posto per mangiare se non una mensa all’ospedale”.

Quali sono, allora, gli scenari che racconti attraverso “The Sky Above Braddock”?

“Sono partito immaginando che la colonna sonora fosse a 2 colori. Quando si parla della Braddock attuale i personaggi sono a colori, quando si parla del passato sono in bianco e nero perché rispecchiano la musica e i colori di quel tempo. Ho immaginato un cielo, un limbo virtuale che, nel bene e nel male, continua a ruotare intorno a questa vicenda e in cui ci sono le anime prigionie ad espiare le proprie colpe, prima fra tutte quella di Kenergy. Molte di loro non sanno neanche il motivo per cui si trovano in questo posto dove sono costrette a soffrire e la loro unica colpa è quella di avere avuto a che fare con questa città maledetta”.

Ci vuoi raccontare la storia di alcuni protagonisti di questa ricostruzione?

“In questo disco ci sono molti personaggi. C’è un omaggio a King Oliver che negli anni 20 fece un disco Che si chiamava “Workingman blues” e che mi sono immaginato a lavorare con Eddy Lang per farne uno spot radiofonico della fabbrica. Altre storie, invece, sono vere, e parlano del crack, dei giovani travolti dalla droga, un’epidemia disastrosa. C’è anche un pezzo dedicato al sindaco di Braddock, “Major John”, che sul braccio ha tatuato il prefisso della sua città. E’ un brano che inizia con una melodia triste, legata alla situazione che ti ho appena raccontato che poi esplode nel finale trasformandosi in un pezzo rock. “The wonderful fable of Wicky Vargo”, per esempio è un brano che in un certo senso rimanda all’epoca dei colletti. Lei è una specie di Mary Poppins che cerca di far felici i bambini e che aiuta le mamme. Io le ho dedicato questo pezzo immaginando la storia di alcuni rapimenti di bambini e lei che racconta loro delle favole per farli dormire con serenità”.

Dicevamo che da uno dei brani di questo disco, “Workingman Blues”, è stato tratto anche un cartone animato. Ce ne vuoi parlare?

“In questo cartone animato, che è una specie di tempi moderni, ho immaginato noi, i Sousaphonix, che arriviamo in questa fabbrica di Braddock dove il padrone tiene sotto controllo gli operai. Una macchina fa irruzione in questo edificio e dentro ci siamo noi che una volta usciti iniziamo subito a suonare. Dai nostri strumenti, poi, esce una polvere (è un omaggio al famoso brano “Stardust”, Polvere di stelle) che si sparge intorno alla fabbrica trasformando tutto quanto. Da questo momento in poi le cose nella fabbrica cambiano e un operario, al posto di far uscire il ferro fuso, comincia a fare le pizze, da dove cola l’acciaio comincia a scendere la birra, alcuni lavoratori si mettono a ballare il tip tap e il lavoro diventa una vera e propria festa. Il padrone chiaramente non è d’accordo ma viene preso dagli operai e sbattuto fuori dall’edificio che non è più grigio ma colorato”.

E per quanto riguarda gli aspetti tecnici relativi alla realizzazione e registrazione dl disco, ci vuoi raccontare come avete lavorato?

“Guarda, io vengo dalla vecchia scuola e scrivo la musica a mano. Per questo disco, poi, non abbiamo utilizzato strumenti meccanici e abbiamo registrato tutti insieme salvo qualche piccolezza di post produzione. Diciamo che abbiamo suonato interamente dal vivo e per fare questo è necessario creare dei momenti ben precisi equilibrando tutto molto bene. Il bello, infatti, sono queste sonorità che arrivano in vari momenti: dalla musica anni ‘20, al rock psichedelico, all’elettronica, con tutte le difficoltà che ci sono nel far convivere generi diversi”.

Ci sono anche molti strumenti particolari di uso non comune. Ci vuoi fare qualche esempio?

“Per quanto riguarda gli strumenti ti posso dire, per esempio, che noi usiamo il thermin, uno dei primi sintetizzatori, che è una scatoletta con due antenne da pilotare con le mani. E poi ci sono anche molti strumenti particolari come lo Slide Trumphet, per fare un esempio, che ha l’aspetto di un trombone ma la grandezza di una tromba. E’ accordato in sib come un tromba, ma non ha tasti e ha il fraseggio del trombone. Nella canzone Major John ci ho messo un megafono davanti e in quel caso sembra quasi una chitarra elettrica. Il fatto di avere tutti questi colori e questi strumenti ti dà la libertà di poter scrivere molte cose. Quindi, non è disco pensato per essere un disco jazz, ma la colonna sonora di una storia in cui in alcuni momenti viene fuori il feeling del gruppo unito all’aspetto compositivo, in altri l’improvvisazione… E niente è stato lasciato al caso”.

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