Emanuele Coluccia: con Birthplace ritorno alle mie origini
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Abbiamo incontrato il pianista nonchè polistrumentista Emanuele Coluccia per parlare del suo nuovo album intitolato Birthplace: 8 tracce realizzate in trio con Luca Alemanno e Dario Congedo che riportano il musicista pugliese a una dimensione originaria e poetica.
Il tuo album racconta di un ritorno al luogo natìo: quale fase stai vivendo dal punto di vista musicale e privato?
Mi sento veramente “nel mezzo del cammino” come disse Dante. Ho sufficiente passato da provare la sensazione di sapere come vanno le cose, ma non così tanto da pensare che non possano andare diversamente. Una cosa so per certo: non si nasce qui ed ora per puro caso. Il luogo natìo, per me, non è semplicemente un termine geografico; il luogo natìo è tante cose: il mio stesso corpo, per esempio, è un luogo natìo. Musicalmente mi sto concentrando molto sulla mia relazione fisica con la musica, col suono, con il live come evento che riguarda la mia vita, il mio corpo appunto. È questo un aspetto della vita del musicista che viene quasi sempre taciuto o comunque non toccato in maniera esplicita e focalizzata nelle accademie, negli ambienti professionali, nelle conversazioni. Eppure, non c’è nulla che un musicista faccia che non passi dal corpo!
La grafica del disco e i teaser sono a tinte tenui e immagini poetiche: sono colori e forme suggerite dai tuoi brani?
Le illustrazioni presenti nel disco sono state eseguite da Benedetta Longo, a cui ho detto: ascolta queste tracce e dimmi cosa ne pensi disegnando. Quando ti fidi dell’onestà artistica e del valore umano del prossimo puoi concederti la gioia di lasciarti raggiungere dal meglio che è in lui. Alle immagini sono state poi aggiunte delle frasi celebri più o meno conosciute, che abbiamo scelto insieme: delle parole che potessero fare da ponte tra l’immagine e la musica, rendendo il disco uno spazio di esplorazione a più canali di accesso. Con i teaser, basati su riprese e immagini fatte da me, non faccio altro che condividere ciò che io “vedo” quando immagino la musica: masse di suono, nuvole di note, spazi, pieni e vuoti, geometrie, transizioni. Al momento posso dire con certezza che quel che so fare con la musica l’ho imparato da alcuni uomini, da alcune donne e dalle meraviglie naturali.
Non solo pianista, ma polistrumentista: in che modo bilanci il tuo amore per i vari strumenti nei live e nella composizione?
Il mio “polistrumentismo” è una manifestazione di una mia tendenza naturale a muovermi sulla superficie delle cose. È una forza del mio carattere, a cui si oppone la forza della relazione con gli altri, che mi chiede invece di andare a fondo, di penetrare il senso delle cose, di conoscere me stesso meglio. Non ho un’idea precisa e definita di me stesso in relazione allo strumento che suono, ho abbandonato questa modalità di autodefinizione perché mal si adattava al mio comportamento. Mi considero un amante della bellezza che fa di tutto per restare con la sua amata…lei mi vuole pianista, poi sassofonista…poi mi siedo alla batteria e continuo ad ascoltarla. Ultimamente mi sono ritrovato ad imbracciare un corno francese! Un allenatore eccezionale della pazienza e della calma determinazione! Tutto questo diventa poi un utilissimo strumento di composizione: quel po’ di pratica che ho in ciascuno strumento mi aiuta tantissimo nella scrittura e nell’immaginare l’orchestra, come suonerà, come reagirà alla partitura.
Parte della tua carriera musicale si è svolta negli States. Raccontaci di quegli anni.
Sono stati anni difficili, dolorosi e allo stesso tempo meravigliosi, affascinanti. Ho incontrato me stesso nel modo più diretto e immediato fino ad allora mai conosciuto, ed è stato un incontro/scontro: le mie ambizioni mondane legate al fare carriera come musicista, radicate nella mia mentalità adolescenziale, erano in forte conflitto con le esigenze più profonde del mio essere. I primi due anni sono stati un lungo, costante sforzo di riprendermi dopo questo incidente esistenziale, ma anche ricchi di incontri con persone splendide, che hanno potuto certamente allenare la propria pazienza con me, e dalle quali ho appreso molto sull’amore.
Musicalmente ho potuto misurarmi con condizioni straordinarie: a New York ho potuto immergere la mia relazione con la musica in un ambiente che offre decine di confronti ogni giorno. Ho incontrato innumerevoli uomini e donne innamorati di ciò che facevano, li ho visti soffrire e godere, e nei miei momenti migliori sono riuscito a specchiarmi in tutto questo. Per più di tre anni ho fatto parte di un quintetto che suonava ogni lunedì a 10 dollari a testa più le mance: poco denaro e benedetto; ma il motivo per cui il quintetto è durato così tanto è che la musica era veramente un gioiello, qualcosa che nessuno di noi cinque avrebbe mai potuto fare da solo…a volte penso di aver visto la musica del futuro, e quei suoni, quelle note, quelle intensità sono ancora per me un punto di riferimento nel calcolare il punto nave e tracciare la rotta.
Il tuo essere polistrumentista ci fa immaginare un lunghissimo percorso musicale: come sono stati i tuoi inizi?
A 5 anni il famoso Babbo Natale mi regalò una melodica. Una mia cuginetta fu così gelosa di quel regalo da piangere e urlare per dei lunghissimi, interminabili minuti; fu capace di uscire per strada ed urlare a Babbo Natale di ritornare…ricordo benissimo lo strappo emotivo provocato in me da quel conflitto, tra la mia gioia di ricevere quell’oggetto misterioso e il dolore lancinante espresso dalle sue urla. All’inizio degli anni ‘80, alle elementari, c’era un corso sperimentale di flauto dolce: ricordo la gioia, la serenità, l’entusiasmo legati a quell’ora in cui le stanze si riempivano del suono di quello strumento replicato da decine di bambini che giocano. A 8 anni, durante il compleanno di un altro cugino, assistevo con interesse ad una sua esibizione casalinga in presenza dell’entourage familiare: l’approvazione di genitori e parenti nei confronti di una capacità artistica mi ha certamente lasciato un segno importante. Dopo alcuni mesi, assecondando le mie richieste frequenti, i miei genitori mi hanno fatto dono di un piano verticale e mi hanno condotto da un maestro di musica: è stato l’inizio della fase impegnata dello studio. Musica classica per alcuni anni e poi la scoperta della fusion, così come la scoperta che ogni strumento era capace di produrre piacere, di creare bellezza, di entusiasmarmi: quel fill di batteria, quel giro di basso, quello slap, quelle cinque note del sassofonista, quell’accordo, quel suono in quel momento…La prima volta che ho imbracciato un sax è stato durante una pausa tra due set di una serata con il gruppo con cui mi esibivo. Ero curioso di provare a suonarlo (chi non lo sarebbe?!), ed è bastata una nota a farmi capire che era solo l’inizio. Questo “colpo di fulmine” si è poi ripetuto ogni qual volta ho provato “per curiosità” uno strumento sconosciuto. Capito l’andazzo, ho cominciato a cavalcare l’onda, e ogni volta che s’è data l’occasione e ho potuto, mi sono procurato lo strumento e mi sono tuffato nella scoperta. Ogni nuovo strumento che studio mi aiuta a suonare meglio quelli che già suono. Non dovremmo stupirci troppo: usiamo solo una piccola parte del cervello, ma principalmente perché non lo mettiamo nelle condizioni di funzionare a pieno regime, ne sono convinto!
Quali sono gli artisti che maggiormente ti hanno ispirato?
Difficile essere sintetici…il primo Pino Daniele mi ha svezzato, liberandomi dai miti del pop americano anni 80 di cui fui innamorato; poi Chick Corea mi ha letteralmente stregato. Dopo aver superato la fase in cui Pat Metheny era dio in terra, sono passato a quella in cui dio in terra era Michael Brecker, finché non ho compreso che in realtà dio in terra era John Coltrane! Poi Keith Jarrett, Wayne Shorter…I Weather Report, sia come gruppo che i lavori dei singoli musicisti. Ma dall’altro lato, i diavoli europei mi perseguitavano: Jan Garbarek mi ha dato grandi emozioni, Stephan Micus è capace di farmi volare. Poi tutto l’impressionismo musicale e pittorico, l’astrattismo, la metafisica. Nonché la musica sinfonica cinematografica, che senza che me ne accorgessi ha inciso profondamente sul mio modo di concepire il suono orchestrale. È un mondo in cui ci si può davvero perdere...La mia stella polare è conoscere me stesso.
Oltre “Birthplace”, quali sono i progetti musicali a cui tieni di più?
Collaboro da quasi 15 anni con Claudio Prima, che ha una capacità straordinaria di immaginare e realizzare contesti musicali e sociali ricchi di relazioni e potenzialità: Bandadriatica, Giovane Orchestra del Salento, Tukré, Adria…ognuna di queste situazioni è per me un meraviglioso campo di gioco, un vero e proprio playground delle relazioni, della pratica musicale. Collaboro molto, ultimamente, con Carolina Bubbico e Filippo Bubbico: anche qua, freschezza, originalità, voglia di conoscersi, energia…e tanta potenzialità, che è un carburante notevole per la curiosità. Un progetto a cui tengo tantissimo è il quintetto con cui suonavo a NY! Non li vedo da anni e chissà se mai suoneremo ancora, ma resta per me un momento così intenso e vivo musicalmente, che ancora “suona” dentro di me. Sono molto grato per tutto questo, e anche per tutto ciò che non ho ancora visto.
Hai già in cantiere nuovi brani per un eventuale prossimo disco?
Ho decine di cantieri aperti, come puoi immaginare. Credo che ciò che mi porta a produrre non sia la musica stessa, ma le relazioni umane. L’immaginazione non mi manca affatto. Lo sforzo ora è nella direzione della relazione. E non si tratta semplicemente di incontrare più persone, ma di incontrare di più, di incontrare meglio, più intensamente, le persone.
Sono in programma altri eventi musicali per la stagione invernale?
Al momento sono occupato con il tour di presentazione, che mi terrà occupato durante l’autunno. Ma gli occhi sono puntati all’immediato futuro e insieme al management di Workin’ Label stiamo raccogliendo i dati necessari…Rilevo una certa stanchezza nell’ambiente, c’è molto stress ed è in buona parte endogeno. Ho la sensazione che sia necessario un cambio di strategia a livello collettivo, rispetto al modo di concepire l’utile che può derivare dall’arte, rispetto anche all’idea stessa di utile. Sono un po’ stufo di vedere l’uomo che subisce sé stesso, e vorrei che il drago saggio che è in noi si svegliasse e cominciasse ad agire bene, anticipando gli effetti negativi della decadenza che evidentemente si è innescata nella nostra civiltà. Mi chiedo quindi, in questa ottica, quale sia il significato del programmare il futuro, quale debba essere il focus, il senso, lo scopo.