Jazz Agenda

IFA Quintet: “Una ricerca incentrata sul groove, la melodia e l’improvvisazione”

È uscito per l’etichetta Emme Record Label il disco d’esordio del quintetto IFA dal titolo omonimo. Un progetto raffinato, dal grande senso melodico che si esprime attraverso il linguaggio universale della musica, cercando di non chiuderla nelle barriere degli stili o dei generi. La band, che si è formata dopo il percorso di studi nella Siena Jazz University, è composta da Francesco Assini alla tromba, Matteo Fagioli al sax, Michele De Lilla al piano, Fabio Angeli al basso e da Giuseppe Salime alla batteria. Ecco il racconto di questa nuova avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

IFA è un disco strumentale che è stato registrato nel settembre 2022. In esso troviamo composizioni originali dove spicca una ricerca incentrata principalmente sul groove, la melodia e l’improvvisazione, con alla base un’impronta prettamente jazzistica. Il disco si apre con Pop Song, scritta da Michele de Lilla che ha un andamento cadenzato ed è senza dubbio quella che più si avvicina a una forma “canzone” grazie a una melodia diretta e immediata molto riconoscibile. Floating on the surface, di Francesco Assini, rappresenta invece un omaggio alla spensieratezza ed è caratterizzato all’inizio da un suono quasi etereo dove i fiati fraseggiano alla perfezione con grande lirismo. In un secondo momento la dinamica diventa più sostenuta e subentra un pianoforte dall’andamento più cadenzato che poi lascia nuovamente la parola alla tromba, al sax e anche al basso nell’estro improvvisativo. Possibilities, sempre di Assini, è un brano dal carattere più sinuoso e introspettivo che descrive in musica le scelte che si possono prendere nella vita.  Holding you at distance è scritto a quattro mani con la prima parte che porta la firma di Fabio Angeli, caratterizzata da un tema limpido e diretto, mentre la seconda, più introspettiva e contemplativa, è stata composta da Michele de Lilla. Prayer è invece una composizione dai tratti più malinconica, quasi onirica e in certe fasi anche minimale che mantiene sempre un grande senso melodico, caratteristica peculiare della band. Questa breve descrizione è un incipit, il più possibile oggettivo, per consigliarvi all’ascolto del disco, così da sviluppare delle impressioni personali e soggettive da ascoltatore.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il progetto nasce nelle aule della Siena Jazz University dalle ceneri di diversi progetti e gruppi che non sono stati longevi, ma necessari per capire a fondo quale potesse essere la formazione con la quale poter esprimere la nostra musica al meglio. Nel 2020 IFA nasce in qualità di trio con pianoforte, basso e batteria. Ad inizio 2022 il trio sente la necessità di solisti chiamando Matteo Fagioli al sax contralto e successivamente Francesco Assini alla tromba. Con questa formazione a settembre dello stesso anno registra il disco. Il progetto, dopo la registrazione, si sta piano piano discostando dalle sonorità acustiche, ad esempio viene utilizzato il Rhodes al posto del pianoforte. I brani che stiamo proponendo nei nostri live hanno sonorità legate a neo-soul, hip hop

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Questo lavoro è stato sicuramente un punto di partenza nato dal bisogno di fare un progetto il più longevo e serio possibile. L’atto di registrare un lavoro discografico, in virtù di musicisti, rappresenta la serietà, la dedizione e l’ amore in quello che facciamo. Paragonerei questo lavoro più che a una fotografia a un dipinto. Come un pittore il musicista, soprattutto  in giovane età, tende a evolversi continuamente quindi il disco come il dipinto mette in luce oltre alle abilità tecniche anche i propri sentimenti e quello che si prova in quel preciso istante. La bellezza della musica presente in questo progetto è che si rinnova ogni qualvolta che viene eseguita, che sia alle prove o in una situazione di live session. Ciò può scaturire un continuo sviluppo degli stessi brani all’interno del disco.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Il futuro è sempre un'incognita; il nostro progetto ha sempre subìto una continua evoluzione: è nato con la formazione in trio e si è  allargata in seguito a quintetto, con l'aggiunta dei fiati che hanno cambiato  nettamente il suono del gruppo. Ancora adesso quando riascoltiamo il disco, a distanza quasi di un anno dalla data delle registrazioni, notiamo differenze nel modo di suonare sia individualmente che come gruppo. Ognuno ha la propria vita, il proprio carattere e il proprio modo di esprimersi, sia nella musica che nella vita quotidiana; ma soprattutto ognuno di noi ha la propria storia da raccontare e lo fa attraverso la musica. E il risultato  che viene fuori è sempre una sorpresa, piacevole o meno. Quindi preferiamo non dare troppo peso ad una futura evoluzione del progetto, ma esprimere al meglio noi stessi nell'immediato presente.

 

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Cesare Ferro racconta Wergild: un concept album che descrive la vita di un soldato

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label Wergild è il disco d’esordio del bassista Cesare Ferro che unisce il linguaggio del jazz con il rock, mediando le chitarre distorte a suoni dai tratti contemporanei. Si tratta di un concept album che attraverso la musica descrive le fasi della vita di un soldato che ha visto la partecipazione di Federico Negri alla batteria, Luca Scardovelli alla chitarra e Riccardo Barba al pianoforte.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Wergild è un concept album sulla guerra che attraverso le composizioni descrittiviste racconta il lungo e atroce viaggio di un soldato. Le contaminazioni presenti nel disco permettono di dipingere diversi scenari: il viaggio verso il fronte, il campo di battaglia, i ricordi malinconici degli affetti perduti e l’epilogo della morte

Raccontaci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il disco è una raccolta di brani scritti in diversi anni e l’idea di racchiuderli in questo prodotto discografico è nata mentre ero a Barcellona durante la mia mobilità Erasmus. In quel periodo infatti ho iniziato ad approfondire la storia del cinema e sono rimasto piacevolmente colpito dal ruolo che recita la musica all’interno della pellicola. Pertanto ho deciso di immaginare una storia e raccontarla attraverso queste composizioni seguendo in maniera coerente il pathos delle diverse scene proprio come in un film.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Per me questo concept album è un punto di partenza che mi stimola ad essere ancora più creativo e alimenta in me il desiderio di poter lavorare con il mondo del teatro o del cinema in futuro.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Le contaminazioni in questo progetto sono fondamentali come lo sono i diversi colori per un pittore che vuole dipingere un quadro. Ho sempre ascoltato e suonato molti generi musicali differenti tra loro e questo mi ha permesso durante il processo creativo di esprimermi al meglio. Quindi nella mia musica oltre al jazz c’è spazio per altri generi. Musicisti come Chuck Schuldiner, Ennio Morricone, Jaco Pastorius, Jeff Buckley e Pat Metheny sono sicuramente dei punti di riferimento.

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

Come dicevo prima mi auguro di iniziare a collaborare con il mondo del cinema e del teatro affinché il messaggio della mia musica possa arrivare in maniera più fruibile e diretto per tutti.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Al momento ci godiamo il nostro Wergild promuovendolo con un po’ di concerti in giro per lo stivale. Mentre per quanto riguarda il futuro visto che mi piace sperimentare scriverò della musica nuova completamente diversa da questa quindi seguitemi per rimanere aggiornati!

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Filippo Loi racconta Teju: “Un disco di jazz che si lascia influenzare dalla musica rock”

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, Teju è il disco d’esordio del trio capitanato dal chitarrista Filippo Loi che vede la partecipazione di Carlo Bavetta al contrabbasso e Lorenzo Attanasio alla batteria. Un progetto in cui iljazz si sposa con il Mediterraneo e con le tradizioni locali lasciando entrare la musica rock. Ecco il racconto di questa nuova avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Salve a tutti! Teju è il nostro primo lavoro insieme. I temi e le armonie hanno preso la loro forma nel corso di un anno e mezzo ricco di avventure, prove, concerti. E’ un disco che sicuramente parte da un’esperienza jazzistica e d’improvvisazione ma si lascia influenzare dalla musica rock e dalle ampie composizioni.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Ci siamo conosciuti ai corsi di musica d’insieme del conservatorio di Milano. Circa due mesi dopo è scoppiata la pandemia. Filippo ha impiegato parte del suo tempo chiuso in casa a comporre le tracce del disco. Già durante il lockdown, grazie a internet, abbiamo iniziato a provare i brani con i software di registrazione musicale. Non appena abbiamo avuto la possibilità di rincontrarci di persona, abbiamo iniziato a suonare insieme e fare i nostri primi concerti a Milano fino all’ approdo nei cataloghi di Emme Record Label.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Sicuramente è un punto di partenza. L’ emozione di entrare in uno studio di registrazione come il Tube Recording Studio e di sentire il nostro primo disco su supporto fisico ci può spingere a continuare a lavorare insieme sul nostro suono, sulla nostra idea di trio e sulla musica che proveremo a comporre in futuro.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Essendo un trio composto da chitarra, contrabbasso e batteria, i riferimenti più importanti vengono dai moderni maestri indiscussi di questo strumento. Pat Metheny è un chiaro esempio non solo per le sue capacità strumentali ma anche come compositore. Scott Henderson e John Scofield per la maestria con il quale hanno saputo fondere la chitarra rock con il linguaggio jazz. Ma anche i grandi compositori come Wayne Shorter e Miles Davis, che ha influenzato le tracce più vicine al jazz di questo album.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Questo è difficile da dire adesso. Speriamo di continuare sia in trio ma anche con qualche aggiunta in funzione di composizioni più ampie. Magari un piano, delle voci, qualche fiato.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Attualmente stiamo scrivendo nuova musica. Vogliamo fare il nostro meglio ed è giusto dedicare il tempo necessario alla stesura di qualcosa che ci soddisfi e ci rappresenti, senza rischiare di cadere in manierismi e ripetizioni forzate. Attualmente stiamo organizzando qualche concerto nei festival jazz nazionali, dalla primavera in poi. Sarà nostra premura avvisarvi tramite i nostri canali social.

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Federico De Zottis racconta il nuovo disco Open: “La ricerca melodica è stata la guida”

 

Si intitola Open il disco d’esordio del gruppo 3.00 a.m. nato dalla volontà del sassofonista Federico De Zottis. Un progetto che prende forma dalla passione per i grandi maestri del jazz anni ’60 pubblicato dall’etichetta Emme Record Label. La formazione è completata da Diego Albini al pianoforte, Mirko Boles al contrabbasso e Stefano Lecchi alla batteria. Il leader di questo quartetto ci ha raccontato come è nata e come si è evoluta nel tempo questa nuova avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Il Disco si intitola Open ed è stato registrato il 4 ed il 5 gennaio 2022 al Bluescore studio di Milano. Il titolo ha un doppio significato; da un lato descrittivo delle musiche e del linguaggio adottato, dall'altro metaforico. Per quanto riguarda il lato descrittivo, le armonie delle parti improvvisate vengono alleggerite e “aperte” rispetto alle armonie utilizzate per i temi, questo per poter consentire una maggiore libertà interpretativa ai musicisti. Dal punto di vista metaforico, invece, la parola open esprime il desiderio di aprirsi al confronto con il prossimo, descrive con efficacia la necessità avvertita di espormi come musicista e compositore. L'album è composto da sei brani, cinque originali più una mia interpretazione del brano Like a queen, una canzone uscita nel 2021 del collettivo svedese Spring Gang. Il materiale utilizzato per la composizione dei brani è stato accumulato molto lentamente, le prime bozze risalgono a circa sei anni fa e sono maturate di pari passo al mio percorso di crescita musicale.

Parliamo adesso anche dell’aspetto compositivo dei brani. Ci vuoi raccontare che tipo di ricerca hai effettuato per portare alla luce questo album?

La ricerca melodica è probabilmente il principio più importante che mi ha guidato. Tutti i brani, tranne uno (Madalena), sono nati da un'idea melodica. Per prima cosa, infatti, ho scritto la melodia dei temi, libera da una forma predefinita.  In alcuni casi l'idea originaria si è riversata naturalmente in strutture più note come la forma canzone AABA (è il caso di Henry e Estremi rimedi); in altri casi, invece, è sfociata in strutture più elaborate e inedite (come Heimay e Nord/ovest). Le melodie dei temi sono state i primi mattoni di questo progetto, risalgono a circa sei anni fa e non hanno subito grosse modifiche nel corso del tempo. Successivamente all'elaborazione delle melodie ho pensato alle armonie, ai ritmi ed alle forme. Questi tre aspetti sono quelli che hanno subito continue modifiche, raffinandosi molto lentamente e maturando di pari passo al mio percorso di crescita musicale.

Il secondo elemento importante di questo progetto riguarda la ricerca del timbro sul sassofono contralto. L'album è registrato in quartetto, batteria, pianoforte e contrabbasso, una scelta che mi ha permesso di lasciare il giusto spazio al timbro del sax. Negli ultimi anni ho lavorato molto su questo aspetto, sia tecnicamente con esercizi e studi mirati, sia culturalmente, ascoltando molti sassofonisti. L'ultimo principio importante che ha guidato le mie scelte compositive è stato la necessità di creare degli spazi comodi per poter sviluppare delle improvvisazioni “aperte”.

Raccontaci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

3.00 a.m. è il nome che da circa 10 anni usavo ogni volta che mi capitava di suonare con un mio progetto, si può dire quindi che lo utilizzassi come una sorta di pseudonimo. Questo significa che nel corso degli anni sono stati diversi i musicisti che hanno fatto parte di 3.00 a.m. Quartet. La più grossa difficoltà che ho dovuto affrontare per poter concretizzare il lavoro è stata quella di trovare musicisti disposti ad investire tempo, energie, risorse e personale sensibilità nel progetto. Non è stato semplice ottenere tre artisti disposti ad impegnarsi nella realizzazione di un lavoro che avrebbe previsto una lunga preparazione.

Sono particolarmente grato ai tre musicisti che mi hanno accompagnato in questa impresa, Stefano Lecchi, Mirko Boles e Diego Albini, non solo per la fiducia accordatami, ma anche per il contributo significativo che hanno dato alla forma finale dei brani con la loro personale sensibilità musicale. Di fatto ora 3.00 a.m. Quartet non può che essere composto da questi musicisti, non è più un mio pseudonimo ma è diventato a tutti gli effetti un gruppo composto da: Federico De Zottis, Stefano Lecchi, Diego Albini e Mirko Boles

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Sinceramente fatico a rispondere. Da un certo punto di vista sicuramente questo disco è stato un punto di arrivo, come ho scritto nella precedente domanda il materiale è stato accumulato negli anni, quindi stavo solo attendendo l'occasione giusta per poterlo incidere.  Da un altro punto di vista invece potrebbe essere considerato un punto di partenza, il risultato ottenuto ha galvanizzato i componenti del quartetto e ci ha lasciato con il desiderio di promuovere e portare in giro questo lavoro

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Il tipo di jazz che preferisco è quello della prima metà degli anni Sessanta. Dischi come Juju di Wayne Shorter; Miles Smile sempre di Shorter con Miles Davis, Page One di Joe Henderson; First meditation, A love Supreme e Crescent di Coltrane; oppure, ancora, Discovery! di Charles Lloyd, rappresentano il tipo di jazz che preferisco ascoltare. Il modo in cui questi grandi maestri hanno affrontato in quel periodo la composizione, e quindi anche l'improvvisazione, è stato, dal mio punto di vista, molto libero, ma al tempo stesso fortemente ragionato e razionale.

Molti dei temi presenti in quei dischi riescono ad essere fortemente melodici e cantabili, nonostante le scelte armoniche alle volte spigolose. Penso a brani come House of jade, o Yes or no di Juju, oppure Forest flower di Discovery!, penso a Jinrikisha di Page One o ancora Footprints in Miles Smile. Le armonie presenti in questi dischi non sono degli impervi percorsi ad ostacoli come quelle tipiche del periodo be-bop, ma piuttosto assomigliano a degli sconfinati campi aperti nei quali è possibile muoversi con maggiore libertà.

Con le dovute proporzioni, questo tipo di sensibilità è quella che ho cercato di riprodurre nel mio lavoro. Pensando, invece, al panorama contemporaneo, il sassofonista che maggiormente mi ha colpito, e che probabilmente ho tentato di emulare inconsciamente, è stato David Binney; inoltre, l'album che ha inciso nel 2017 The time verse ha probabilmente influenzato significativamente due delle mie composizioni (Henry e Madalena).

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Non ne ho la più pallida idea, per quanto l'entusiasmo per il progetto al momento sia alto se non si trovano occasioni per portare il progetto in giro a lungo andare l'entusiasmo cala. Ci impegneremo quanto più ci è possibile per promuovere il nostro lavoro con la speranza di ottenere una buona risposta

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Per il momento, oltre a presentare il disco nei principali locali jazz milanesi (garage moulinsky, bakelite, corte dei miracoli...)  abbiamo un paio di date fissate per l'autunno: una al festival Jazzmi di Milano ed una a Rovereto organizzata da Emilio Galante.

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Max Giglio racconta Cities and Lovers: "Un viaggio in musica tra città, luoghi e atmosfere"

Pubblicato dall’etichetta Emme Record label, Cities and Lovers è il disco d’esordio di Max Giglio. Un viaggio in musica tra città, luoghi, atmosfere vissute ed immaginate, in cui ogni brano è una cartolina ricordo di luoghi speciali e di esseri che vivono e amano. Hanno partecipato al progetto diversi musicisti: Fabio Gorlier al pianoforte, Cesare Mecca alla tromba, Simone Arlorio al clarinetto, Veronica Perego al contrabbasso e Francesco Brancato alla batteria. Ecco cosa ci ha raccontato Max Giglio…

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Cities and Lovers è un viaggio in musica tra città, luoghi, atmosfere vissute ed immaginate, in cui ogni brano è una cartolina ricordo di luoghi speciali e di esseri che vivono e amano. L’album contiene 8 brani, tutti originali all’eccezione di The Dry Cleaner Des Moines, un blues di Mingus con testo di Joni Mitchell

Raccontateci adesso la tua storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Questo progetto è nato durante il mio percorso formativo al Conservatorio Paganini di Genova, alcuni brani del disco sono stati scritti proprio per il mio progetto di tesi che ho deciso di trasformare in un disco aggiungendo altri brani che comunque erano stati creati nello stesso periodo.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Per me sono tutte e tre le cose: il disco è stato registrato a Febbraio del 2021, quando eravamo ancora in lockdown, è dunque una fotografia di quel periodo particolare e di come siamo stati costretti a trovare alternative creative per continuare a fare il nostro mestiere. E’ un punto di arrivo perché è la sintesi del mio percorso di studi di Jazz ma anche un punto di partenza perché mi ha permesso di capire quali percorsi creativi mi piacerebbe intraprendere in futuro come cantante e compositore/cantautore.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Il Jazz mainstream e lo swing, ma anche tanta musica brasiliana/latina e cantautorato italiano. Mi hanno influenzato in modo particolare per la scrittura dei brani Gerschwin, Cole Porter, Charles Mingus ma anche Tom Jobim e Astor Piazzolla. Per quanto riguardo invece i cantanti: Carmen McRae, Mark Murphy, Nancy Wilson, Norma Winstone ma anche Mina.

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

Il mio desiderio sarebbe quello di poter portare il progetto di Cities and Lovers in giro per l’Italia e l’Europa, arricchendo i concerti con nuovi brani sempre legati a città ma anche ispirati a colonne sonore. Il Cinema è un’altra delle mie grandi passioni. Di recente ho avuto anche l’onore e il piacere di registrare un live in studio con l’attore Filippo Timi.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Attualmente sto lavorando a nuovi brani che hanno un’impronta più cantautorale e indie con arrangiamenti che strizzano l’occhio al pop e all’elettronica. Mi sta accompagnando in questo nuovo percorso il Producer Paolo Caruccio (in arte Fractae). Il primo brano di questo progetto uscirà a giugno, s’intitola La Scintilla ed è un incrocio autoironico tra il reggaeton alla Rosalía e il mondo dei film di Tarantino.

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Orpheus in the Underground: il nuovo disco del trio Barba – Negri – Ziliani

Pubblicato da Emme Record Label Orpheus in the Underground è il secondo disco del trio composto Riccardo Barba al piano e sintetizzatori, Nicola Ziliani al contrabbasso e Federico Negri alla batteria. Un progetto in cui si fondono il jazz, la musica classica, il rock e l’elettronica. Ecco come è nata questa avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Orpheus in the Underground” è il secondo album del nostro trio. Rispetto all’album di esordio (“Too Many Keys”), Orpheus è un lavoro più strutturato e unitario. Abbiamo cercato un suono che caratterizzasse il nostro trio. Si possono sentire echi di musica classica, rock, elettronica, il tutto sul canovaccio del jazz piano trio. Il concept del disco si muove su tre dimensioni: la prima ripercorre certi periodi della storia della musica (diversi brani portano nomi delle forme musicali antiche che li hanno ispirati); la seconda è legata alla città di Londra e alla sua Underground, mentre la terza dimensione ha un carattere più inconscio e psicologico. Ci piace immaginare che ciascun ascoltatore trovi la sua interpretazione di questo viaggio metropolitano e sotterraneo.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il trio è nato dopo una serie di lavori musicali che ci hanno fatto incontrare e conoscere. Insieme abbiamo suonato musica jazz, swing, classica e contemporanea; l’affiatamento che ci univa ha portato alla formazione di questa band. Il nostro primo lavoro discografico è una sorta di Zibaldone che raccoglie brani scritti precedentemente e vaghi barlumi di quello che volevamo realizzare come band. Ora stiamo cercando insieme di creare un terreno congeniale alle nostre esperienze musicali e ai nostri gusti. Ragioniamo più come band rock che come la classica formazione jazzistica.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Per noi rappresenta un punto di arrivo e di partenza allo stesso tempo. Sentiamo di aver raggiunto un obiettivo ovvero la creazione di un terreno comune su cui lavorare per creare progetti che si svilupperanno nel futuro e, ovviamente, per avere un impatto personale nei concerti dal vivo.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

La principale fonte di ispirazione è senza dubbio il trio di Esbjörn Svensson; quella è stata una formazione che ha saputo dare una scarica di energia al mondo del jazz. Altri artisti importanti per noi sono sicuramente il Brad Mehldau Trio e i Bad Plus. Amiamo anche trarre ispirazione da artisti provenienti da altri generi come i Radiohead, i The Smiths o compositori come Dmitri Shostakovic, Philip Glass, Steve Reich e Luciano Berio. 

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Per il futuro abbiamo molte idee. Ci piace pensare che questo progetto non abbia una sola collocazione stilistica ma che possa spaziare tra i generi. I nostri studi musicali vanno dalla musica classica al jazz, ma negli anni abbiamo lavorato nella musica pop e d’autore così come nella musica da cinema. Ogni album è una nuova sfida. Partendo da un’idea (musicale o non) cerchiamo di lasciare spazio a tutte le possibili manifestazioni del nostro pensiero musicale. In sintesi, ci piace pensare fuori dagli schemi stilistici in favore di un’espressione più libera.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Abbiamo in programma una serie di concerti per presentare “Orpheus in the Underground” sia in Italia che all’estero. Collaboreremo con la cantautrice Angela Kinczly per alcune nuove registrazioni.  Stiamo già preparando il nuovo disco che ci vedrà collaborare con un ensemble di voci; si tratta di un progetto molto ambizioso che si concretizzerà nel 2023.

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Stefano Battaglia e il disco The Best Things In Life Are Free: un viaggio nella tradizione del free jazz

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, The Best Things In Life Are Free è il nuovo disco della band Stefano Battaglia Sandards Quartet. Un viaggio nella tradizione americana del Free Jazz e un omaggio ai grandi spiriti di Ornette Coleman e Paul Motian. Ne abbiamo parlato con Stefano Battaglia

Stefano, per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

‘The Best Things In Life Are Free’ ritengo che sia un album fortemente legato al presente, presente inteso come vivere il momento, vivere nel momento, senza preconcetti e senza troppi appigli a cui aggrapparsi per non farsi trascinare dalla corrente della vita. Senza guardarsi indietro, senza guardare troppo al futuro, senza prendersi troppo sul serio. Così è la musica e così sono le improvvisazioni presenti in quest’album, un raccontare sé stessi, uno sputar fuori delle storie senza filtri, così come viene. Free jazz.

Raccontaci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Questo progetto è nato quasi per caso, in tempo di lockdown della musica, ci si trovava una volta a settimana con le splendide persone e musicisti che ne hanno preso parte: si parlava, anche per ore, di vita, di jazz, di bellezza, accompagnati da un buon vino, e poi si suonava, senza concerti in vista, giusto per il piacere di suonare, insieme. Secondo me il parlare, scambiarsi esperienze di vita, entrare in questo modo in contatto con i musicisti con i quali si suona, è molto importante, si stabilisce una relazione tra le persone che poi inevitabilmente influenza anche la musica, il modo di comunicare tramite la musica. Dalla sala prove, con l’idea di realizzare questo progetto, allo studio di registrazione il passo è stato breve.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Senza dubbio, questo album è stato una fotografia del momento. Personalmente, prima della pandemia, stavo vivendo a Brooklyn, New York, concerti e tours in vista e poi, d’improvviso, è arrivato il lockdown. Nel giro di qualche mese mi sono ritrovato in Italia, Paese dove sono rimasto per circa un anno. Un anno caratterizzato da alti e bassi perché per mesi e mesi non è stato possibile esibirsi in concerti, ma anche un anno nel quale ho avuto modo di approfondire la conoscenza di splendide persone e musicisti e, senza dubbio, anche di me stesso. È stata anche un’occasione per lasciare un po’ la musica libera e vedere quali strade potesse prendere da sé, senza troppe influenze o direzioni. È stato un anno positivo, per certi versi bellissimo ed inaspettato, che ho voluto fotografare con questo album. ‘The Best Things in Life Are Free’, perché spesso le cose più belle della vita sono quelle libere da vincoli, preconcetti, che arrivano così, in modo inaspettato e gratuito.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Se penso al concetto di riferimenti musicali, mi vengono in mente svariati generi di musica, dal jazz tradizionale, alla musica popolare, alla musica classica antica, fino a quella contemporanea ed ai loro fautori. Devo ammettere che negli ultimi anni, dopo essermi trasferito negli Stati Uniti, è cresciuta sempre più la curiosità verso il mondo attuale del free jazz, dell’improvvisazione estemporanea o ‘comprovisation’. Mi vengono in mente i The Fringe, il trio storico di George Garzone, con John Lockwood ed il compianto Bob Gullotti, ma anche Joe Lovano, Dave Liebman, Kenny Werner, Tony Malaby, Leo Genovese, Kris Davis, Francisco Mela, Tyshawn Sorey, Craig Taborn, Bill Frisell, Wayne Shorter Quartet. In Europa trovo molto interessante il discorso che si sta portando avanti nell’improvvisazione contemporanea, tra gli esponenti mi vengono in mente Daniele Roccato e Michele Rabbia.

Come vedi questo progetto nel futuro? In sintesi, quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Il jazz è, se vogliamo, un contenitore delle varie influenze musicali, degli studi fatti, delle esperienze vissute. Il free jazz lo è in modo ancora maggiore. È un po’ come provare a scrivere in un quaderno senza quadretti, dove le linee guida sono il tuo background, sono il tuo vivere il momento, sono quelle che ti disegnano i tuoi bandmates in quel momento. Ecco, penso che favorendo l'incontro della conoscenza musicale, con la voglia di rischiare, di uscire un po’ dal seminato, il free, inteso come ricerca, come dialogo, come aspirazione collettiva ad una composizione estemporanea, possa essere il jazz del futuro.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Stiamo lavorando per portare il progetto in giro in Italia per l’estate, quando la bella stagione favorirà gli incontri ed i concerti, magari senza troppe limitazioni. Personalmente sto lavorando ad un nuovo album, questa volta di musiche interamente originali, che spero di poter registrare in primavera. A presto!

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Andrea Cappi racconta il disco Eleven Tokens: “Un cross-over dalle diverse contaminazioni”

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, Eleven Tokens è il disco d’esordio di Andrea Cappi Multibox. Un progetto cross-over ricco di contaminazioni in cui si mescolano elementi di improvvisazione con sonorità più vicine all’electro/rock. Andrea Cappi ha raccontato a Jazz Agenda questa nuova avventura.

Andrea per cominciare l’intervista, raccontaci la storia legata a questo progetto: vuoi raccontarci come è nato e come si è evoluto nel tempo

Il progetto Multibox è nato due anni fa. Volevo scrivere brani che prendessero spunto dall’esperienza fatta con il mio trio Flown, con cui ho inciso un disco nel 2019, e che in qualche modo evolvessero in qualcosa di diverso, sia in termini compositivi che di intenzione musicale. Ho sperimentato forme di scrittura nuove per me, ricercando quell’approccio che mi indirizzasse verso qualcosa di diverso rispetto a ciò che avevo scritto in precedenza, per certi versi più semplice anche se più strutturato.

Eleven Tokens, dunque, è il disco d’esordio del tuo progetto Andrea Cappi Multibox: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Il disco è composto da sei brani. La materia musicale è un cross-over dove si possono apprezzare diverse contaminazioni: jazz, electrobeat, rock principalmente. I brani sono piuttosto lunghi poiché cercano di narrare qualcosa attraverso varie sezioni in cui ognuna rappresenta una evoluzione o elemento di rottura con la precedente, tra parti scritte e improvvisate. Credo che il risultato finale risulti uniforme e presenti un filo conduttore facilmente intellegibile.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Eleven tokens rappresenta probabilmente un’istantanea del mio percorso di vita e professionale in questo momento. E’ un a fase dove sento di aver cominciato finalmente a fare ordine tra materiale musicale studiato e ascoltato e ciò che mi piacerebbe realizzare da adesso in poi. Forse Eleven tokens rappresenta questo: una necessità di sintesi tra riferimenti e percorsi musicali passati e presenti e una ricerca di organizzazione e di direzione nel mio personale percorso.

In base a quale criterio hai scelto i brani che lo compongono?

Ogni brano che compone il disco nasce da un’idea musicale abbastanza istintiva: una frase piuttosto che una successione d’accordi o magari una ricerca di un mood emozionale, eccetera. Tuttavia, subito dopo questa prima idea c’è sempre, in ogni brano, una concreta organizzazione dei materiali, basata sulla scelta di alcuni e lo scarto di altri, in maniera molto razionale. Su alcuni dei brani che compongono il disco ho tentato di partire da diversi presupposti, ponendomi dei confini e delle regole entro le quali scrivere. Penso che questo si possa avvertire dal disco. 

Hai qualche nuovo progetto in cantiere o qualche nuova registrazione?

Spero di suonare il più possibile questo repertorio perché è un genere musicale che va prima di tutto suonato e vissuto in maniere coinvolgente nella sua dimensione live, dove si creano situazioni improvvisate anche molto lontane dalla musica registrata sul disco. Abbiamo in progetto alcuni concerti per la primavera/estate 2022 in cui ci piacerebbe registrare qualche performance dal vivo. Ci sono poi alcune idee in cantiere per la stesura del secondo album che abbiamo in programma a fine 2022.

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Sara Fortini racconta il nuovo progetto Songs: “Un disco intimo che racchiude brani diversi tra loro”

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, Songs è il disco d’esordio del duo composto da Sara Fortini alla voce e Federico De Vittor al pianoforte. Un progetto intimo che mette al centro la melodia e rivisita l’armonia di alcuni brani famosi, alternandoli ad altri inediti. Sara Fortini ci ha raccontato come è nata questa avventura...

Per cominciare l’intervista ci volete raccontare come è cominciata questa collaborazione e come è nato questo progetto in duo?

È iniziato tutto suonando insieme in diversi contesti e situazioni, condividendo musica, idee e sensazioni abbiamo trovato una forte intesa, il resto poi è arrivato spontaneamente di conseguenza. Ad entrambi piaceva l’idea di strutturare un repertorio di ballads, di canzoni lente per cui fosse necessario chiedere all’ascoltatore ma anche all’esecutore il tempo di fermarsi ad ascoltare.

Songs è un disco intimo dove la melodia, a nostro avviso, è al centro di tutto: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Songs” è come avete già espresso nella domanda un disco intimo che racchiude brani diversi tra loro fra cui alcuni riarrangiamenti di canzoni molto conosciute all’interno del mondo del cantautorato italiano e non solo. Al suo interno ci sono brani scritti da entrambi come “Correnti più a sud”,“Serenade” e “Colors” ma ci sono anche brani di Lucio Dalla e Umberto Bindi come “Canzone” e “Arrivederci” un brano di Monk “Ugly Beauty” e due brani dei The Beatles “Across the Universe” e “Eleanor Rigby”.

È un disco eterogeneo che cerca di dar voce alle nostre influenze più grandi nel modo più sincero e personale possibile ma soprattutto è un disco sincero, di ogni brano abbiamo registrato solo una o due take e il lavoro di sovra incisione e post produzione è ridotto al minimo.

In questo progetto abbiamo notato un repertorio piuttosto variegato, con brani vostri e altri grandi successi italiani e internazionali. In base a quale criterio li avete scelti?

Quando si lavora ad un progetto discografico che ci mette nella situazione di essere sia interpreti che autori le cose si complicano e la scelta del repertorio può essere difficile. Noi abbiamo deciso di scegliere delle canzoni che segnano o hanno segnato dei momenti particolari nel nostro percorso sia artistico che personale.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Soprattutto nella musica non esistono mai punti di arrivo ma solamente nuovi punti di partenza. Noi volevamo lasciare una fotografia che ritraesse chi siamo oggi e perché e l’abbiamo scattata con questo disco, un domani riascoltandolo saremo sicuramente diversi ma le nostre canzoni saranno ancora le stesse.

Parlando del duo piano e voce: quali sono secondo voi le potenzialità espressive di questa formazione?

Le possibilità espressive del duo pianoforte voce sono infinite, così come ogni strumento se esplorato profondamente offre continue scoperte. In questo disco le dinamiche diventano importantissime così come la capacità di trovare sfumature e colori nuovi per ogni brano, ci viene da dire che la fragilità e la forza di questo disco è proprio questa, saper trovare la giusta intenzione espressiva per ogni canzone nel modo più sincero e immediato possibile.

Chiudiamo con uno sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Stiamo continuando a comporre e a condividere musica. Nel prossimo futuro c’è l’idea di un disco che abbia un carattere più simile ad alcuni pezzi del disco come “Eleanor Rigby”, dove l’interpretazione si mescola anche ad un tipo di arrangiamento più strutturato e perché no, anche alla sperimentazione.  Ci stiamo preparando per i prossimi concerti inserendo anche altri brani trovando spunto anche da alcuni scritti di poeti più contemporanei, vi terremo aggiornati sulle prossime date.

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Paolo Principi racconta il disco Empathies: “Un artista è sempre in evoluzione, in cammino”

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, Empathies è il disco d’esordio del pianista Paolo Principi. Un lavoro in cui si intrecciano i percorsi musicali di tre musicisti, forse diversi tra loro, ma che hanno intrapreso un viaggio comune. La formazione è infatti completata da Andrea Morandi alla batteria e Roberto Gazzani al basso elettrico. Ecco cosa ci ha raccontato Paolo Principi riguardo questa nuova avventura. 

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Certamente. Si tratta di una raccolta di mie composizioni proposte ed arrangiate insieme a due compagni di viaggio: Roberto Gazzani al basso elettrico e Andrea Morandi alla batteria. L’eterogeneità delle esperienze musicali di ciascuno costituisce un elemento di arricchimento per la proposta di una musica che potremmo definire senza confini. Pensiamo infatti che la “diversità”, nei suoi aspetti più profondi, generi bellezza. Un vero e proprio arricchimento culturale (cito un paio di titoli del disco: “No boundaries” e “Soul Journey”).

Raccontaci la storia di questo disco: come è nato e come si è evoluto nel tempo?

Suoniamo insieme da molti anni e, parallelamente, ciascuno di noi ha anche esperienze musicali diverse che spaziano dal jazz alla world music, dal funk alla composizione per il teatro o le immagini. Le mie composizioni, per lo più recenti, riflettono il mio vissuto di musicista e di ascoltatore, così ho pensato di condividerle con Roberto ed Andrea per arricchirle del loro contributo. E devo dire che questa “apertura” funziona davvero e forse è un atteggiamento che sta alla base del Jazz. Durante le ultime prove abbiamo pensato anche di coinvolgere due altri musicisti per un brano che secondo noi si poteva sviluppare con una formazione più ampia del classico trio. Marco Postacchini al sax e Luca Mattioni alle percussioni ci hanno aiutato per il brano “Blues Guy” dove ho suonato il piano elettrico Fender Rhodes (in realtà è il virtual instrument PSound “Vintage Electric” creato da me come sound designer).

Un disco per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Questo disco rappresenta per me una tappa importante, perché ho sentito la “necessità” a questo punto del mio percorso di musicista e sound-designer di dire la mia. Non a caso le composizioni sono tutte originali tranne l’ultima di cui magari parleremo in seguito. Non lo considero un punto di partenza (anche se è la mia prima pubblicazione) perché compongo da molti anni in ambiti diversi. Tantomeno non lo posso considerare un punto di arrivo perché un artista è sempre in evoluzione, in cammino. La ricerca sul proprio “suono” non ha punti di arrivo secondo me. Un disco è prima di tutto un progetto culturale con la sua struttura, i suoi valori anche extra musicali. Nelle note di copertina vi è riportato un passaggio tratto dalla lettera aperta alle nuove generazioni di artisti scritta a quattro mani da Herbie Hancock e Wayne Shorter: “We are not alone. We do not exist alone and we cannot create alone. Focus on developing Empathy and Compassion”. Musica quindi come luogo privilegiato di accoglienza, culla per l'incontro di culture diverse.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Beh, se devo fare un nome su tutti, citerei Herbie Hancock per la modernità del suo pianismo, la sua ritmica, il suo approccio armonico politonale e “last but not least” come dicono gli americani, per il suo approccio “umano” alla musica e alla vita. Un secondo nome importante per me, sia dal punto di vista pianistico che, soprattutto compositivo è sicuramente quello di Enrico Pieranunzi. Ma i riferimenti sono davvero tanti perché credo che in un percorso da musicista e da ascoltatore, ci si arricchisce di tutto ciò che si è attraversato. E la “varietà” del mio percorso, tra musica jazz, composizione classica, musica contemporanea, musica da film, il suono elettronico, ha fornito e continua a fornire spunti di riflessione. Cito a questo punto l’ultimo traccia del disco “Adagietto” che è una rispettosa ed intima rivisitazione del famosissimo IV movimento della V sinfonia di Mahler. Fu scritto originariamente per orchestra d’archi e arpa, senza la minima traccia di quel fragore monumentale tipicamente mahleriano, senza violenza, con una dilatazione dei tempi e dei timbri che portano il brano ad una narrazione quasi liturgica, ad una drammaticità interiore, tanto intima quanto allo stesso tempo libera da manierismi o citazioni. Ecco ad esempio come anche un’opera del novecento storico (un periodo di “confine”) possa essere il punto di partenza per un nuovo viaggio. Una musica assoluta, senza confini appunto.

Come vedi il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

A parte questo periodo un po’ difficile per portare avanti progetti musicali, credo avrà uno sviluppo diciamo “naturale”. Intendo che sarà la nostra sensibilità, i nostri nuovi stimoli, la nostra “empatia” per citare il nome del disco, a farci da guida per le nuove composizioni. Una strada è stata imboccata, vediamo dove ci porta, guidati semplicemente dall’interesse per la musica e dai valori in cui crediamo. Cito ancora la lettera di Hancock e Shorter: “Il mondo ha bisogno di più interazione individuale tra persone di origini diverse con una maggiore enfasi su arte, cultura e istruzione. Le nostre differenze sono ciò che abbiamo in comune. Possiamo lavorare per creare un piano aperto e continuo in cui tutti i tipi di persone possano scambiare idee, risorse, premure e gentilezza. Abbiamo bisogno di connetterci l'uno con l'altro, di conoscerci l'un l'altro e vivere la vita l'uno con l'altro. Non possiamo mai avere pace se non riusciamo a capire il dolore nei cuori dell'altro. Più interagiamo, più arriveremo a comprendere che la nostra umanità trascende tutte le differenze”.

Chiudiamo con uno sguardo al futuro: anche se è un momento difficile hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione che stai portando avanti?

Abbiamo in programma qualche concerto ma stiamo muovendoci ora per i festival invernali per presentare questo lavoro e, allo stesso tempo, per assimilare nuovi stimoli per le prossime composizioni. Quando avremo nuovo materiale a sufficienza, torneremo in studio.

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