Pubblicato dall’etichetta Tosky Records, Loose è il disco che ha visto nascere la fruttuosa collaborazione tra il clarinettista e sassofonista Gianluca Lusi ed il pianista statunitense Joel Holmes. Un’esperienza che è andata al di là dei confini nazionali che Gianluca Lusi ci ha raccontato in prima persone.
Gianluca, per cominciare volevo chiederti come è nato l’incontro con Joel Holmes, pianista con cui ha dato vita al tuo ultimo progetto Loose…
“Come saprete, Joel suona spesso col grande trombettista statunitense Roy Hargrove. In uno di questi concerti rimasi stupito e incuriosito da questo fantastico pianista. Da lì, la voglia di incontrarlo e conoscerlo meglio anche musicalmente, a Roma, quasi due anni fa: lui si trovava di passaggio e io colsi l’occasione e lo contattai. E’ nata subito una grande intesa che ci ha portato a realizzare questo disco.”
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto a collaborare con lui per la realizzazione di questo disco in duo?
“Ci siamo trovati subito in sintonia e abbiamo deciso di comune accordo di mettere su un progetto in duo, senza ritmica, proprio per esaltare al massimo questa sinergia che si era creata.”
Sicuramente molti dei nostri lettori penseranno che il fatto di poter suonare con un musicista statunitense sia un’esperienza unica. Cosa ti ha lasciato tutto questo?
“Sicuramente ogni nuova esperienza incide in maniera determinante nella carriera di un musicista. Non era la prima volta che avevo a che fare con un musicista americano, infatti ho già alle spalle un disco col trombettista Andy Gravish, dei live con un altro trombettista sempre americano Kyle Gregory e con la cantante Denise King, oltre all’esperienza in Mississippi Louisiana. Tuttavia l’incontro con Joel rimane un’esperienza fantastica che mi ha lasciato delle sensazioni ed emozioni uniche e autentiche.”
E visto che ci siamo arrivati, ci vuoi raccontare la tua esperienza negli Stati Uniti?
“Certo, stiamo parlando dell’Aprile 2007. Fui inserito all’interno di un progetto di intercambio culturale tra l’Italia e New Orleans. Una volta lì, ebbi il piacere di conoscere molti jazzisti del posto e non: all’inizio il sassofonista/compositore/arrangiatore Larry Panella, direttore della big band della “The University of Southern Mississippi”, che mi invitò ad esibirmi come solista nella sua formazione in cui, in quella occasione, vi era un pianista d’eccezione, il grande Bill Carrothers. Sono stato invitato dai musicisti della big band a suonare nei jazz club del posto, in concerti che si concludevano con delle lunghissime jam. Fu un esperienza unica per me, che contribuì a darmi quel bagaglio di esperienza e di stimoli che a breve avrei riassunto con la realizzazione del mio primo disco da leader, l’anno successivo.”
Parlando di musica, e in questo caso soprattutto di jazz, quali sono le differenze che hai notato tra gli Stati Uniti e l’Italia?
“Innanzitutto il carattere. Questa è una cosa che ho ritrovato in tutti gli americani con cui mi sono trovato a lavorare: hanno un approccio molto più pratico e essenziale alla musica e quindi alla relazione con gli altri, ti mettono subito a tuo agio e si mettono a disposizione con grande professionalità. Si suona molto di più che in Italia, e il livello è molto alto anche tra i giovani. Credo che il problema parta dalle scuole: in Italia ci sono delle grosse lacune da colmare, anche se forse da quando sono nati i licei musicali sembra si voglia dare un segnale positivo in questo senso, ma abbiamo ancora molto da imparare dall’America…”
E invece per quanto riguarda i musicisti, possiamo dire, forse, che c’è un modo diverso di vivere ed intendere la musica?
“In parte si. Il loro aspetto pratico si riflette anche nella musica: danno molta importanza all’estemporaneità cercando di non allontanarsi da quell’aspetto, definito da alcuni musicologi “audiotattile” che in effetti rimane una caratteristica fondamentale del jazz e dell’improvvisazione soprattutto.”
Una curiosità che personalmente mi chiedo da parecchio tempo. Come vengono considerati negli Stati Uniti i musicisti italiani?
“Non si può negare che il jazz italiano, sopratutto negli ultimi trent’anni, abbia subito una notevole evoluzione, sia in termini qualitativi che di quantità e spazi dedicati. Abbiamo sicuramente attinto dalla scuola americana, e infatti oggi ci sono dei grandi insegnanti anche in Italia che utilizzano lo stesso approccio all’insegnamento mutuato dai più famosi metodi americani (come Jerry Bergonzi o Dave Liebman ad esempio, o il metodo Bercklee). Infatti siamo molto apprezzati all’estero, soprattutto in Giappone ma anche in America, almeno per quello che ho potuto riscontrare io personalmente.”
Prima di salutarci quali saranno i vostri prossimi impegni. Dove potremmo venire ad ascoltarvi?
“Il 15 marzo saremo al San Severo Winter Jazz, e continueremo a suonare in Italia nei mesi successivi: a questo riguardo potrete trovare tutte le informazioni collegandovi al sito www.toskyrecords.com.”
E allora grazie per l’intervista e in bocca al lupo per i prossimi progetti…
“Grazie a voi e complimenti al vostro lavoro, ma sopratutto buona musica.”
Carlo Cammarella