Un passo in avanti senza tradire le proprie origini e rispettando un cammino che inizialmente lo ha visto crescere in qualità di session man. Prima o poi, però, quando si parla di jazz quasi tutti i musicisti sentono l’esigenza di un approccio personale alla testa di un progetto. E così è stato anche per Lucrezio de Seta, batterista romano, classe 1970 che ha appena pubblicato il suo primo CD in studio intitolatoMovin ‘On. Un lavoro multiforme che racchiude le esperienza accumulate in 30 anni di musica suonata e vissuta. Lucrezio in persona ci ha parlato di questo disco che forse rappresenta un vero e proprio punto di partenza verso un’avventura totalmente nuova.
Lucrezio, ascoltando questo disco sono rimasto subito colpito dal titolo del tuo progetto. Per cominciare, quindi, volevo chiederti cosa rappresenta per te Movin‘On…
“Il titolo Movin‘On rappresenta la mia personale visione della musica e in particolar modo quella dei miei ultimi 10 anni di attività. Ultimamente, senza rinnegare il cammino che oggi mi ha portato a diventare quello che sono, ho fatto delle scelte radicali tra cui quella di ridurre le mie collaborazioni come session man. Metaforicamente parlando, diciamo che ho deciso di ritirarmi nelle mie stanze per riprendere quella mia interiorità e soprattutto quell’intenzione che a 12 anni mi ha portato a decidere di fare il musicista. In sintesi ho deciso di riprendermi la mia indipendenza perseguendo linee espressive che non fossero limitate al solo lavoro da session man. Un’esigenza personale, che a 44 anni mi ha portato a fare il mio primo disco da leader.”
Ascoltando Movin’ On ho avuto il piacere di ascoltare la presenza di molte contaminazioni. Potremmo dire, allora, che all’interno di questo disco ci sono le esperienze accumulate in una vita?
“Diciamo che all’interno di questo progetto ci sono le esperienze di una parte della mia vita. Movin’ On, infatti, essenzialmente è un disco di jazz. Non mancano però quegli elementi esotici che provengono dalla tradizione popolare e della musica etnica che da subito hanno fatto parte della mia esperienza artistica. Questa frequentazione si è concretizzata poi con l’esperienza dei Majaria trio che si è incentrata nella ricerca all’interno di quella che ci piace chiamare ‘musica del sud del mondo’. Alla fine tutto questo è venuto fuori in maniera quasi spontanea, ma non nascondo che una parte di me affonda le radici anche in forme artistiche molto più semplici e dirette come il punk o il rock di matrice anglosassone.”
E quando hai sentito, allora, l’esigenza di un approccio al jazz?
“L’esigenza di approcciarmi al jazz è nata da subito, ma le opportunità della vita mi hanno visto impegnato per lungo tempo in altri ambienti musicali, così che solo da una decina di anni ho ripreso pazientemente e rispettosamente contatto con quel mondo che avevo lasciato mio malgrado un po’ in disparte. Alla fine, però, le cose che rimandi vengono fuori inevitabilemtne e anche Movin ‘On rappresenta quindi un andare in avanti, ma operato guardando con attenzione alle mie radici, riprendendo quello che avrei sempre voluto fare.”
A proposito ricordi un momento in particolare che ti ha veramente avvicinato a questo genere?
“All’età di 13 anni per caso misi le mani alla colonna sonora del film ‘Round Midnight di Bertrand Tavernier, ispirato alle vite di Lester Young e Bud Powell, e rimasi affascinato da questo disco popolato dalle allora giovani stelle del jazz moderno da Herbie Hancock a Freddie Hubbard e Wayne Shorter. Contemporaneamente conobbi il Jazz Rock dei Weather Report e la Fusion di Pat Metheny. Quindi, invece di partire dal jazz delle origini sono partito da sue forme contaminate, ed è stato come se questi musicisti mi avessero preso per mano accompagnandomi in un viaggio a ritroso verso il jazz più classico del bebop e delle big band. Probabilmente se avessi ascoltato il Jazz delle origini a 14 anni l’avrei trovata poco attraente per cui sono stato fortunato perché dal mio punto di vista è stato fondamentale entrare in contatto con quella musica attraverso suoni che in quel momento riuscivano a comunicare in modo più diretto.”
Il jazz secondo te è il genere di musica che riesce a far esprimere al meglio le potenzialità di un musicista?
“Diciamo che fra tutti i generi musicali il jazz, non potendo prescindere dal concetto di improvvisazione, è sicuramente considerato generalmente come uno stile che presuppone grande libertà, ma credo che la creatività sia presente in tutte quelle forme espressive che non escludono la possibilità di rinnovarsi di continuo. Tuttavia per quello che riguarda me il jazz è senza dubbio lo stile che da sempre tocca le mie corde più intime e a maggior ragione in questo momento in cui ho intrapreso l’impegnativo cammino da leader. Ti confesso però che quando si parla di generi musicali ho sempre un po’ di timore dato che considero da sempre la Musica come un corpo unico. Le classificazioni stilistiche, pur necessarie ai fini di una più profonda comprensione accademica, sono più che altro un modo per orientare l’ascoltatore verso una cosa piuttosto che un’altra, ma non dovrebbero mai portare alla separazione, o peggio, alla segregazione di alcuni generi rispetto ad altri. La Musica è per tutti, sia in quanto ascoltatori che musicisti, e bisognerebbe essere molto attenti nel non usare le classificazioni per fare valutazioni di merito. La cosa bella avviene proprio quando un ascoltatore occasionale, dopo un concerto, ti si avvicina per dirti che, pur essendo capitato lì per caso e non essendo un appassionato di jazz, si è emozionato ascoltando la tua musica. Per me questo vuol dire che c’è stato uno scambio reciproco e che sei riuscito nel tuo dovere di musicista!”