Jazz Agenda

Live report – Roma Jazz Festival: Roberto Gatto ci racconta il prog inglese

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Questo progetto fa parte di uno dei sogni nel cassetto che coltivo da diversi anni. Personalmente ho sempre amato le sfide e come sempre, mosso dall’entusiasmo, ho accettato di tentare anche questa”. E dal 2008, anno in cui ha visto la luce il progetto Progressivamente in un album registrato dal vivo alla Casa del Jazz, sono state diverse le occasioni in cui Roberto Gatto ha dimostrato di aver vinto totalmente questa sfida. Accompagnato da musicisti del calibro di Fabrizio Bosso alla tromba, Luca Mannutza alle tastiere e piano, John De Leo (ex voce dei Quintorigo), Roberto Rossi al trombone, Francesco Puglisi al basso, Maurizio Giammarco al sax e Roberto Cecchetto alla chitarra, venerdì 11 novembre Gatto ha regalato al pubblico dell’Auditorium il suo omaggio al rock progressive, nelle rivisitazioni di brani tratti dai dischi dei King Crimson, Genesis, Matching Mole, Robert Wyatt e Pink Floyd (oltre ad un brano originale di John De Leo). “Ho voluto coinvolgere musicisti che come me avessero vissuto quel momento musicale in quegli anni, ma anche musicisti più giovani, che magari avessero un punto di vista e una chiave di lettura differenti”. La sala Petrassi è gremita, ed il pubblico decisamente vario!

I musicisti salgono sul palco inizialmente senza John De Leo, che solo dopo i primi due brani spunta -letteralmente- da dietro la batteria ad intessere un gioco di suoni con la sua voce; una serie di “vocalizzi” che si incalzano, creando una buffa parentesi che non tradisce le capacità e la bravura di questo artista. De Leo gioca altrettanto col microfono, complementare e necessario nel far cogliere le molteplici sfaccettature sonore che lo stesso riesce a darsi. Differentemente Bosso usa il microfono per distorcere il suono della sua tromba, inscenando un botta e risposta di identici accordi che risultano come due voci diverse. Quello dei tre fiati poi, è uno spettacolo non solo sonoro, ma anche visivo; simili e sincronizzati i loro gesti danno la percezione che la musica -in quel momento- li abbia davvero uniti in un’unica melodia. Roberto Gatto ci spiega la scelta dei brani, ce ne racconta la genesi, cadenzando così l’ora e mezza trascorsa assieme. Si emoziona parlando di un’amica musicista scomparsa poche ore prima del concerto; aprendo uno squarcio (purtroppo) malinconico di vita personale. Anche in questo modo la musica ci parla, riesce a strappare un’emozione diversa ad ognuno di noi, a non rendersi fine all’ascolto e basta. L’inquietante romanticismo di Sea Song (potete immaginare quanto l’abbia reso tale la camaleontica voce di John De Leo), la poesia (arte a cui, del resto, si ispira) di Watcher of the Skies, o la chiusura con la splendida Trilogy (la cui prima parte è stata lasciata esclusivamente a Luca Mannutza e Maurizio Giammarco), sono solo una parte del racconto di una storia -quella del prog inglese- che gli abili narratori ci hanno restituito in musica.
Serena Marincolo
foto di Valentino Lulli
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CASA DEL JAZZ LIVE DIARY : Le Orme e il Banco del Mutuo Soccorso chiudono Progressivamente

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Non c’è discussione sul fatto che i primi anni ’70 siano stati i più prolifici per il rock progressivo italiano, anni in cui le più importanti formazioni di questo genere producevano i migliori dischi e i migliori concerti. E le persone che spesso ci hanno raccontato di quel periodo, ce l’hanno definito come magico e irripetibile, come un qualcosa che si respirava nell’aria e che forse non sarebbe tornato più. Certo, se ci pensiamo un po’ su, la prima cosa che potremmo rispondere è che probabilmente hanno anche ragione, ma pensandoci meglio, potremmo anche contestare dicendo che domenica 11 settembre alla Casa del Jazz (nell’ambito del Festival Progressivamente), a vedere Le Orme e il Banco del Mutuo Soccorso, c’erano quasi tre mila persone. E non parliamo soltanto di nostalgici amanti della musica degli anni ’70, ma di un pubblico che forse rappresenta tutte le generazioni e che semplicemente ama la buona musica. Quindi, cerchiamo di proiettarci per un attimo in quella serata e per capire meglio l’atmosfera diciamo subito che ben prima dell’inizio del concerto non era rimasta l’ombra di un posto a sedere. Gente seduta per terra, in piedi, vicina al mixer e ai lati del palcoscenico per un concerto davvero indimenticabile che ci ha fatto sentire come dei privilegiati baciati da una buona stella, magari da “La croce del sud”, giusto per fare una citazione ad hoc. Ma lasciamo stare le parole rubate a persone che sicuramente hanno più inventiva di noi e cerchiamo di tuffarci nell’atmosfera di questa splendida serata.

I primi a salire su questo palcoscenico e ad incantare un pubblico più che mai ansioso di ascoltare sono Le Orme. Certo, è probabile che tutti gli amanti del progressive siano a conoscenza della separazione avvenuta fra gli ultimi due membri della storica line up, ovvero il batterista Michi Dei Rossi e il vocalistAldo Taglialapietra, ma questo non vuol dire che il gruppo abbia perso la voglia e l’inventiva per stupire e per stupirsi. E quindi, se pensiamo che adesso alla voce c’è Jimmy Spitaleri, fondatore dei Metamorfosi, allora possiamo proprio dire che sebbene le cose cambino, come a volte è anche giusto che sia, la buona musica rimane sempre tale e riesce sempre ad emozionare. E poi la presenza scenica non è da sottovalutare per niente. Spitaleri si presenta con una chioma lunga e folta e con tutta l’energia necessaria per affrontare una serata del genere.

 

Fin dall’inizio, infatti, da quando Le Orme cominciano a suonare, riescono a creare atmosfere surreali, a trascinarti in quell’arte della sperimentazione che soltanto pochi musicisti riescono a fare così bene. La prima parte è dedicata tutta all’ultimo lavoro d studio, La via della Seta. Testi che parlano di viaggi, sia terreni che mentali, musiche che hanno il potere di farti abbandonare la realtà per permetterti di tuffarti in un universo parallelo fatto di suoni, colori, ma anche di arte e poesia. Due viaggi, uno compiuto attraverso il suono degli strumenti, l’altro attraverso la narrazione e la conoscenza. C’è anche il tempo per fare un tuffo nel passato con il disco Felona e Sorona, suonato al momento della chiusura, e per ascoltare quella musica corale, sinfonica, monumentale che da sempre è stata, secondo noi, la principale caratteristica di questa formazione. E il concerto in questo modo acquista diverse sfaccettature, diversi momenti che lo rendono unico e irripetibile fino all’ultima chiusura della batteria di Michi Dei Rossi, sempre impeccabile, come del resto tutti gli altri membri delle Orme.

Ora, solitamente dopo che termina il primo concerto bisogna aspettare un po’ di tempo perché cominci il secondo. In generale passano una ventina di minuti, ma questa volta, forse perché la voglia di suonare era davvero tanta, non ne sono passati neanche cinque. Il Banco del Mutuo soccorso, infatti, sale sul palcoscenico della Casa del Jazz dopo un brevissimo tempo di intervallo e comincia a suonare con tutta l’energia che tutti gli amanti di questa band si aspettano di percepire. Francesco di Giacomo, voce della band, a 60 anni suonati ha ancora energia da vendere e Vittorio Nocenzi piuttosto che suonare vola sulla tastiera. Ma la cosa bella, che viene spesso sottolineata da più membri della band, è che la musica è condivisione. Senza il pubblico non ci sarebbe la stessa alchimia e quindi niente di tutto quello che abbiamo visto e sentito sarebbe possibile. Sono parole che ci fanno capire la passione che c’è dietro ogni singola nota suonata o pizzicata su ogni strumento. Energia pura, energia positiva, energia che ci fa viaggiare nello spazio e nel tempo e che allo stesso tempo riesce a metterti nelle migliori condizioni possibili.

 

Francesco di Giacomo ha ancora una voce capace di emettere suoni irripetibili e di alternare ad essi momenti di recitazione pura, come se il concerto fosse un’opera d’arte in continuo movimento. E sebbene ci sia un momento in cui ogni singolo elemento riesca ad emergere, la cosa più bella rimane sempre quella musica d’insieme che durante questa serata indimenticabile è riuscita ad ipnotizzare il pubblico per oltre un’ora e mezzo. Il concerto, quindi, scorre veloce e nella sua complessità risulta, leggero, coinvolgente quasi inafferrabile. Con il Banco tutto diventa semplice, si crea un legame fra pubblico e palco, i ritmi incalzanti e la potenza che viene sprigionata dalla formazione coinvolge tutti, anche quelli che magari si trovavano lì per caso ignari di quello che avrebbero ascoltato. E la cosa che ci ha davvero colpito è l’umiltà, la semplicità, la spensieratezza con cui la serata viene affrontata, come se questi illustri signori con alle spalle 40 anni di rock progressivo si fossero fermati davanti allo scorrere del tempo per regalarci attimi di estasi per i nostri timpani.

E come grande conclusione di questa serata, che sicuramente ricorderemo per un bel po’ di tempo, salgono sul palco insieme al Banco le Orme. E immaginatevi cosa può succedere in un concerto con due formazioni del genere che suonano insieme canzoni capolavoro come Non mi rompete. E’ qualcosa che ci viene veramente difficile da spiegare senza l’ausilio di quei musicisti che per 20 minuti ci hanno fatto viaggiare con ritmi e melodie che non si possono definire coinvolgenti perché altrimenti sarebbe troppo riduttivo. Insomma, quella di domenica è stata la conclusione in grande stile di un festival (Progressivamente) che per una settimana ci ha davvero tenuto compagnia con alcuni dei migliori musicisti della scena di ieri, di oggi e chissà… Forse anche di domani.

Carlo Cammarella

foto di Valentino Lulli

 

 

 

 

 

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CASA DEL JAZZ LIVE DIARY: Fonderia , Nico Di Palo & Vittorio Scalzi “New Trolls”

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Eccoci qui , come al solito a seguire il festival PROGRESSIVAMENTE , evento ospitato dalla Casa del Jazz .Questa sera ascolteremo prima uno splendido progetto quale quello della Fonderia, gruppo formato da Emanuele Bultrini (chitarra), Stefano Vicarelli (piano  organo synths), Federico Nespola (batteria), Luca Pietropaoli (tromba) e Paolo Pecorelli (basso). Subito dopo, per non farci mancare nulla, Nico Di Palo (voce e tastiera) e Vittorio De Scalzi (voce ,tastiere,chitarre e flauto) ci riporteranno agli albori del prog italiano con la loro storica formazione dei New Trolls, accompagnati da Andrea Maddalone (chitarra e voce), Francesco Bellia (basso e voce), Roberto Tiranti (voce e chitarra) e Giorgio Bellia (batteria). La Fonderia ci propone un’emozionate miscela di prog, jazz, rock e funk. La musica scorre leggera e ci lasciamo prendere dai ritmi dati dalla batteria e dai fantastici suoni emessi dal basso, che passa dalle sonorità rotonde e piene degli anni ’70 a suoni più duri, quasi rock. Il tutto è intramezzato da splendide melodie di tromba che ci riportano a suoni più vicini al jazz, e da una chitarra e una tastiera che ci avvicinano più al mondo del progressive. Gradita sorpresa è stata la partecipazione di Barbara Eramo, che con la sua splendida voce ha dato vita, insieme alla Fonderia, a un momento magico ed emozionate . In conclusione questo progetto risulta piacevole, ben fatto e soprattutto molto sentito dal gruppo. Il risultato che ne esce è sicuramente frutto di un duro lavoro, e gli si renda merito di questo.

 

“New Trolls”, cosa vogliamo aggiungere? Un concerto tenuto magistralmente, una carica che qualche spettatore definisce migliore di quella dei tempi che furono. Non credo di essere abbastanza bravo per descrive la forza , il ritmo e l’aria che si respirava mentre suonavano. Le voci di Nico Di Palo e di Vittorio De Scalzi sembrano essere le stesse di qualche decennio fa; sembra che per loro il tempo si sia fermato, e ancora brucino il palco. Vittorio De Scalzi si agita alle tastiere canta e suona il flauto, mentre Nico Di Palo, più contenuto, ci stupisce con la sua voce. Il resto della band non è da meno e sembra di sentire le vocalizzazioni dei vecchi “New Trolls” . Iniziano suonando parte del Concerto Grosso n° 1 e del Concerto Grosso n° 2. Ci deliziano con il nuovo album Concerto Grosso – The Seven Seasons, dove si avvalgono della collaborazione di Shel Shapiro per le liriche in inglese e chiudono con i loro pezzi classici del primo pop italiano. A mezzanotte si sta per concludere il concerto, ma il pubblico chiede a gran voce un bis. Con grande sforzo dell’organizzazione gli viene concesso. Chiudono, a sorpresa, con la partecipazione diMax Tortora che interpreta assieme a Vittorio De Scalzi l’ultimo pezzo della serata. Se avete la possibilità non perdetevi un concerto di questa formazione…anzi non dovete assolutamente perderlo!

Valentino Lulli

foto di Valentino Lulli

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CASA DEL JAZZ LIVE DIARY: Goblin…Rebirth e Murple a Progressivamente

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Quanti avranno rimpianto la lunga chioma di gioventù da poter scuotere assieme alla batteria diAgostino Marangolo ieri sera? Quello a cui abbiamo assistito nell’ambito del festivalProgressivamente, è stato un concerto dal dovuto successo (nonostante, purtroppo, la Casa del Jazznon fosse gremita come in altre occasioni), trascendente ogni discussione riguardo la divisione della band originaria in due analoghe. I Goblin…Rebirth ci hanno regalato il meglio di se stessi, suonando con la passione e l’entusiasmo che sempre li ha contraddistinti. L’attuale formazione, voluta da Fabio Pignatelli e Agostino Marangolo, due dei componenti storici dei Goblin, ha accolto nelle sue filaAidan Zammit e Danilo Cherni alle tastiere e un instancabile quanto virtuoso Giacomo Anselmi alle chitarre. Ad acclamarli anche un buon numero di giovanissimi; tra i quali il gruppo è diventato popolare probabilmente più attraverso Profondo RossoSuspiria ed altri noti film che vantano colonne sonore a cura di Pignatelli e Marangolo. Eppure sotto (e sopra!) il palco ci sembrano tutti giovani e ruggenti al momento, presi dal tuffo negli “anta ribelli” che stanno vivendo. Per un’ora e mezza, senza sosta, l’attenzione è rapita. Sono loro a farla da padrone. Nessuno si muove (sono pochi gli audaci che sfidano i vicini di sedia alzandosi col rischio di distrarre l’intera fila!), non c’è chiacchiericcio. Solo sguardi d’intesa e scrosci di applausi. Alle spalle dei musicisti, in un loop psichedelico, scorrono scene dei film ai quali i Goblin hanno “prestato gli strumenti”, creando un’atmosfera inquietante ed “allucinogena”.

I brani si incalzano, Anselmi si destreggia rapido tra una chitarra elettronica ed una acustica. C’è spazio però per una parentesi in cui è Marangolo a prendere la parola e presentare il progetto proposto per l’occasione. Goblin è forse uno dei momenti più intensi del concerto, nel quale è proprio Marangolo a regalarci un provocante assolo di batteria e in cui comunque tutti gli strumenti risultano più spinti. Alla fine, quando Anselmi prende in mano il suo bouzouki, sappiamo tutti bene cosa ci attende! Sulla scritta “Avete visto PROFONDO ROSSO di Dario Argento” i Goblin Rebirth ci salutano; e noi li omaggiamo con una meritatissima standing ovation. Si riaccendono le luci. Le sedie vuote. Per la nostra band non è finita qui! Difatti il pubblico si è affrettato sotto il palco a complimentarsi di persona, a porgere un saluto o semplicemente nel tentativo di scambiare una chiacchiera con uno dei musicisti. Ed è proprio da questo lato del palco che ci colpisce un Wolkswagen, parcheggiato come se fosse in esposizione per i sopracitati “anta ribelli”, che reca la scritta Murple, il secondo gruppo previsto per questa sera. Speriamo di vederli saltar fuori proprio da lì al momento giusto, ma non è così.

Sono già sul palco a prepararsi, approfittando della distrazione momentanea. Forse l’attenzione per questa formazione è stata mal valutata, perché invece ci hanno dimostrato di avere una gran carica ed ironia. Pier Carlo Zanco, Mario Garbarino e Duilio Sorrenti hanno ricostruito il gruppo nel 2008, “regalando” ai fans un secondo album: Quadri di un’esposizione. Ispirato all’omonima creazione di Musorgskij. Ad accompagnarli durante la serata Maurizio Campagnano alla chitarra e la giovanissima voce di Claudia d’Ottavi. L’emozione dei componenti è palpabile; la d’Ottavi, probabilmente nuovissima recluta, cerca conferma negli occhi degli altri quando si tratta di presentare i brani. Con grande tenerezza viene supportata dal gruppo, che un po’ la burla (bonariamente è ovvio!), un po’ la incoraggia. Il tempo per loro è breve, per questo non si risparmiano mai. Il salto da un progressive più “duro” ad atmosfere più folkeggianti è piacevole e ci rilassa. Baba Yaga, tutta al femminile, ci piace molto; e Claudia d’Ottavi dimostra di saper gestire bene il palco col suo volteggiare e il fare un po’ teatrale a discapito dell’aria lievemente impacciata che sembrava avere all’inizio. La dimostrazione è che i Murple hanno saputo coraggiosamente tener testa al caleidoscopio di emozioni che li avevano preceduti, senza tentennare. Divertendosi e divertendo hanno dato degna chiusura alla serata. Peccato per chi non c’era, perché noi ne siamo usciti entusiasti!

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli, Riccardo Arena

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CASA DEL JAZZ live diary – 6 settembre 2011 – Rita Marcotulli “racconta” i Pink Floyd

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La Casa del Jazz ci regala l’ultima rassegna in questa estate settembrina, abbandonando le sonorità che hanno contraddistinto il “Casa del Jazz Festival”, per 6 giorni di puro progressive. “Progressivamente”, questo il nome della rassegna, apre con un gruppo d’eccellenza guidato da una pianista d’altrettanta fama: Rita Marcotulli. “Us and them – Pink Floyd sounds” è un omaggio che attinge alle diverse realtà musicali dei componenti, dal risultato per nulla scontato! La folla alla biglietteria non tradisce le aspettative. Del resto i Pink Floyd rientrano in quella categoria di gruppi che uniscono generazioni, e forse anche la presenza sul palco del cantante Raiz, storico frontman degli Almamegretta, ha il suo peso. Fatto sta che ci ritroviamo tutti sul solito prato, frequentato un’estate intera (per chi è rimasto un vacanziero di città!), con le facce più abbronzate e rilassate a farci stupire ancora una volta. C’è meno rigore e più voglia di interagire con chi ci sta intorno. Ai tavoli le chiacchiere hanno il sapore dei viaggi che ciascuno racconta, ma tutti buttano un occhio al palco almeno una volta, in segno di attesa. Lo spiedo del kebab c’è ancora, ad impregnare l’aria, a ricordarci che in fondo può essere ancora estate. L’afa ha lasciato il posto ad un’aria più leggera, così si ha più piacere a stare all’aperto (ed anche a pensare di essere già tornati a Roma!). 

Alla breve presentazione della serata e del festival in sé, tutti si ricompongono pronti all’ascolto. Sul palco salgono in sette: oltre alla Marcotulli al piano e Raiz alla voce, abbiamo Andy Sheppard al sax;Pippo Matino al basso elettrico; Fausto Mesolella alla chitarra elettrica; Michele Rabbia alle percussioni e Mark Mondesir alla batteria. Se l’impronta di Raiz si avverte distintamente nelle sonorità arabeggianti, Michele Rabbia le valorizza con la sua bravura nel manipolare i suoni degli oggetti più disparati (in questo caso in particolare, la capacità di ricreare suoni “elettronici” attraverso una lastra di metallo). Fiori all’occhiello i virtuosismi di Sheppard e della Marcotulli. Pur non volendo stravolgere la struttura originaria dei brani, essi si ripresentano nuovi, non sempre immediatamente riconoscibili, ma ugualmente affascinanti ed inebrianti. L’uso del riverbero li rende eterei, avvolgenti; lascia che diventino un ricordo, un sogno. Come se la loro presenza lì, in quel momento, non fosse del tutto scontata. Colpisce, tra i brani, il modo in cui “Shine on you crazy diamond” sia stata spogliata da qualsiasi orpello virtuosistico, lasciandone emergere la bellezza del testo ed accentuando il contrasto tra la voce graffiante di Raiz e quella più “pulita” di David Gilmour. Senza tentare di surclassare o dare un’interpretazione originale di un brano unico nel suo genere.

Il progetto è ambizioso e ben riuscito. Riesce a calamitare l’attenzione e a regalare un po’ di nostalgia a chi i Pink Floyd li ama dagli esordi.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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CASA DEL JAZZ LIVE DIARY: Il tempio delle clessidre e La locanda delle fate

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Se pensiamo gli anni ’70 ci vengono in mente molte cose. Pensiamo ai grandi Festival sparsi in tutto il mondo, alla musica come fenomeno sociale, alle grandi masse che scendono in piazza, ad un’atmosfera che purtroppo, per quanto riguarda noi, abbiamo conosciuto soltanto per sentito dire. Ora, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e anche se probabilmente è impossibile comprendere quello stato d’animo, se non altro mercoledì scorso, 8 settembre, la Casa del Jazz (nell’ambito del FestivalProgressivamente) ci ha dato modo di partecipare ad una serata che da un lato ci ha fatto fare un tuffo nel passato, dall’altro ci ha fatto capire che anche adesso ci sono dei giovani talenti che pur proponendo brani originali non disdegnano attingere dalla tradizione. La location è di certo fra le più suggestive, ma a rendere il tutto ancora più coinvolgente ci hanno pensato le due formazioni che sono salite su questo palcoscenico. Il primo gruppo è “Il tempio delle clessidre” ed è formato da 4 ragazzi genovesi, ovveroElisa Montaldo alle tastiere, Giulio Canepa alle chitarre, Fabio Gremo al basso, Paolo Tixi alla batteria e Stefano Lupo Galimi, storico cantante del Museo Rosembach, uno dei più influenti gruppi progressive della scena italiana. Il secondo è La Locanda delle fate, gruppo nato alla fine degli anni ’70, che purtroppo con la complicità del tempo non ha avuto il successo meritato.

Per chi non l’avesse ancora capito stiamo parlando di rock progressivo, una delle correnti che in quel periodo andava per la maggiore grazie a gruppi come Le Orme, Gli Area, il Banco del Mutuo Soccorso eccetera. Dunque, una serata che ha fatto incontrare vecchio e nuovo, che ci ha dato la possibilità di conoscere un gruppo di ragazzi vogliosi di sperimentare e un’altra formazione che è nata in un’altra epoca. Il concerto comincia con Il tempio delle clessidre, in un’atmosfera quasi surreale che a suon di note ci trasporta in un immaginario parallelo. I musicisti, infatti, prima di presentarsi, salgono sul palcoscenico con delle maschere, come se fossero usciti dal loro vero io per diventare un tutt’uno con la musica. E dopo pochi minuti ci trasportano con la loro personalità coinvolgente nel vivo del concerto. La caratteristica principale del gruppo è quella di alternare ritmi incalzanti, con un groove molto deciso e una batteria molto potente, con momenti più delicati in cui la parte melodica, composta da chitarra e tastiere, fraseggia più armoniosamente. C’è un momento per tutto, anche per riproporre un brano dal disco più famoso del Museo Rosembach, Zarathustra, cantato da Stefano Lupo Galimi, che il pubblico di appassionati presenti al concerto dimostra di apprezzare davvero.

Ma se è vero che tuffarsi nel passato può essere una bella esperienza, il brano che ci ha colpito di più e che forse ci ha fatto capire quale sia la vera filosofia del gruppo è Danza Esoterica di Datura. A presentarlo ci pensa Elisa Montaldo che per un momento si allontana dalle tastiere e spiega i retroscena che si nascondono dietro alla musica che stanno per suonare. La Datura, infatti, è la pianta che le streghe utilizzavano nei loro riti propiziatori per avvicinarsi alla natura e per diventare un tutt’uno con essa. Quindi, i componenti indossano nuovamente le maschere e cominciano a suonare nuovamente tornando ad essere un tutt’uno con la musica. Momenti più armoniosi, dove c’è lo spazio per melodie più calde, e momenti più dinamici in cui la batteria esplode in ritmi incalzanti e decisi. Poi, dopo questo tira e molla, arriva la sintesi, il momento in cui tutto diventa ordine e in cui ci immaginiamo che sia avvenuta una fusione con questa forza potente e trascinatrice. E alla fine di questo brano, quando la calma sembra tornata definitivamente, i musicisti si inginocchiano e rendono omaggio a qualcosa di più grande, forse ad una fonte ispiratrice che giunge da universi ben lontani dalla nostra realtà.

A questo punto il concerto si interrompe, Il Tempio delle clessidre saluta il pubblico e dopo un quarto d’ora di pausa salgono sul palcoscenico della Casa del Jazz La Locanda delle fate. Ora, se pensate che questo gruppo non suonava nella capitale da un bel po’ di anni, allora capirete bene come Leonardo Sasso, unico componente della band nato a Roma, si sia davvero commosso. Ed è un’emotività che si vede, che si sente dall’approccio caloroso verso il pubblico e verso tutti quegli appassionati del genere che in questa splendida serata hanno deciso di venire da ogni parte dell’Italia. Loro, sebbene siano passati molti anni, sono sempre gli stessi, possiedono quella innata capacità di far confluire in maniera naturale la poesia con il rock, la malinconia con l’allegria, la passione con l’energia. Rappresentano bene, secondo noi, l’atmosfera che hanno vissuto in quel periodo ed è un vero peccato che abbiano cominciato a suonare proprio quando quella scena musicale stava scemando. Detto questo, lasciando stare il passato, pensiamo a quello che si può fare con i buoni propositi e con un po’ di voglia di fare. Se pensate che qualche anno in più abbia fatto perdere alla Locanda delle fate l’energia che li contraddistingueva, allora avete sbagliato di grosso perché la voglia di suonare e di stare sul palcoscenico ce l’hanno ancora tutta.

Leonardo Sasso, oltre ad essere un grande paroliere, dialoga con i partecipanti, si sente a casa e condivide quello che canta, come se il pubblico fosse un vecchio amico conosciuto in bar tanto tempo fa. E questo calore, che anche noi abbiamo percepito in maniera molto forte, viene trasmesso da tutti i musicisti che in quel momento si trovano sul palcoscenico. Brani come Forse le Lucciole si amano ancora, Sogno di estunno, Profumo di colla bianca, oltre a raccontare dei momenti di vita, parlano in maniera molto efficace anche attraverso la musica. E a noi ci ha fatto davvero piacere poter assaporare attraverso questa musica, il ricordo di un’epoca che ci ha lasciato un retaggio così importante.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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CASA DEL JAZZ live diary – 6 settembre 2011 – Rita Marcotulli “racconta” i Pink Floyd

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La Casa del Jazz ci regala l’ultima rassegna in questa estate settembrina, abbandonando le sonorità che hanno contraddistinto il “Casa del Jazz Festival”, per 6 giorni di puro progressive. “Progressivamente”, questo il nome della rassegna, apre con un gruppo d’eccellenza guidato da una pianista d’altrettanta fama: Rita Marcotulli. “Us and them – Pink Floyd sounds” è un omaggio che attinge alle diverse realtà musicali dei componenti, dal risultato per nulla scontato! La folla alla biglietteria non tradisce le aspettative. Del resto i Pink Floyd rientrano in quella categoria di gruppi che uniscono generazioni, e forse anche la presenza sul palco del cantante Raiz, storico frontman degli Almamegretta, ha il suo peso. Fatto sta che ci ritroviamo tutti sul solito prato, frequentato un’estate intera (per chi è rimasto un vacanziero di città!), con le facce più abbronzate e rilassate a farci stupire ancora una volta. C’è meno rigore e più voglia di interagire con chi ci sta intorno. Ai tavoli le chiacchiere hanno il sapore dei viaggi che ciascuno racconta, ma tutti buttano un occhio al palco almeno una volta, in segno di attesa. Lo spiedo del kebab c’è ancora, ad impregnare l’aria, a ricordarci che in fondo può essere ancora estate. L’afa ha lasciato il posto ad un’aria più leggera, così si ha più piacere a stare all’aperto (ed anche a pensare di essere già tornati a Roma!).

Alla breve presentazione della serata e del festival in sé, tutti si ricompongono pronti all’ascolto. Sul palco salgono in sette: oltre alla Marcotulli al piano e Raiz alla voce, abbiamo Andy Sheppard al sax;Pippo Matino al basso elettrico; Fausto Mesolella alla chitarra elettrica; Michele Rabbia alle percussioni e Mark Mondesir alla batteria. Se l’impronta di Raiz si avverte distintamente nelle sonorità arabeggianti, Michele Rabbia le valorizza con la sua bravura nel manipolare i suoni degli oggetti più disparati (in questo caso in particolare, la capacità di ricreare suoni “elettronici” attraverso una lastra di metallo). Fiori all’occhiello i virtuosismi di Sheppard e della Marcotulli. Pur non volendo stravolgere la struttura originaria dei brani, essi si ripresentano nuovi, non sempre immediatamente riconoscibili, ma ugualmente affascinanti ed inebrianti. L’uso del riverbero li rende eterei, avvolgenti; lascia che diventino un ricordo, un sogno. Come se la loro presenza lì, in quel momento, non fosse del tutto scontata. Colpisce, tra i brani, il modo in cui “Shine on you crazy diamond” sia stata spogliata da qualsiasi orpello virtuosistico, lasciandone emergere la bellezza del testo ed accentuando il contrasto tra la voce graffiante di Raiz e quella più “pulita” di David Gilmour. Senza tentare di surclassare o dare un’interpretazione originale di un brano unico nel suo genere.

Il progetto è ambizioso e ben riuscito. Riesce a calamitare l’attenzione e a regalare un po’ di nostalgia a chi i Pink Floyd li ama dagli esordi.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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CASA DEL JAZZ LIVE DIARY : Le Orme e il Banco del Mutuo Soccorso chiudono Progressivamente

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Non c’è discussione sul fatto che i primi anni ’70 siano stati i più prolifici per il rock progressivo italiano, anni in cui le più importanti formazioni di questo genere producevano i migliori dischi e i migliori concerti. E le persone che spesso ci hanno raccontato di quel periodo, ce l’hanno definito come magico e irripetibile, come un qualcosa che si respirava nell’aria e che forse non sarebbe tornato più. Certo, se ci pensiamo un po’ su, la prima cosa che potremmo rispondere è che probabilmente hanno anche ragione, ma pensandoci meglio, potremmo anche contestare dicendo che domenica 11 settembre alla Casa del Jazz (nell’ambito del Festival Progressivamente), a vedere Le Orme e il Banco del Mutuo Soccorso, c’erano quasi tre mila persone. E non parliamo soltanto di nostalgici amanti della musica degli anni ’70, ma di un pubblico che forse rappresenta tutte le generazioni e che semplicemente ama la buona musica. Quindi, cerchiamo di proiettarci per un attimo in quella serata e per capire meglio l’atmosfera diciamo subito che ben prima dell’inizio del concerto non era rimasta l’ombra di un posto a sedere. Gente seduta per terra, in piedi, vicina al mixer e ai lati del palcoscenico per un concerto davvero indimenticabile che ci ha fatto sentire come dei privilegiati baciati da una buona stella, magari da “La croce del sud, giusto per fare una citazione ad hoc. Ma lasciamo stare le parole rubate a persone che sicuramente hanno più inventiva di noi e cerchiamo di tuffarci nell’atmosfera di questa splendida serata.

 

I primi a salire su questo palcoscenico e ad incantare un pubblico più che mai ansioso di ascoltare sono Le Orme. Certo, è probabile che tutti gli amanti del progressive siano a conoscenza della separazione avvenuta fra gli ultimi due membri della storica line up, ovvero il batterista Michi Dei Rossi e il vocalistAldo Taglialapietra, ma questo non vuol dire che il gruppo abbia perso la voglia e l’inventiva per stupire e per stupirsi. E quindi, se pensiamo che adesso alla voce c’è Jimmy Spitaleri, fondatore dei Metamorfosi, allora possiamo proprio dire che sebbene le cose cambino, come a volte è anche giusto che sia, la buona musica rimane sempre tale e riesce sempre ad emozionare. E poi la presenza scenica non è da sottovalutare per niente. Spitaleri si presenta con una chioma lunga e folta e con tutta l’energia necessaria per affrontare una serata del genere.

Fin dall’inizio, infatti, da quando Le Orme cominciano a suonare, riescono a creare atmosfere surreali, a trascinarti in quell’arte della sperimentazione che soltanto pochi musicisti riescono a fare così bene. La prima parte è dedicata tutta all’ultimo lavoro d studio, La via della Seta. Testi che parlano di viaggi, sia terreni che mentali, musiche che hanno il potere di farti abbandonare la realtà per permetterti di tuffarti in un universo parallelo fatto di suoni, colori, ma anche di arte e poesia. Due viaggi, uno compiuto attraverso il suono degli strumenti, l’altro attraverso la narrazione e la conoscenza. C’è anche il tempo per fare un tuffo nel passato con il disco Felona e Sorona, suonato al momento della chiusura, e per ascoltare quella musica corale, sinfonica, monumentale che da sempre è stata, secondo noi, la principale caratteristica di questa formazione. E il concerto in questo modo acquista diverse sfaccettature, diversi momenti che lo rendono unico e irripetibile fino all’ultima chiusura della batteria di Michi Dei Rossi, sempre impeccabile, come del resto tutti gli altri membri delle Orme.

Ora, solitamente dopo che termina il primo concerto bisogna aspettare un po’ di tempo perché cominci il secondo. In generale passano una ventina di minuti, ma questa volta, forse perché la voglia di suonare era davvero tanta, non ne sono passati neanche cinque. Il Banco del Mutuo soccorso, infatti, sale sul palcoscenico della Casa del Jazz dopo un brevissimo tempo di intervallo e comincia a suonare con tutta l’energia che tutti gli amanti di questa band si aspettano di percepire. Francesco di Giacomo, voce della band, a 60 anni suonati ha ancora energia da vendere e Vittorio Nocenzi piuttosto che suonare vola sulla tastiera. Ma la cosa bella, che viene spesso sottolineata da più membri della band, è che la musica è condivisione. Senza il pubblico non ci sarebbe la stessa alchimia e quindi niente di tutto quello che abbiamo visto e sentito sarebbe possibile. Sono parole che ci fanno capire la passione che c’è dietro ogni singola nota suonata o pizzicata su ogni strumento. Energia pura, energia positiva, energia che ci fa viaggiare nello spazio e nel tempo e che allo stesso tempo riesce a metterti nelle migliori condizioni possibili.

Francesco di Giacomo ha ancora una voce capace di emettere suoni irripetibili e di alternare ad essi momenti di recitazione pura, come se il concerto fosse un’opera d’arte in continuo movimento. E sebbene ci sia un momento in cui ogni singolo elemento riesca ad emergere, la cosa più bella rimane sempre quella musica d’insieme che durante questa serata indimenticabile è riuscita ad ipnotizzare il pubblico per oltre un’ora e mezzo. Il concerto, quindi, scorre veloce e nella sua complessità risulta, leggero, coinvolgente quasi inafferrabile. Con il Banco tutto diventa semplice, si crea un legame fra pubblico e palco, i ritmi incalzanti e la potenza che viene sprigionata dalla formazione coinvolge tutti, anche quelli che magari si trovavano lì per caso ignari di quello che avrebbero ascoltato. E la cosa che ci ha davvero colpito è l’umiltà, la semplicità, la spensieratezza con cui la serata viene affrontata, come se questi illustri signori con alle spalle 40 anni di rock progressivo si fossero fermati davanti allo scorrere del tempo per regalarci attimi di estasi per i nostri timpani.

E come grande conclusione di questa serata, che sicuramente ricorderemo per un bel po’ di tempo, salgono sul palco insieme al Banco le Orme. E immaginatevi cosa può succedere in un concerto con due formazioni del genere che suonano insieme canzoni capolavoro come Non mi rompete. E’ qualcosa che ci viene veramente difficile da spiegare senza l’ausilio di quei musicisti che per 20 minuti ci hanno fatto viaggiare con ritmi e melodie che non si possono definire coinvolgenti perché altrimenti sarebbe troppo riduttivo. Insomma, quella di domenica è stata la conclusione in grande stile di un festival (Progressivamente) che per una settimana ci ha davvero tenuto compagnia con alcuni dei migliori musicisti della scena di ieri, di oggi e chissà… Forse anche di domani.

Carlo Cammarella

foto di Valentino Lulli

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Live report – Roma Jazz Festival: Roberto Gatto ci racconta il prog inglese

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Questo progetto fa parte di uno dei sogni nel cassetto che coltivo da diversi anni. Personalmente ho sempre amato le sfide e come sempre, mosso dall’entusiasmo, ho accettato di tentare anche questa”. E dal 2008, anno in cui ha visto la luce il progetto Progressivamente in un album registrato dal vivo alla Casa del Jazz, sono state diverse le occasioni in cui Roberto Gatto ha dimostrato di aver vinto totalmente questa sfida. Accompagnato da musicisti del calibro di Fabrizio Bosso alla tromba, Luca Mannutza alle tastiere e piano, John De Leo (ex voce dei Quintorigo), Roberto Rossi al trombone, Francesco Puglisi al basso, Maurizio Giammarco al sax e Roberto Cecchetto alla chitarra, venerdì 11 novembre Gatto ha regalato al pubblico dell’Auditorium il suo omaggio al rock progressive, nelle rivisitazioni di brani tratti dai dischi dei King Crimson, Genesis, Matching Mole, Robert Wyatt e Pink Floyd (oltre ad un brano originale di John De Leo). “Ho voluto coinvolgere musicisti che come me avessero vissuto quel momento musicale in quegli anni, ma anche musicisti più giovani, che magari avessero un punto di vista e una chiave di lettura differenti”. La sala Petrassi è gremita, ed il pubblico decisamente vario!
 
I musicisti salgono sul palco inizialmente senza John De Leo, che solo dopo i primi due brani spunta -letteralmente- da dietro la batteria ad intessere un gioco di suoni con la sua voce; una serie di “vocalizzi” che si incalzano, creando una buffa parentesi che non tradisce le capacità e la bravura di questo artista. De Leo gioca altrettanto col microfono, complementare e necessario nel far cogliere le molteplici sfaccettature sonore che lo stesso riesce a darsi. Differentemente Bosso usa il microfono per distorcere il suono della sua tromba, inscenando un botta e risposta di identici accordi che risultano come due voci diverse. Quello dei tre fiati poi, è uno spettacolo non solo sonoro, ma anche visivo; simili e sincronizzati i loro gesti danno la percezione che la musica -in quel momento- li abbia davvero uniti in un’unica melodia. Roberto Gatto ci spiega la scelta dei brani, ce ne racconta la genesi, cadenzando così l’ora e mezza trascorsa assieme. Si emoziona parlando di un’amica musicista scomparsa poche ore prima del concerto; aprendo uno squarcio (purtroppo) malinconico di vita personale. Anche in questo modo la musica ci parla, riesce a strappare un’emozione diversa ad ognuno di noi, a non rendersi fine all’ascolto e basta. L’inquietante romanticismo di Sea Song (potete immaginare quanto l’abbia reso tale la camaleontica voce di John De Leo), la poesia (arte a cui, del resto, si ispira) di Watcher of the Skies, o la chiusura con la splendida Trilogy (la cui prima parte è stata lasciata esclusivamente a Luca Mannutza e Maurizio Giammarco), sono solo una parte del racconto di una storia -quella del prog inglese- che gli abili narratori ci hanno restituito in musica.
Serena Marincolo
foto di Valentino Lulli
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