
Jazzagenda incontra Ettore Fioravanti, batterista cardine del jazz italiano, che dallo scorso autunno è in tour con il suo quartetto (formato con Marcello Allulli, Francesco Poeti e Francesco Ponticelli) per presentare il nuovo album “Traditori” (Alfa Music).
Il titolo del disco è “Traditori”. Cosa rappresenta il tradimento in questo disco?
“Rappresenta la volontà di rigenerare la musica che amo, mettendone in discussione le regole e mischiandola con altre radici: è insieme un atto di amore e di tradimento, perchè, come si spiega nelle note di copertina, le parole “tradizione” e “tradimento” hanno la stessa origine, quindi la vera tradizione presuppone una messa in discussione delle sue stesse fondamenta affinché il suo dna sia tramandato. Nel mio piccolo provo a farlo cercando altre fonti musicali extra jazzistiche: la canzone, il rock, la classica, la popolare.”
Confermi la formazione in quartetto dopo il primo album. Come descrivi il percorso compiuto insieme ai musicisti che lo compongono?
“Ineludibile: sono gli uomini a fare la musica, quindi la scelta oculata dei musicisti e la loro durata nel tempo significano un aumento esponenziale di sinergia, una condivisione di vedute musicali che supera le differenze naturali di obiettivi, una ricerca di suono che rappresenta la prima firma di un gruppo. Io credo nel gruppo (in questo caso il mio 4etto con Marcello Allulli al sax, Francesco Poeti alla chitarra e Francesco Ponticelli al basso), contro ogni forma di singolarismo che oggi circola stabilmente nel mondo musicale, un po’ come si fa nel mondo del rock dove la band vince sul personaggio, quasi sempre.”
Da quanto tempo lavoravi ai brani dell’album?
“Sinceramente non è questo il mio modo attuale di lavorare: se scrivo pezzi nuovi non lo faccio in funzione di una registrazione, voglio verificare se si adattano all’estetica del gruppo e sono pronto a ritirarli se non calzano bene sui musicisti del quartetto. Tanto più che sono tutti ottimi compositori e questo si ritrova nel disco che presenta brani di ognuno dei quattro. Come sempre si tratta di cercare un equilibrio fra congruità degli elementi compositivi e libertà di intervento personale da parte di tutti i suonatori: si compra un vestito che pensi e speri piaccia, poi lo si indossa fino a quando non si adatta completamente al corpo, a quel punto farai fatica a metterlo da parte anche quando sarà un po’ malandato.”
Sentiamo molto presenti tutte le influenze che hai ricevuto al di fuori dell’ambito jazz…
“Sta lì il “tradimento”, nel non voler più nascondere che le mie radici pescano frequentemente in territori non propriamente jazzistici, anche se il jazzjazz, quello afroamericano degli anni 50/60, nel mio albero genealogico è un ramo forte, destinatario di grande passione. Ma tornando alle radici spurie, se mi guardo allo specchio vedo le canzoni (intese come rapporto testo/musica), la musica classica (anni di Conservatorio significano pure qualcosa), le suggestioni della musica popolare e soprattutto il rock progressive, quello che si è sviluppato nei primi anni ’70 e che io ascoltavo su vinile e live: King Crimson, Jethro Tull, Gentle Giant, PFM. Di quella musica oggi mi rimane il piacere di scrivere e suonare brani con strutture articolate, spesso con più temi o tempi, e una ricerca di equilibrio fra composizione e improvvisazione, tanto da non dare talvolta a quest’ultima un ruolo predominante sulla prima. Altro “tradimento” jazzistico, a ben vedere.......”
Nella tracklist, oltre ai tuoi brani, vi sono anche pezzi firmati dai componenti del quartetto e alcune cover.
“Come dicevo sopra il lavoro di composizione è benvenuto da qualsivoglia parte giunga, è molto più importante l’elaborazione che se ne fa a livello di gruppo: spesso i pezzi vengono stravolti, smembrati, praticamente riscritti, e così prendono di più le fattezze del quartetto inteso come entità a se stante derivante da sovrapposizione, melange, frizione fra 4 personalità distinte e diverse. Anche le cover entrano in questo laborioso frullatore: ne ho presentate tante nel tempo, alcure veramente inverosimili, abbiamo valutato la loro “appartenenza alla razza” cioè all’identità del gruppo e quelle che hanno superato l’esame sono parte stabile dei nostri concerti: in particolare le canzoni di Lou Reed, non proprio un puro jazzman, ma ricche di cellule interessanti per l’elaborazione jazzistica, sia per l’arrangiamento che per l’improvvisazione. Stiamo facendo qualcosa di simile anche con Bob Dylan.”
Oltre ad avere da sempre una intensa attività live, sei molto impegnato nell’ambito della didattica. Cosa apporta questa esperienza nella tua musica?
“Intanto c’è un rapporto continuo con i giovani che per me significa un confronto fra le mie inevitabili sicurezze sclerotizzate (questo si fa, questo no) e la freschezza di chi se ne frega, talvolta per ignoranza ma più spesso per rifiuto dei dogmi. Insegnando quindi dogmi mi trovo a rigettarli prima io dei miei studenti, col rischio di comunicar loro insicurezza ma con la franchezza ingenua dell’artista che sopravanza il parrucconismo del vecchio docente. E così facendo imparo più io da loro che loro da me. Furbacchione, eh? Nella mia musica, suonata peraltro spesso con musicisti giovani, vado a cercare questa messa in discussione dei dogmi, soprattutto in fase improvvisativa: e se non sempre mi riesce ciò è almeno testimone di uno sforzo continuo a non ripetersi.”
Qual è la tua percezione della nuova generazione jazz italiana?
"Oggi girano nel nostro paese fior di musicisti 20/30enni, con una preparazione media più alta di quella della mia generazione a quell’età e la qualità che gli italiani riescono a mettere, nel bene o nel male, dentro ogni forma d’arte: la leggerezza, intesa come fluidità del pensiero creativo che seppur intensissimo sgorga con naturalezza e con altrettanta naturalezza arriva al fruitore. Forse lo sviluppo della didattica jazzistica dentro e fuori dei Conservatori può aver accentuato quell’omogenizzazione da bravo professionista jazz che ogni tanto appare, ma i veri talenti superano l’ostacolo con la leggiadria profonda del vero artista."
Quali artisti ti hanno “iniziato” alla musica e alla batteria, e quali ti hanno accompagnato nella definizione e sviluppo del tuo drumming?
“Se parli di influenze mediatiche ovviamente la lista sarebbe infinita, da Krupa a Guiliana, ma se devo dire chi ho studiato di più direi Roach, De Johnette e Gadd, quindi prospettive molto diverse fra loro. C’è anche l’amore trasversale, quello che non capisci ma c’è radicato, per batteristi come Elvin Jones e Phil Collins, anche qui non proprio fratelli di sangue. E infine ci sono quelli che in carne ed ossa e occhi negli occhi mi hanno detto cose importanti: Bruno Biriaco (mitico batterista del Perigeo), Fabio Marconcini (percussionista classico e amante della batteria, mio primo vero maestro), Antonio Striano (mio docente di percussione a Conservatorio e valentissimo timpanista), Alan Dawson (con lui ho fatto 4 lezioni che mi hanno segnato, i suoi fogliettini scritti a penna li porto sempre con me).”
Quali sono i tuoi prossimi appuntamenti live?
"Si prospetta una primavera intensa: col 4etto saremo a suonare a Perugia al Ricomincio da tre il 18/4, al Conservatorio di S.Cecila il 3/5, alla Casa del Jazz il 5/6. Inoltre faremo un tour in Finlandia dal 20 al 27 aprile in compagnia del buon amico e ottimo pianista Karri Luhtala. A tutto ciò aggiungi concerti in Francia col quintetto di Paolo Fresu (9/4, 7 e 8/5) e un bell’incontro fra me, Eugenio Colombo e la Banda Comunale di Clusone (BG) il 30/5."
Come possiamo rimanere aggiornati sulla tua musica e i tuoi concerti?
"Non sono un grande produttore di me stesso, ma ho la fortuna di essere aiutato in ciò dalla bella e brava Fiorenza Gherardi De Candei che tiene sempre aggiornato il mio profilo Facebook con le cose in atto. E poi chi mi ama mi segua, ci riuscirà senz’altro."
F. G.