Jazz Agenda

Carlo Cammarella

Carlo Cammarella

Beatrice Arrigoni racconta Nel canto presente: “Un disco dedicato alla poesia italiana contemporanea”

 

Pubblicato dall’etichetta Honolulu Records, “Nel Canto Presente” è l’ultimo disco che porta la firma del duo formato da Beatrice Arrigoni e Fabrizio Carriero. Un progetto sperimentale, dedicato alla poesia italiana contemporanea, in cui l’improvvisazione ha un ruolo senza dubbio preponderante. Ne abbiamo parlato con Beatrice Arrigoni.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Nel Canto Presente” è un duo sperimentale formato da me alla voce e agli effetti, e Fabrizio Carriero alla batteria e alle percussioni. È un progetto dedicato alla poesia italiana contemporanea nel quale converge un lavoro di ricerca condotto negli ultimi anni sulla parola poetica, e sulle possibili connessioni col suono e col gesto improvvisato. In ogni pezzo abbiamo musicato delle poesie italiane (in maggior parte contemporanee) utilizzando l’improvvisazione sia come metodo di costruzione del brano che come elemento narrativo: il processo compositivo ha portato come risultato a dei brani strutturati più che a improvvisazioni vere e proprie, laddove  tuttavia all’improvvisazione viene sempre riservato un momento specifico all’interno di ogni brano, e laddove il gesto e il materiale utilizzato (per quanto prestabilito e indicato a parole in una semplice partitura visuale)  portano sempre a risultati estemporanei e unici, legati al qui ed ora; in questo senso “Nel Canto Presente” è anche un progetto di improvvisazione.

La selezione dei testi è stata condotta sia in base alla mia predilezione per liriche dal carattere evocativo, astratto e scarsamente narrativo, sia in base al desiderio personale di non dare spazio ai classici della tradizione ma ad autori contemporanei legati anche al mio vissuto: alcuni poeti provengono dalle mie terre d’origine (Bergamo e Alberobello) e alcuni li conosco di persona; ho pensato di mettere in musica le loro parole anche in virtù del legame diretto che c’è con loro.

La scelta di utilizzare testi della contemporaneità nasce dal desiderio di abbracciare il nostro tempo: abbiamo sentito come importante e urgente parlare dell’oggi all’oggi, così come suonare qualcosa di attuale nel senso di irripetibile, perché legato al presente e all’istante preciso della performance. È stato poi naturale orientarsi verso la poesia, perché rappresenta un ambito letterario molto fertile dal punto di vista musicale in termini di forma, ritmo, metro, significanti e significati, contenuti, “evocazioni”. Tra le altre cose, la poesia non ha sempre referenti precisi dunque lascia spazio al vago e all’astratto, all’interpretazione personale, mentre il suo carattere fortemente espressivo riesce a dare un peso espressivo anche alla musica.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Io e Fabrizio Carriero abbiamo iniziato a suonare insieme nel 2015, quando abbiamo deciso di provare a improvvisare utilizzando come elemento di partenza dei testi poetici in inglese. Ci siamo incontrati nei circuiti del jazz milanese nonché a scuola, presso i “Civici Corsi di Jazz” di Milano, ma l’ispirazione non è arrivata dagli ambienti accademici. Lo spunto è giunto da un lato attraverso un incontro con Norma Winstone avvenuto in un workshop del 2015 – durante il quale la cantante confidò di ispirarsi alla poesia per scrivere i propri testi –, dall’altro lato attraverso il lavoro condotto sotto la guida del compositore e pianista Stefano Battaglia, nei suoi laboratori di ricerca dedicati all’improvvisazione.

All’inizio del nostro connubio io e Fabrizio abbiamo scelto di lavorare sulle liriche di Emily Dickinson, la cui produzione poetica vastissima è caratterizzata da una forte musicalità a livello metrico-formale; per certi versi non è stato facile capire come costruire i brani, ma dal punto di vista del canto è stato per me molto naturale lavorare con l’inglese, perché è la lingua che utilizzo di più da sempre; abbiamo lavorato su aspetti musicali molto elementari sfruttando la natura timbrica, melodica e percussivo-ritmica dei nostri strumenti, e intorno agli elementi parametrici di base della musica – declinabili ovviamente in maniera diversa – abbiamo costruito delle strutture precise per ogni poesia. Ci piaceva l’idea che il suono d’insieme fosse acustico, che nella sua semplicità e funzionalità mantenesse un carattere “primordiale” – in virtù degli strumenti coinvolti, che per certi versi sono quanto di più primordiale esista –, e per questo non ci siamo preoccupati di aggiungere altri particolari strumenti oltre a quelli impiegati. Il progetto su Emily Dickinson ha assunto una forma definitiva prendendo il nome di “My River runs to thee”, ed è stato pubblicato nel 2018.

Nel corso degli anni, tuttavia, ho personalmente maturato la necessità di una maggior connessione col testo dal punto di vista dell’autenticità e della spontaneità, e in questo senso ho compreso che l’italiano poteva rappresentare una scelta importante e preziosa, anche in considerazione della mia passione per la lingua italiana e per la scrittura (non a caso sono laureata in Lettere Moderne). Abbiamo pensato che l’italiano potesse dare stimoli molto diversi e che potesse portare a risultati inediti, e al tempo stesso – proprio per la difficoltà che comporta improvvisare col testo italiano – abbiamo vissuto l’idea dell’italiano come fosse una “sfida”.

Gradualmente abbiamo sentito anche il bisogno di integrare l’organico con nuovi elementi timbrici (non necessariamente acustici) e di lanciarci su un repertorio di testi più “attuale”: la ricerca di nuovi suoni, di nuovi testi e di nuovi equilibri timbrici ha portato alla nascita di “Nel Canto Presente”, dopo un periodo piuttosto ampio di sperimentazione su testi contemporanei anche diversi, che alla fine non sono convogliati nel disco ma attraverso i quali siamo riusciti a trovare un nuova dimensione espressiva in rapporto all’italiano. Sembra superfluo, ma la scelta della lingua nel canto è davvero cruciale per la resa musicale complessiva, soprattutto in un progetto in cui il suono – inteso come elemento puro, nella sua essenza – è il punto focale del lavoro. In ogni caso, abbiamo fatto in modo che la sonorità del progetto avesse un carattere per certi versi anche “rituale” (oltre che “primordiale”), attraverso la scelta di armonie modali, bordoni, melodie stilisticamente affini al canto etno/folk (che io amo particolarmente).

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

“Nel Canto Presente” rappresenta un po’ tutte queste cose, insieme. Innanzitutto penso che un disco sia sempre e comunque la testimonianza di un momento preciso, poiché l’artista è in continua evoluzione: il disco non può che essere manifesto di una particolare fase espressiva e stilistica, ma la sua unicità sta proprio nella capacità di rappresentare un momento particolare della storia dell’artista. In secondo luogo, il nostro attuale progetto è sicuramente il punto di arrivo di una ricerca che si è espansa ed evoluta nel tempo, e che per certi versi ha anche esaurito alcune sue forze propulsive; non smette però di essere un percorso in continua evoluzione, sia perché non è nella nostra natura smettere di fare ricerca, sia perché il progetto stesso ha di per sé un carattere cangiante e irripetibile in quanto connesso al linguaggio improvvisativo. Ci sarà sempre un elemento di novità ogni volta che suoniamo questo repertorio: l’evoluzione sta nel compiere sempre gesti diversi e nuovi, e la possibilità di suonare i brani agendo in maniera differente – senza che la musica crolli o che sia compromessa – ci dà la sensazione di poter crescere ed evolverci senza dover per forza mettere un punto conclusivo all’esperienza. Questo perché la natura del repertorio è quella di brani strutturati ma non veramente scritti, per cui abbiamo sempre una certa libertà dal punto di vista espressivo, gestuale, e di materiale da utilizzare. Ciò non toglie, naturalmente, che il disco apra a riflessioni di varia natura su prospettive progettuali future, ed evoluzioni ulteriori dal punto di vista dello stile, del linguaggio, dell’approccio alla musica e all’improvvisazione.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Quando io e Fabrizio abbiamo cominciato a lavorare insieme non avevamo in mente degli esempi particolari di duo voce e batteria a cui ispirarci; abbiamo sperimentato con tutto quello che potevamo mettere in campo di nostro dal punto di vista dei generi e degli stili, lasciandoci alle spalle con totale spontaneità l’idea di improvvisare come due musicisti di jazz. In questo senso, è stato cruciale il nostro eclettismo musicale e l’apertura a linguaggi diversi, tanto che ci è venuto naturale trovare una nostra dimensione musicale ed espressiva. La prima fase del lavoro è stata di estrema sperimentazione, e spesso le prove consistevano in una parte iniziale di “esercizi” di improvvisazione e di libera improvvisazione senza testo, utili a farci entrare in sintonia, a farci trovare la giusta dimensione di interplay (anche a livello mentale), utili a farci lavorare su singoli parametri musicali e narrativi.

Nel nostro progetto converge comunque tutta la musica che abbiamo ascoltato prima e durante questi anni di lavoro insieme, sia musica a cui ci siamo ispirati insieme per il duo, sia musica a cui ci siamo accostati individualmente in base al nostro gusto personale. Dal punto di vista del duo sono stati di riferimento, tra i vari: Monica Demuru e Cristiano Calcagnile – eccezionali performer che abbiamo ascoltato dal vivo più volte – , Abbey Lincoln e Max Roach – in particolare nei momenti di duo contenuti nel disco We Insist! Freddom Now Suite –, gli artisti ECM Tamia e Pierre Favre, il batterista Günther Sommer e la cantante Irene Schweizer.

Per quanto mi riguarda, mi hanno ispirato ad esempio i lavori sulla voce di alcuni compositori come John Cage, Luciano Berio, George Aperghis, György Ligeti, nonché cantanti come Cristina Zavalloni, Maria Pia De Vito, Norma Winstone, Sara Serpa, Jen Shyu, Björk, e artiste ECM di estrazione etno-folk come Savina Yannatou (interessante soprattutto nei lavori con Barry Guy), Iva Bittova, Areni Agbabian, e Sidsel Endresen; è stata importante per me anche la musica vocale del Rinascimento e del Barocco, nonché le arie antiche. Quanto a Fabrizio, sono sempre state forti le influenze del trio di Keith Jarrett, ma tra i batteristi che più lo hanno influenzato ci sono sicuramente Carlo Virzi, Michele Rabbia, Roberto Dani, Christian Lillinger.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Non abbiamo ancora idee precise circa l’evoluzione del progetto, ma le direzioni potrebbero essere quella dell’aggiunta di nuovi membri all’interno del gruppo come un musicista di elettronica, e quella del lavoro su testi originali scritti da noi. Dal punto di vista musicale, ci piace l’idea di unire in maniera più definita e compiuta l’aspetto acustico e quello elettronico attraverso la presenza di qualcuno che sia esperto di live electronics, mentre sotto il profilo narrativo sarebbe bello costruire una nostra drammaturgia tramite la scrittura di testi che raccontano una storia, o che sono legati tra loro da un tema dominante, da un filo conduttore che scegliamo noi. Si tratterebbe cioè di scrivere dei testi appositamente, e non più di musicare brani preesistenti. Ancora, potrebbe essere interessante sperimentare con testi di prosa, che hanno un’impostazione discorsiva completamente diversa da quelli di poesia. Ma abbiamo bisogno di tempo per maturare una scelta precisa sul futuro. Intanto ci godiamo l’uscita di questo disco, che rappresenta per noi un motivo di grande gioia considerando il periodo drammatico che abbiamo attraversato.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Non abbiamo registrazioni in ballo ma qualche concerto sì, anche col repertorio dedicato ad Emily Dickinson. Il momento è ancora difficile dunque non abbiamo un calendario fitto di date, ma confido che possano saltare fuori altre occasioni e situazioni, magari anche in virtù dell’interesse che questo progetto può suscitare negli ambienti non strettamente musicali ma magari più affini al teatro o alla letteratura. Il nostro progetto propone infatti un viaggio anche letterario, e il suo carattere performativo lo rende per certi versi anche un po’ “teatrale”. Speriamo solo di non dover essere più costretti a stare completamente fermi com’è stato in questi mesi, perché è stato un momento davvero molto complesso sotto diversi punti di vista (per noi, come per molti altri).

 

Please, Hold on! (Vivere ancora): il nuovo singolo di Mario Donatone scritto durante il primo lockdown

Pubblicato dall’etichetta Groove Master Edition, Please, Hold on! (Vivere ancora) è il nuovo singolo di Mario Donatone. Un brano funky blues, dalle influenze latine e mediterranee realizzato in collaborazione con due grandi artisti internazionali come Chicago Beau e Roberto Luti. Testo e musica sono stati elaborati da Mario Donatone e dal bassista Davide Bertolone nel primo lockdown del 2020. Ecco il racconto di questa nuova avventura che rappresenta senza dubbio un nuovo inizio.

Mario, per cominciare l'intervista parliamo subito del singolo Please Hold On: vuoi descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda parlando del sound e delle influenze?

Si tratta di un brano nel quale abbiamo cercato in parte di modulare la classicità della tradizione blues e soul su un linguaggio ritmico moderno, dinamico ma nel senso dell’evoluzione creativa del nostro modo di vedere questa musica, senza rincorrere una contemporaneità pop che non ci interessa. Come sai anche la scelta di valorizzare le armonie vocali, e di essere una band che oltre a suonare “canta” fondendo voci maschili e femminili, ci porta naturalmente verso un crossover in cui blues, gospel, rock e jazz si incontrano naturalmente. Di nuovo in questo brano c’è l’inserimento attraverso il testo di suoni e parole italiane, un nostro modo di dare una dimensione latina e più profondamente nostra alla musica che vogliamo fare.

Raccontaci adesso la storia di questo brano: sappiamo che è nato durante il periodo più difficile della pandemia da una tua idea con Davide Bertolone: vuoi raccontarci come ci avete lavorato?

Please, Hold on (Vivere ancora) l’abbiamo scritto su What’s up durante il primo lockdown del 2020 io e il bassista Davide Bertolone, un musicista con cui ho una sintonia enorme e antica, visto che abbiamo suonato tantissimo insieme negli anni ’90, accompagnando tantissimi artisti neroamericani di blues e soul, e realizzando anche progetti originali. Dopo tanti anni di pausa della nostra collaborazione, dovuta ad una lunga assenza di Davide dall’Italia, abbiamo ricominciato a produrre musica insieme con una nuova consapevolezza dettata dall’esperienza. L’idea si è poi concretizzata grazie alla produzione in studio con l’ottimo Milo Silvestro, che suona anche le congas sul brano.

Un singolo che si avvale anche della presenza di artisti internazionali con Chicago Beau e Roberto Luti: ci vuoi raccontare anche come è nata la collaborazione con loro?

Con Chicago Beau c’è stata subito l’idea di collaborare attraverso il nostro amico Daniele Bombasaro, storico e instancabile organizzatore musicale con cui lavoriamo da tempo. Lui è una figura storica del blues di Chicago e allo stesso tempo è un personaggio assolutamente moderno, apertissimo alle contaminazioni e storicamente anche legato alla migliore avanguardia del jazz. Il suo contributo è di grandissimo valore sia all’armonica che con il suo talkin’ - rap, che ha dato un sapore unico al brano. L’idea di Roberto Luti è venuta in un secondo momento, man mano che sviluppavamo l’idea del racconto un po’ fantascientifico del video. La bellezza unica del suo suono alla slide che si sente sin dall’inizio credo spieghi da solo come non poteva che essere lui il musicista giusto per creare l’atmosfera che avevamo in testa.

Please Hold On - Vivere ancora: un titolo che rappresenta il tuo legame con la musica black made in USA e anche con il tuo essere Italiano?

Si io credo che la nostra generazione, fatta di musicisti che hanno la radice culturale italiana ancora ben definita, e allo stesso tempo hanno “macinato” tanta musica d’oltremanica, possa e debba oggi mediare in modo naturale e convinto questi due mondi, perché ci appartengono entrambi.

Parliamo anche dei riferimenti musicali che troviamo all’interno del singolo!

Non saprei risponderti con esattezza. Posso dirti che quando ho cominciato a concepirlo stavo pensando ad un antico spiritual che si chiama Hold on!, uno dei primi esempi di questa musica che ho ascoltato da ragazzo, addirittura in una versione di Eugenio Finardi nel doppio del famoso concerto per Demetrio Stratos nel 1978. Ho cercato di combinare questa prima ispirazione con un modo un po’ “latin” di usare la lingua italiana, con frasi brevi e ritmate. La mia vocalità è un punto di incontro, spero credibile, tra quelle voci rock innamorate del soul, come quella di Steve Winwood, e una certa mediterraneità melodica, accentuata dalle mie radici partenopee. Per quanto riguarda il nostro modo di scrivere, direi che si caratterizza per una fusione tra il blues e il soul più classico e il dinamismo armonico di musicisti come Donald Fagen.

Prima di salutarci c’è qualcosa di nuovo a cui stai lavorando con questa formazione di cui ci vuoi parlare?

Questo è il migliore gruppo che ho mai avuto. Nella versione live più completa esso comprende una ritmica eccezionale con Angelo Cascarano alla chitarra, Davide Bertolone al basso e Roberto Ferrante alla batteria e all’armonica, che sono anche dei meravigliosi cantanti. Ad essi si uniscono le voci stupende ed empatiche di Giò Bosco ed Isabella Del Principe. E’ chiaro che questo singolo prelude un lavoro più ampio nella direzione di questo sound, ma gli sviluppi saranno decisi e allo stesso tempo non precipitosi. Abbiamo molto materiale nuovo e vogliamo lavorarci con calma. A gennaio se non ci saranno problemi legati al Covid saremo il 21 al Don Giovanni a Roma e il 22 in un bel festival ad Atina.

Inoltre a febbraio ci sarà una mia doppia uscita molto ghiotta, un disco e un libro per raccontare il blues prebellico e il suo apporto alla cultura musicale contemporanea, uno studio molto approfondito e un progetto acustico collegato ad esso in cui sono in compagnia del solo piano acustico e della cantante Giò Bosco su quattro brani. Si tratta del più importante progetto divulgativo che io abbia mai realizzato, e ne saprete qualcosa molto presto.

Sara Fortini racconta il nuovo progetto Songs: “Un disco intimo che racchiude brani diversi tra loro”

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, Songs è il disco d’esordio del duo composto da Sara Fortini alla voce e Federico De Vittor al pianoforte. Un progetto intimo che mette al centro la melodia e rivisita l’armonia di alcuni brani famosi, alternandoli ad altri inediti. Sara Fortini ci ha raccontato come è nata questa avventura...

Per cominciare l’intervista ci volete raccontare come è cominciata questa collaborazione e come è nato questo progetto in duo?

È iniziato tutto suonando insieme in diversi contesti e situazioni, condividendo musica, idee e sensazioni abbiamo trovato una forte intesa, il resto poi è arrivato spontaneamente di conseguenza. Ad entrambi piaceva l’idea di strutturare un repertorio di ballads, di canzoni lente per cui fosse necessario chiedere all’ascoltatore ma anche all’esecutore il tempo di fermarsi ad ascoltare.

Songs è un disco intimo dove la melodia, a nostro avviso, è al centro di tutto: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Songs” è come avete già espresso nella domanda un disco intimo che racchiude brani diversi tra loro fra cui alcuni riarrangiamenti di canzoni molto conosciute all’interno del mondo del cantautorato italiano e non solo. Al suo interno ci sono brani scritti da entrambi come “Correnti più a sud”,“Serenade” e “Colors” ma ci sono anche brani di Lucio Dalla e Umberto Bindi come “Canzone” e “Arrivederci” un brano di Monk “Ugly Beauty” e due brani dei The Beatles “Across the Universe” e “Eleanor Rigby”.

È un disco eterogeneo che cerca di dar voce alle nostre influenze più grandi nel modo più sincero e personale possibile ma soprattutto è un disco sincero, di ogni brano abbiamo registrato solo una o due take e il lavoro di sovra incisione e post produzione è ridotto al minimo.

In questo progetto abbiamo notato un repertorio piuttosto variegato, con brani vostri e altri grandi successi italiani e internazionali. In base a quale criterio li avete scelti?

Quando si lavora ad un progetto discografico che ci mette nella situazione di essere sia interpreti che autori le cose si complicano e la scelta del repertorio può essere difficile. Noi abbiamo deciso di scegliere delle canzoni che segnano o hanno segnato dei momenti particolari nel nostro percorso sia artistico che personale.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Soprattutto nella musica non esistono mai punti di arrivo ma solamente nuovi punti di partenza. Noi volevamo lasciare una fotografia che ritraesse chi siamo oggi e perché e l’abbiamo scattata con questo disco, un domani riascoltandolo saremo sicuramente diversi ma le nostre canzoni saranno ancora le stesse.

Parlando del duo piano e voce: quali sono secondo voi le potenzialità espressive di questa formazione?

Le possibilità espressive del duo pianoforte voce sono infinite, così come ogni strumento se esplorato profondamente offre continue scoperte. In questo disco le dinamiche diventano importantissime così come la capacità di trovare sfumature e colori nuovi per ogni brano, ci viene da dire che la fragilità e la forza di questo disco è proprio questa, saper trovare la giusta intenzione espressiva per ogni canzone nel modo più sincero e immediato possibile.

Chiudiamo con uno sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Stiamo continuando a comporre e a condividere musica. Nel prossimo futuro c’è l’idea di un disco che abbia un carattere più simile ad alcuni pezzi del disco come “Eleanor Rigby”, dove l’interpretazione si mescola anche ad un tipo di arrangiamento più strutturato e perché no, anche alla sperimentazione.  Ci stiamo preparando per i prossimi concerti inserendo anche altri brani trovando spunto anche da alcuni scritti di poeti più contemporanei, vi terremo aggiornati sulle prossime date.

Donatella Luttazzi e il suo omaggio al padre Lelio all’Alexanderplatz Jazz Club

Mercoledì 29 dicembre sul palcoscenico dell’Alexanderplatz Jazz Club Donatella Luttazzi sarà in concerto insieme alla sua band per un omaggio al grande Lelio Luttazzi. Sul palco ci saranno Cinzia Gizzi al piano, Andrea Nunzi alla batteria e Giorgio Rosciglione al contrabbasso. Abbiamo chiesto a Donatella di anticiparci qualcosa su questa serata, non senza ricordare alcuni aspetti più nascosti di suo padre

Ciao Donatella e bentrovata, cominciamo l’intervista parlando proprio del concerto: ci vuoi parlare del repertorio che suonerai all’Alexanderplatz nel tuo prossimo concerto?

Ho pensato che il pubblico appassionato di jazz avrebbe apprezzato i pezzi di mio padre che sono più "jazzistici", quelli che avrebbe potuto scrivere un Cole Porter, un Rogers, un Kern, come Mi piace, o Troppo tardi. Ma uno dei talenti di mio padre era l'ironia. Quindi non ho voluto tralasciare Una zebra a Pois, e El can de Trieste, oppure Legata ad uno scoglio. Farò anche un pezzo che ho scritto per lui: In fondo al cuore mio, che purtroppo lui non ha avuto il tempo di ascoltare.

Quali sono i musicisti che suoneranno con te in questo concerto e perché tale scelta? Alcuni di loro hanno suonato anche con Lelio Luttazzi vero?

Cinzia Gizzi, pianista e arrangiatrice, è il caposaldo del mio gruppo, la persona con cui ho iniziato a sviluppare questo progetto che all'inizio si chiamava Luttazzimania, titolo che riprenderò. Andrea Nunzi, bravissimo batterista, ci accompagnerà in questa avventura e il mito Giorgio Rosciglione, al contrabbasso, che ha suonato per anni con mio papà, adorandolo e che sarà felicissimo di ricordarlo assieme a me.

Quali sono i più bei ricordi legati alla musica di tuo padre? Parliamo soprattutto dei momenti che hai condiviso con lui...

Il ricordo più tenero è la sera del mio diciottesimo compleanno, in cui mi ha suonato la canzone che aveva scritto per me, Papà fammi cantare con te, una canzone bellissima e struggente. Una canzone ispirata a Debussy nella sua introduzione, ma anche nella sua struttura. E' successo davanti a molti amici e io, che non mi aspettavo un regalo del genere, mi sono girata verso il muro per nascondere la mia commozione. Ne è stato fatto un 45 giri che possiedono i collezionisti.

Perché i suoi brani hanno avuto così grande successo secondo te?

In realtà non hanno avuto il successo che avrebbero meritato, il successo che invece ha avuto Paoli, per esempio. Papà a questo punto avrebbe risposto: "Non sono mica Paoli.." ll successo è arrivato più tardi, dopo che Mina e altri hanno interpretato le sue canzoni. Io considero Lelio un cantautore ante litteram. La sua ironia e il suo swing sono stati apprezzati forse grazie al fatto che era comunque un personaggio televisivo. Anche il genio di Paolo Conte, che per certi versi associo a mio padre, anche lui ha avuto successo prima in Francia. Qui in Italia, dove vige il melodico, l'ironia non è un elemento apprezzato dai più.

Secondo te a livello musicale in cosa consisteva la sua genialità?

 Ripeto: una conoscenza istintiva più che accademica della musica, un uso raffinato della melodia e delle armonizzazioni, dell'arrangiamento. Uno swing che non tutti i musicisti di jazz hanno, e un'ironia molto rara. In due parole, una grande intelligenza musicale.

C’è un Lelio Luttazzi più nascosto lontano dai riflettori di cui ci vuoi parlare?

Immaginate un Lelio schivo, riservato, umile, amante della natura, che avrebbe potuto vivere suonando jazz per gli amici, in una casa di campagna con cani e galline. Era anche questo.  Ma in lui c'era anche il bisogno irresistibile di emergere, una specie di riscatto. Tutti noi siamo doppi, tripli. Non è così?

Vittorio Cuculo racconta il nuovo disco Ensemble: “Un’idea di aggregazione fra generazioni diverse”

Pubblicato dall’etichetta Wow Records, Ensemble, è il nuovo disco del sassofonista Vittorio Cuculo Quartet Incontra i Sassofoni della Filarmonica Sabina “Foronovana”. Un progetto al quale hanno preso parte Danilo Blaiotta, al piano, Enrico Mianulli al contrabbasso e Gegè Munari alla batteria. Vittorio Cuculo ci ha raccontato come è nata questa avventura.

Per cominciare l’intervista ci vuoi raccontare come è cominciata questa collaborazione con l’orchestra Filarmonica Sabina Foronovana?

L’idea è nata un po’ per caso e un po’ suggerita dalla riflessione che stavo facendo sul materiale del mio primo lavoro discografico Between. La sorte ha voluto che incontrassi la formazione di sassofoni Filarmonica Sabina Foronovana, con la quale ho avuto modo di registrare dal vivo, da solo senza il mio quartetto, una versione del brano My funny Valentine (versione ora inclusa nel nuovo lavoro discografico) e da questo primo incontro è nata la spinta per una collaborazione più approfondita. Con l’orchestra dei sassofoni della Filarmonica Sabina Foronovana è stato bello rinnovare il piacere dell’incontro.

Parliamo adesso del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

“Ensemble” è un lavoro discografico che vede il Il Vittorio Cuculo 4et composto da Danilo Blaiotta al pianoforte, Enrico Mianulli al contrabbasso e dalla colonna del Jazz Gegè Munari alla batteria, dialogare con la piccola orchestra di sassofoni della Filarmonica Sabina Foronovana. Un piccolo organico, ben amalgamato dal primo tratto di strada fatto insieme, si confronta, si integra e si differenzia, quando occorre, con un organismo strumentale più grande. Il lavoro vede un’orchestrazione per strumenti a fiato con arrangiamenti di alcuni tra i più quotati arrangiatori della scena del Jazz e realizza la voglia di condividere il percorso discografico con altri musicisti che suonano il mio stesso strumento, un insieme appunto di sassofoni, un insieme coeso come la Filarmonica Sabina Foronovana. In “Ensemble” accade, dunque, che un piccolo organico, ben amalgamato dal primo tratto di strada fatto insieme, il Vittorio Cuculo 4et Feat. Gege Munari, si confronti, si integri, con un organismo strumentale più grande.

Da dove nasce l’idea di aggregare delle generazioni diverse in questo viaggio musicale?

Il Vittorio Cuculo 4tet feat. Gegè Munari mette insieme personalità diverse, con approcci strumentali, stili e modi di suonare che nella diversità trovano un punto di equilibrio all’interno del gruppo. Con Enrico Mianulli, al contrabbasso, mio assiduo collaboratore, ci conosciamo e ci frequentiamo musicalmente da un po’ di tempo, e con il suo black sound mainstream apporta precisione, leggerezza al progetto. Danilo Blaiotta, poliedrico pianista, contribuisce, con il suo approccio fresco e moderno, a dare ulteriore spinta al nostro stare insieme, dando un tocco di eleganza e stimolando percorsi ulteriori. E ripensando allo spirito che animava il mio primo CD, Between, ho sentito il bisogno di sviluppare la tematica dell’incontro. Si è fatto, quindi, largo l’idea di un nuovo progetto artistico che mettesse in evidenza l’aspetto comunitario del fare musica, la dimensione del NOI, che in Between era stata indicata come dialogo tra le diverse generazioni, quella di giovani musicisti come me (Danilo Blaiotta e Enrico Mianulli) con quella della storica colonna del Jazz Gegè Munari.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta Ensemble?

Ensemble” è sicuramente caratterizzato da uno spirito empatico, rappresenta un’idea di incontro tra generazioni di età ed esperienze diverse, generi e stili musicali anch’essi diversi. E’ un lavoro che vuole mettere in risalto la dimensione del NOI: la musica unisce, la musica si fa insieme. E mai come oggi questo è così importante. “Ensemble” è caratterizzato da quello spirito che sempre mi muove quando suono: comunicare, arrivare alle persone, lasciare in chi ascolta il senso di un discorso fatto non con le parole ma con la musica e le note. “Ensemble” è anche l’idea che il senso di appartenenza ad un organismo più grande (in questo caso il Jazz), vada recuperato e rinvigorito, dandogli acqua e linfa, così come si usa fare con una pianta, per farla crescere bella e robusta.

In questo disco abbiamo notato un repertorio piuttosto variegato. In base a quale criterio hai scelto i brani che lo compongono?

La scelta dei brani è stata in realtà abbastanza naturale, seppur comunque pensata e studiata in ogni dettaglio. La presenza di musicisti di grande esperienza come "The Legend" Gegè Munari, di importantissimi arrangiatori come Roberto Spadoni, Mario Corvini, Massimo Valentini e Riccardo Nebbiosi, e dei meravigliosi colleghi e amici Danilo Blaiotta e Enrico Mianulli, uniti all'Ensemble di sax e alla voce di Lucia Filaci, è stata un’idea vincente, un mix musicale vincente anche nella scelta del repertorio e dei diversi brani da sottoporre all'attenzione del pubblico. Abbiamo operato confrontandoci continuamente, cercando di rendere al meglio e di valorizzare sempre e comunque la musica che suonavamo. I brani che sono stati scelti per il disco sono stati selezionati da quello che è il mio e il nostro gusto musicale, dalla voglia di creare una sonorità particolare con il Quartetto, la voce e la formazione di sassofoni. In fondo anche “Brava” è un classico (un brano portato al successo da Mina) e che la nostra giovane e talentuosa cantante Lucia Filaci affronta con il giusto piglio.

Chiudiamo con uno sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Intanto ho un sogno che mi piacerebbe realizzare: che questo lavoro discografico possa avere un riscontro positivo anche in termini di accoglienza nei festival, nelle sale da concerto o all’aperto, dove poterlo suonare, magari riuscire ad organizzare un piccolo tour. Sulla bontà del progetto, nelle note di copertina, si sono espresse figure capitali del Jazz, Paolo Fresu, Stefano Di Battista e Eugenio Rubei. Aspirazioni da realizzare in un prossimo futuro ci sono e avrei già in mente un’idea da sviluppare per un nuovo progetto, ci devo lavorare in termini di ideazione, ma il seme è già presente.

Orlok 22 "Nosferatu una Sinfonia dell'Orrore" - le date del Mini Tour

Orlok 22 nasce per eseguire musica ispirata da film muti "estremamente" seminali. Non vere colonne sonore nel senso più comune del termine ma piuttosto un' esecuzione che modula sullo scorrere del film, rielaborando in modo viscerale. In questo modo lo spettatore è portato ad attraversare una visione parallela che ne amplifica le sensazioni,  interiorizzando ulteriormente le angosce delle immagini. Orlok 22 è un side-project degli Ardecore. Ideato, prodotto e suonato dal vivo da Giampaolo Felici e Gianluca Ferrante. Nel mini-tour Orlok 22 ancora una volta proporrà la sonorizzazione dal vivo “Una sinfonia dell’orrore” sul film originale horror espressionista NOSFERATU (Murnau, 1922).

 

Ecco le sei date del tour:

29 OTTOBRE - TORINO - CIRCOLO DELLA MUSICA

30 OTTOBRE - BUSTO ARSIZIO (VA) - CIRCOLO GARGARIN

31 OTTOBRE - BOLOGNA - LOCOMOTIV

1 NOVEMBRE - CAVRIAGO (REGGIO EMILIA) - KESSEL

2 NOVEMBRE - SAVONA - RAINDOGS

3 NOVEMBRE - VERONA - KROEN

 

Contestualmente sarà l’occasione per Orlok 22 di presentare il secondo lavoro, prodotto in collaborazione con Megasound, nato sulla visione del film "Begotten" di Elias Elias Mehrige, silent movie sperimentale, pubblicato nel 1989, che è stato rielaborato per la versione cd audio e approfondito nella composizione, rispetto a quella già pubblicata come colonna sonora nel film.

Il filo conduttore rimane lo stesso, ma qui le soluzioni che conducono l'ascolto verso i mondi interiori che l'opera si prefigge di sondare, portano la visione immaginifica ad un grado superiore, alzando il livello della composizione. I temi, già presenti nella precedente versione, sono in questo album, compiuti e definitivi, raggiungendo un risultato sulle frequenze che  sostituisce l'assenza delle immagini. Quelle immagini che vanno qui ricercate nel buio assoluto, come via preferenziale al raggiungimento della percezione più intensa.

 

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Gabriella di Capua racconta In the Night: “Un’unione tra sonorità nujazz e suoni elettronici”

In the Night è il disco d’esordio della vocalist Gabriella di Capua recentemente uscito per l’etichetta Romolo Dischi. Un progetto in cui il jazz, l’elettronica e tanti altri linguaggi si fondono creando un sound originale e moderno.  Gabriella di Capua ci ha raccontato come è nata questa nuova avventura...

Ciao Gabriella, per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Il disco rappresenta un momento particolare legato ai miei 20 anni, è una raccolta di brani che parlano della storia con un ragazzo con cui potevo sentirmi felice ma anche molto triste. Una storia a volte difficile e poco positiva in cui mi sentivo spesso messa da parte e che mi ha portato a riflettere sulla realtà che stavo vivendo e se potesse essere condivisa anche da qualcun altro. Per questo ho deciso di scrivere di un argomento personale.

Raccontaci adesso la storia di questo progetto: come è nato e come si è evoluto nel tempo?

Questo progetto è nato quando mi sono trovata da sola e ho deciso di concentrarmi sulla musica che di sicuro non mi avrebbe fatto sentire male come lui. Così ho deciso di prendere quei testi e di trasformarli in un progetto che ora è diventato quasi un mood of life. Il disco si intitola In the night perché da musicista con il mio piccolo tour mi esibisco di notte, momento della giornata in cui sento più sensibilità artistica e inguaribile nostalgia. 

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Una fotografia esattamente del momento in cui tutto é cominciato, e anche finito in un certo senso. Ha sancito la fine della mia vecchia vita in cui non mi curavo della mia carriera e vedevo la musica non come essenza della mia vita; ha sancito l’inizio della mia devozione per la musica, con le sue complessità, l’amore per l’arte e la ricerca del suono.

In the Night è un disco con diverse sonorità che spaziano tra jazz/acid jazz al nusoul, popRnB: quali sono e sono stati i tuoi principali riferimenti musicali?

Mio padre con la sua cultura musicale e con il suo essere un pianista mi ha fatto conoscere tanta musica ed é stato il mio primo riferimento. Dopo, con la mia ricerca personale, i miei riferimenti sono diventati tanti e diversi, dal jazz con Keith Jarrett, Norma Winstone, al pop con Lana del Rey, Beyoncé, poi l’hip hop con Kendrick Lamar, ASAP Rocky, Travis Scott, poi Jordan Rakei, Massego, Solomun, Paul Kalkbrenner. Insomma, vari generi che non mi piace usare perché alla fine ascolto e mi riferisco a tutto ciò che mi piace, a prescindere da essi.

Come vedi il tuo progetto nel futuro e quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

È un po’ che lo portiamo avanti, ora stiamo lavorando a dei nuovi brani che credo siano la naturale evoluzione del disco che abbiamo fatto uscire quest’anno, questa volta con più testi in italiano. L’essenza é sempre un’unione tra sonorità nujazz e suoni elettronici. Mi piacerebbe unire i due mondi da sempre quasi agli antipodi, anche se la storia della musica è piena di esempi e strade già percorse in questo senso, ma speriamo di affinare sempre di più la nostra personalità musicale attraverso le sperimentazioni.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: ci vuoi raccontare se hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Abbiamo un po’ di concerti fortunatamente, sono reduce dal mio primo concerto a Roma alla Terrazza del Gianicolo ed è stato molto emozionante. Ora a brevissimo ho un fine settimana tutto partenopeo perché suonerò il 29 luglio alla Ex Base NATO per il festival Indie, Rock e dintorni e il 31 al Cafè Street di Torre del Greco. Registrazioni si, a settembre entreremo nel pieno della produzione e della creazione, una volta finita la stagione estiva e i concerti.

Come Again - l’esordio discografico del duo B.I.T: “La musica portata alla sua essenza”

 

Un disco che attinge gran parte del repertorio dalla tradizione classica rivisitando i brani attraverso l’improvvisazione jazz. In questo modo potremmo riassumere l’essenza di Come Again, disco d’esordio dei B.I.T., ovvero Danielle Di Majo al sax e Manuela Pasqui al pianoforte, uscito per l’etichetta Filibusta Records. Ecco il racconto delle due autrici...

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Certo! Forse non brevemente...Come Again è un disco molto melodico, parola chiave: Lirismo. Cerchiamo la melodia, il canto sopra ogni altra cosa, spesso a discapito dei fuochi artificiali e degli esibizionismi tecnici che in genere sono argomenti di facile presa, soprattutto nell'ambito del jazz e dell'improvvisazione. Abbiamo cercato di ridurre, spogliare la musica e portarla a una essenza quasi embrionale, lavorando sui brani della tradizione e su nostre composizioni in maniera totalmente spontanea e estemporanea. E' un disco “live”, cioè non ci sono sovraincisioni. E' una fotografia realistica del momento presente, senza trucco, senza paura. Da un punto di vista ideologico Come Again è anche il nostro grido di resistenza al silenzio e all'immobilità imposti dalla gravità di questo evento sconvolgente che è stato e in parte ancora è la pandemia.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo duo e come si è evoluto nel tempo?

Abbiamo cominciato a collaborare all'interno di un altro progetto musicale, un quartetto dedicato a Wheeler, nell'anno precedente la pandemia. Lì ci siamo conosciute musicalmente e personalmente. E' stata proprio la pandemia a darci la spinta per fare altro. Un modo per approfondire legame e ricerca in un momento molto, molto faticoso e penoso.

Perché la scelta di mescolare brani tradizionali con la tradizione jazz?

Come ti spiegavamo nella presentazione del disco, abbiamo scelto di lavorare sui brani della tradizione, la nostra tradizione (quella del bel canto per intenderci), soprattutto per una questione di ricerca melodica. Quello tradizionale è un patrimonio potremmo dire genetico, che abbiamo cercato di ricontattare, come un'analisi dell'inconscio, attraverso il nostro approccio alla musica e all'improvvisazione: molti dei brani del disco provengono dalla tradizione “classica”; non è un'operazione nuova quella di attingere al passato, soprattutto per musicisti trasversali, cioè che affondano le loro radici in linguaggi diversi, dal patrimonio classico, al folk o al jazz. Entrambe abbiamo queste caratteristiche, seppur con esperienze e approfondimenti differenti e questo ci ha da subito messe in grande sintonia. Manu lavora da tanto sulla rielaborazione in chiave improvvisativa del patrimonio antico e con Danielle ci siamo riconosciute anche nella direzione, nella ricerca del suono e dell'espressività. E' una sintonia intellettiva e emotiva che ci conduce attraverso il lavoro sui brani originali, sull'interazione e sugli arrangiamenti.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Il musicista di riferimento di Danielle è senza dubbio suo marito, Giancarlo Maurino, con il quale condivide la vita privata ma anche musicale. Giancarlo è un musicista di grande peso nella scena italiana (ha collaborato con musicisti del calibro di Mingus, Don Cherry, Elsa Soraes, Rava, Fresu, e molti molti altri); I riferimenti di Manuela sono svariati, e nei confronti di tutti la stessa intensa gratitudine: primi amori pianistici sono stati per Pieranunzi, Marcotulli, Venier, Tylor e poi Chopin, Skryabin, Grieg, Bach.

Dal momento che parliamo di un disco nato nel pieno della pandemia cosa rappresenta per voi Come Again?

Come Again è nato proprio a cavallo dei primi lock down e considera che siamo entrate in studio a dicembre del '20! Ci sono voluti circa nove mesi, quelli più difficili di questa pandemia, e quindi si, ha rappresentato moltissime cose per entrambe. Il  senso di  impotenza e l'isolamento che tutti abbiamo sperimentato, sono diventati la spinta per inventare e costruire delle possibilità alternative di espressione. Come Again è questa possibilità, rappresenta la voglia di ricominciare a essere insieme, di resistere, di comunicare e di farlo attraverso la musica. E' una speranza, un augurio, una direzione.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Come Again in effetti è stato il punto di partenza per capire che direzione prendere e ci siamo rese conto che abbiamo una nostra originalita, un nostro suono. E a dire il vero stiamo già lavorando a un nuovo repertorio di brani originali. Passata la fase della conoscenza reciproca, ci sentiamo pronte per sostenerci creativamente anche in questa direzione espressiva così delicata, sempre mantenendo il filo del lirismo, dell'espressivita e della sincerità.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Filibusta Records sta organizzando una presentazione all'Auditorium, più o meno a ottobre, insieme a Antonella Vitale Quintet che presenterà il suo cd “Segni invisibili” nel quale Danielle ha collaborato come solista. Progettiamo di suonare il prossimo anno oltre oceano e, come ti accennavamo prima, stiamo già lavorando ad un nuovo disco di brani originali. Speriamo di riuscire a realizzare tutto!!!

 

 

Francesco Del Prete racconta a Jazz Agenda il nuovo disco Cor Cordis

Pubblicato dall’etichetta Dodicilune, Cor Cordis è il nuovo disco del violinista salentino Francesco Del Prete. Un progetto raffinato, trasversale dove non manca una buona dose di elettronica e dove il violino va ben oltre l’utilizzo tradizionale a cui siamo stati abituati a vedere. Ne abbiamo parlato in prima persona con Francesco Del Prete che ci ha raccontato questa nuova avventura

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descrivere brevemente Cor Cordis ai lettori di Jazz Agenda?

“Cor Cordis” è un disco strumentale realizzato con sovraincisioni di violini acustici ed elettrici a 4 e 5 corde utilizzati in maniera classica e moderna; l’aggiunta di una buona dose di elettronica lì dove ne sentivo l’esigenza è stato il passo successivo, come anche quello di arricchire alcuni brani con l’intervento di stimati e preziosi colleghi salentini che di buon grado hanno accettato l’invito: dalla voce al sax, dal violoncello al synth, dalla batteria al trombone i miei violini si sono ritrovati a fare ora da protagonisti, ora da contrappunto, ora da gregari in questo percorso intriso di arrangiamenti ed improvvisazioni che si rincorrono l’un l’altro, fino a diventare due entità interdipendenti dove l’una richiama l’altra e l’altra ci ricama attorno.

Raccontaci adesso la storia del disco: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il mio progetto per “violino solo” nasce diversi anni fa con “Corpi d’arco”, un disco di inediti che inizialmente prendeva le mosse dall’esigenza e dalla voglia di superare quello stereotipo, radicato nel sentire comune, che identifica il violino come uno strumento ad utilizzo prettamente melodico: è stato inevitabile quindi ritrovarsi a fare da bassista, chitarrista, percussionista, nella costruzione di brani originali. Col passare del tempo quello che sembrava un esercizio di stile, seppur intrigante, ha lasciato il posto ad un’elettrizzante procedura compositiva molto personale, della quale onestamente non ho più potuto fare a meno: lavorare su tutti i livelli della composizione, partendo dal semplice spunto fino ad arrivare alla stesura completa di tutte le parti necessarie a dare una forma compiuta al brano, permette di esprimere la mia creatività a tutto tondo e di curare in maniera certosina ed originale le singole tracce: ecco dunque a voi “COR CORDIS”.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Questo nuovo album rappresenta per me una lunga riflessione sulla possibilità e soprattutto la capacità che ha ognuno di noi di andare al di là di ciò che l’occhio vede in "prima battuta" per raggiungere appunto il COR CORDIS, il "cuore del cuore" del microcosmo che ci circonda. Tra le tracce che compongono il disco, due di queste bramano e cercano la bellezza (“Lo gnomo” e “L’attrice”), un’altra scava nell’animo umano rivelandone l’abisso (“Il teschio e le farfalla”), altre ancora riflettono sull’identità di ognuno di noi (“Gemini” e “SpecchiArsi”) mentre cerco di svelarne falsità e menzogne (“L’inganno di Nemesi”); nel frattempo le ore camminano inesorabili ed incuranti di tutti noi (“Tempo”).

Cor Cordis è un disco dove non mancano contaminazioni tra diversi linguaggi e anche una buona dose di sperimentazione: raccontaci anche da questo punto di vista il tuo personale percorso artistico…

Ho cominciato in tenera età a studiare violino classico laureandomi in conservatorio a Lecce; ma sin dai primissimi anni forte è stato il desiderio di chiudere lo spartito musicale e cercare tra corde, tastiera e crini dell’arco le note che mi frullavano in testa. Abbastanza scontato quindi è risultato: da una parte laurearmi anche in musica jazz (di cui sono innamorato) e dall’altra confrontarmi con una miriade di gruppi di musica etnica, pop, rock, che avevano nel proprio dna l’elemento “improvvisazione”. Il passaggio al violino elettrico – principalmente a 5 corde che mi permette di “scavare” tra le frequenze più gravi – ed alla strumentazione elettronica – pedaliere multi-effetto, loop-machine, midi – è stata un’esigenza fisiologica dettata sia dalla necessità di farsi sentire a volumi elevati – inevitabile se ti esibisci con strumentisti amplificati – sia dal bisogno impellente di personalizzare il proprio sound, cercando così la mia voce originale. Da qualche anno collaboro con la cantante e producer Lara Ingrosso – curatrice della parte elettronica del mio disco – con cui condivido il progetto electro-pop/alternative hip-hop RESPIRO, ormai radicato sul territorio nazionale.

E quali sono i musicisti e gli artisti che nel corso della tua carriera ti hanno maggiormente ispirato?

Premetto che sarà sicuramente un elenco per difetto ma allo stesso tempo molto variegato, chiara espressione dei miei ascolti onnivori e del mio interesse verso la musica a 360°: dal classico sicuramente i violinisti David Oistrack, Gidon Kremer e Hillary Hahn come esecutori e Debussy e Sibelius come compositori; dal jazz il Pat Metheny Group, il contrabbassista Avishay Cohen, i pianisti IIro Rantala ed Enrico Pieranunzi, i trombettisti Lee Morgan e Freddy Hubbard; da altri generi, Astor Piazzolla, i Taraf de Haidouks, Sting & The Police, Eminem, Lucio Dalla, Caparezza, Niccolò Fabi; tra i violinisti: Jean-Luc Ponty, Didier Lockwood, Zbigniew Seifert, Christian Howes, Billy Contreras, Zach Brock, Mateusz Smoczyński, il Turtle Island String Quartet, Roby Lakatos e veramente tanti tanti tanti altri.

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

Da qualche tempo penso a questi miei lavori già pubblicati come i primi due capitoli di una trilogia dedicata, tra le altre cose, a rimarcare magnificenza e ricchezza del violino e ad esaltarne la sua versatilità; chissà, magari il prossimo disco – che non credo tarderà molto – chiuderà il cerchio e proverà a sanare la distanza tra forma (CORPI d'arco) e sostanza (COR cordis).

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: nonostante il disco sia appena uscito stai già pensando a qualcosa di nuovo?

Come anticipato nella precedente risposta sono già al lavoro sui nuovi brani; per fortuna gli spunti sono innumerevoli: qualsiasi cosa può stuzzicare la mia fantasia, dal particolare colpo d'arco che può generare riff interessanti e stimolanti pattern ritmici alla riflessione su tematiche che mi interessano ed impressionano, producendo in questa maniera titoli mirati. Ma tutto ciò non fa altro che testimoniare il mio sfrenato ed impellente bisogno di esprimermi attraverso la mia musica.

Esce Ars Insidiae: il nuovo disco firmato The Bumps

Presente su tutte le piattaforme digitali da mercoledì 19 maggio 2021, Ars Insidiae è il nuovo album firmato The Bumps, eclettica formazione composta da tre fulgidi musicisti pugliesi come Vince Abbracciante alle tastiere, Davide Penta al basso e Antonio Di Lorenzo alla batteria. Pubblicato dall’etichetta discografica Bumps Records, la tracklist consta di nove brani originali scaturiti dalla fervida creatività compositiva di Abbracciante, Penta e Di Lorenzo, anche arrangiatori dell’intero album. Già il titolo di questo nuovo progetto discografico rappresenta il manifesto relativo al percorso che è sfociato nell’ideazione, nella scrittura e nella realizzazione delle nove composizioni. Ars Insidiae è musica evocativa, ricca di pathos, ma soprattutto mai oleografica. Questo, in particolar modo, grazie al solido legame fra i tre musicisti e alle profonde riflessioni sulla Puglia, in tutte le sue sfumature, comprendenti colori, suoni, luoghi, assonanze e dissonanze proprie di una terra ricca di suggestioni e ispirazioni. La matrice cinematica del jazz contaminato di The Bumps è figlia di un maliardo mélange improntato su luoghi, varie situazioni, echi di bande di paese, personaggi realmente incontrati o soltanto immaginati e rivelazioni “On the Road”, per tramutarle nel cosiddetto tableaux musico-visivo da ascoltare ad occhi chiusi. La gestazione in studio di registrazione di Ars Insidiae è durata quasi un anno, come una sorta di Work in Progress, mentre l’idea precisa del sound del trio è, da sempre, frutto di una sapida commistione fra sonorità retrò e moderne, attraverso l’utilizzo di strumentazione acustica/vintage e supporti digitali ed elettronici. Le riprese sono state effettuate nei Bumps Studios di Fasano, con particolari microfoni per basso e batteria, a cui sono seguite lunghe e accurate fasi di rielaborazione e sovrascritture con l’aggiunta di tastiere originali come l’organo Hammond, il Fender Rhodes, Wurlitzer, Elka, Farfisa e Vox. Il missaggio e la brillante postproduzione hanno ulteriormente impreziosito il sound del disco, attraverso un mood onirico che rappresenta l’autentica peculiarità sonora del gruppo.

Biografia

Nel giugno del 2000, Vince Abbracciante, Davide Penta e Antonio Di Lorenzo si sono incontrati sul palco per la prima volta, iniziando così la loro lunga collaborazione. Hanno pubblicato i primi tre dischi con lo pseudonimo I Tàngheri, esibendosi in prestigiosi festival e importanti teatri italiani. The Dharma Bums, terzo della serie e pubblicato dalla Universal Music, ha visto la collaborazione del chitarrista statunitense Marc Ribot. Questo disco, che rappresenta la prima perla per i tre sfavillanti musicisti pugliesi, simboleggia il passaggio dal tango acustico a una musica di confine fra lounge, cinedelia, punk jazz e sperimentazioni sonore con strumentazioni tipicamente vintage. Trasformato il nome in The Bumps, nel 2011 hanno lanciato il nuovo album intitolato Playin’ Italian Cinedelics, un viaggio  incentrato sulle colonne sonore dei film italiani degli anni Sessanta e Settanta, che destruttura, trasforma e dona nuova linfa a straordinari capolavori ideati per il grande schermo da maestri del calibro di Armando Trovajoli, Fred Bongusto, Dario Baldan Bembo, Piero Piccioni, Piero Umiliani e Giorgio Gaslini. La pubblicazione di questo disco, inoltre, ha segnato l’inizio del percorso di collaborazione con l’etichetta discografica Bumps Records. Nel 2015, invece, ecco la nuova uscita con Al di Sopra di Ogni Sospetto, dedicata alla musica dell’immenso Ennio Morricone, attraverso (re)interpretazioni originali ed estremamente interessanti. In ventuno anni di attività concertistica il trio ha calcato i palchi di alcuni tra i più famosi festival nazionali e internazionali, ospitando, fra gli altri, artisti di statura mondiale come Marc Ribot, John Medeski, Juini Booth, Flavio Boltro, Carlo Actis Dato, Roberto Ottaviano, Vincenzo Deluci, Gianluca Petrella, Giò Sada.

Sito ufficiale: https://www.thebumps.net/

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YouTube:https://www.youtube.com/user/thebumpsnet

SoundCloud:https://soundcloud.com/the-bumps-1

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