Un tavolo per tre. The in ghiaccio. L’atmosfera è quella della festa. Quella di ieri. E l’eco ne partecipa ancora i luoghi. La calura è invadente. Caffetteria del Ferrarese, oggi. Si gusta l’attesa. È lo scambio, piacevole, di impressioni su quello che è stato. È lo scambio, piacevole, di sensazioni su quello che sarà. Secondo giorno. Si riconoscono i volti. Il clima è familiare. Di là dagli spazi, si alzano, curiosi, i suoni della prova finale. Ed è un non-luogo, quello delle voci, dei pizzichi, dei fiati, dei rullati, delle risa, delle indicazioni di scena, quello che non si vede perché non accade, non per tutti, non ora. Il programma è densissimo. Manca poco.
Via di corsa. Sala Murat. Bitches Brew è pronto, come il suo autore. Enrico Merlin, milanese, racconta il suo Miles. Bitches Brew. Genesi del capolavoro di Miles Davis (Il Saggiatore, 2009). Un lavoro complesso, schietto, efficace e originale. Un lavoro che riattualizza la necessità atavica dell’uomo, e del musicista più dell’uomo, di comprendere, di ridurre e contenere quelle strategie, ove ve ne fossero, legate al magico «caleidoscopio» dell’improvvisazione. The Man sapeva. The Man faceva. I suoi colori. Le sue espressioni. È un Davis inedito, quello più discusso e controverso, quello del periodo elettrico. Merlin e Ottaviano si incontrano nel ricordo della storia del jazz e, meglio, di un uomo che ha fatto la storia del jazz. Un uomo raccontato dalle tracce che ha lasciato, quelle rimaste per anni negli archivi polverosi della Columbia Records e riscoperte, ora, dal genio indagatorio di Merlin, dalla sua sensibilità di musicologo, di musicista. Enrico ha ripercorso chilometri di nastri, passato al vaglio frequenze, scovato una fortunosa e fittissima rete di anonimi «scambisti» di rare registrazioni di ancor più rari concerti di Davis. E ha tessuto la rete, ricostruito il genio, intuito il black code e ipotizzato e verificato un linguaggio non verbale dell’improvvisazione, un linguaggio in grado di svelare il mistero di lunghissime sessions, in cui tutto si svolgeva entropicamente, empaticamente. Tutto raccontato con straordinaria e devota dedizione. È un viaggio intimo, fatto di voci e immagini sonore. Oltre lo spazio, oltre i colori dell’Enucleare della Murat, Miles Davis e i suoi, da Hancock a Carter, a Williams, arrivano e vivono, intensi. É una migrazione, affascinante. È un’intuizione, straordinaria. E straordinario è il racconto diBitches Brew, «non la fotografia di un evento sonoro, ma la costruzione tutto a taglio di un film» (E. Merlin). È questa la provocazione di Miles. È questa l’intuizione di Merlin. Suona. Di là dai codici, i piani si manifestano, invertiti. Ed è l’improvvisazione a guidare. Non è preventivato l’errore semplicemente perché non esiste. La composizione segue, in sala editing e montaggio, tutto il resto. Come in un film. Avvincente. «La musica viene prima», ammoniva Frank Zappa. Come dargli torto.
Via per l’Auditorium. Vallisa. Rino Arbore Quartet e le sue Suggestions From Space. Il leitmotiv è ancora lui, Miles. Ma non è un Miles che racconta. Questa volta. È un Miles che ascolta, dedicato, e che ispira. I brani, tutti a firma Arbore, vengono da lontano. Ed è quello stesso “lontano” il luogo in cui la chitarra lirica di Arbore e la tromba boreale di Nikolaisen convergono, e raccontano di un’esperienza intima, che vive ancora. Orgoglio del vivaio pugliese, il quartetto conta Vendola, al contrabbasso. E non inganna la sua giovane età. Conquista, immediato. I drums di Liberti scivolano, netti, ordinanti. È il lato di Miles più intimo, quello che ispira e raccoglie, quello che pervade mistico il racconto del flicorno di Nikolaisen. C’è spazio per la sperimentazione. Ed è Vendola ad osare. Seguono i flussi ventrali della chitarra di Arbore, e il contrasto accattivante coi picchi ispidi della tromba nordica di Roy. È un eloquio acrobatico, è un lirismo avvolgente. Cattura. Gonfiano le dinamiche. La comunione è eclettica. L’interplay definito, geometricamente. Si liberano le linee, gradualmente. È uno spazio, ora, quasi esotico, che si lascia assecondare con audacia e sfrontatezza e che esplode nel grido della tromba, dritto al cielo. Arbore c’è, profondo, personale. E gli armonici ne arricchiscono le tessiture. L’intenzione. «Soffermarsi sull’attimo che viene prima della creatività. Uno spazio dilatato. Una creatività che forse viene dall’alto. Dallo spazio. O che magari, invece, è dentro di noi» (R. Arbore). Suggestions From Space. Risponde. Deciso. Si torna al Piccinni. Ventagli e flash. C’è sound. La Mauro Gargano Reunionfeat. Bojan Z è schierata. Suggestivo il progetto. Ritorna Miles. Ritorna il tema del film. Ritorna l’intuizione registica. È un incontro di anime. Sono due lottatori. Il ring come il palco. Battling Siki. Miles Davis. E la boxe incontra il jazz. Il match è esplosivo. Un viaggio. Dal Senegal agli Stati Uniti, passando per Parigi. Ed è un romanzo. Tragicamente appassionato. Drammatico. Ma pulsa di vita. Un racconto fatto di frammenti, voci, suoni. Il pianismo di Bojan Z è straordinario, trascinante. E quando il testimone passa a Codja e alla sua chitarra è un’esplosione. Irradia. «Travaille avec la tête!», insinua la voce. E vola l’interplay Gargano – Bojan – Vignolò. Robusto, avvolgente, deciso e marcatamente rivelato. Gargano convince e rapisce. Magnetico, nella geometria delle linee e nella profondità dei colori. È un’intesa straordinaria, polarizzata dalla tromba di Gensane e dal sax di Itzquierdo. Smuove.
In piazza Ferrarese, intanto, c’è la bossa di Dario Skèpisi. L’atmosfera è vivace, frizzante. Ha i sapori dell’estate. E incoraggia l’incontro, la danza. C’è spazio per la tradizione e la «contaminazione», sottolinea Skèpisi. Basta un attimo. È Brasilia. È Bari. Il passaggio è naturale, disinvolto. Quasi i due mondi si appartenessero. Ed è una musica che parte dal cuore. Le lingue si sfiorano. Ed è un mélange accattivante. Rilassa e distende. Potere della musica. Suggestivo l’omaggio a San Nicola. La baresità viene fuori. Definitiva. Ed è una festa, da vivere. La samba si presta. E lo spettacolo si anima con le percussioni di Giacovelli. Carica e colora. Un attimo e si cambia scena. Dal brasil etno-jazz si vola al british blues. Ed è la forza dirompente dei Blues Breakers Renewed, progetto a firma Mike Zonno e Mimmo Bucci, a celebrare un album debordante, pietra miliare della storia del blues. Blues Breakers. L’anno era il 1966. L’hammond di Triggiani stilizza ora nuovi spazi. Non c’è spazio per commemorazioni malinconiche. Suona. E la voce di Paola Arcieri trascina, euforica. È da poco passata la mezzanotte.
Eliana Augusti