Jazz Agenda

Bari in Jazz: James Taylor Quartet in concerto

Il Festival Metropolitano Bari in Jazz sbarca al Puglia Outlet Village di Molfettaper una domenica di musica con uno spumeggiante quartetto britannico, il James Taylor Quartet che presenta l’album“ The Rocherstar mass”. La formazione guidata dal celebre organista James Taylor, uno tra i più autorevoli esponenti dell’organo hammond in circolazione, si esibirà domenica 12 giugno alle 21: Taylor, voce, ChrisRonan McCulloch, chitarra, Patrick Illinghworth, batteria, Andrew Mckinney, basso.

Il James Taylor Quartet è improntato su una commistione stilistica che comprende soul, funk, jazz, R&B e acid jazz. Per definire il sound della band, il pianeta musica si è visto obbligato a coniare un nuovo termine: Acid Jazz! Da allora JTQ ne è diventato il gruppo-simbolo. Con una prolifica carriera dal vivo e in studio, il progetto è tutt'ora una delle massime espressioni della creatività britannica, oltre ad essere tra le live band più note al mondo.

Tra i vari successi discografici che hanno contrassegnato il percorso artistico del quartetto “The Money Spyder”, colonna sonora di un film di spionaggio immaginario, “ In The Hand of the Inevitable”, album tra i più venduti e apprezzati della band, “Whola Lotta Live”, disco realizzato dal vivo che ha ottenuto un enorme indice di gradimento da parte di pubblico e critica e “The Template”, una sorta di regalo per festeggiare 25 anni di carriera. A Molfetta presentano un nuovo capitolo discografico intitolato “The Rochestar Mass”, primo CD in assoluto mai pubblicato che coniuga funk e musica sacra.

Per il Puglia Outlet Village poter abbracciare una manifestazione così importante e conosciuta come il Festival Metropolitano Bari in Jazz vuol dire offrire al territorio uno sguardo sugli eventi di classe e di gran moda. In questa maniera il Puglia Outlet Village evidenzia sempre più la propria integrazione col territorio, nel quale si propone come unica e originale “Land of Fashion” della regione” -  commenta Annalisa Evangelista, center manager di Puglia Outlet Village. Il concerto non é il solo a sancire un proficuo impegno pubblico/ privati per la musica: con il Puglia outlet Village infatti la collaborazione è iniziata con il sostegno a Bari in Jazz Kids  e prosegue a luglio  con un evento collaterale,  la rassegna Summer Sound con i concerti degli Avion Travel, Enzo Avitabile e i Bottari e con AnaTijoux.

BARI IN JAZZ

Il Festival Metropolitano sbarca al Puglia Outlet Village di Molfetta con il  James Taylor  Quartet 

Domenica 12 Giugno ore 21, MOLFETTA James Taylor Quartet

www.barinjazz.it - #BariInJazz

Il celebre organista presenta il suo ultimo album dal titolo: The Rocherstar Mass

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

203.

 

Leggi tutto...

BARI IN JAZZ live diary – 28 giugno 2011

Una mezz’ora appena, e anche per quest’anno Bari suonerà jazz. Giugno. Caldo, ma non troppo. Piazza Ferrarese è tutta uno struscio, come si dice dalle nostre parti. Trepida. C’è la fila dei bimbi al camioncino dei gelati. Prove di luci. I ragazzi al muretto si raccontano i primi sorrisi della vacanza. Soundcheck. Granita al limone. «Ma c’è un concerto?» Chiede una donna anziana al suo uomo d’una vita. Lui la guarda, con la stessa espressione di disapprovazione che magari le riserva quando il piatto è sciapo. «C’è il jazz!». Lui che ha letto i giornali, lo sa. Stasera, a Bari, c’è il jazz. Lo sanno tutti. L’entusiasmo di Ottaviano ha vinto ancora. E lo spettacolo è pronto. Anche quest’anno, nonostante i tagli alla cultura. «La vera forza di questi festival è la partecipazione del pubblico, il confronto tra vecchie e nuove generazioni, la progettualità degli artisti del nostro territorio in dialogo con quelli di altri contesti internazionali» (R. Ottaviano). E il BIJ prende le mosse proprio da qui, dal nostro territorio, dalla Puglia. Auditorium diocesano della Vallisa, la chiesa della purificazione, meglio nota come la “Raveddise”. «Il momento è taumaturgico».

Ottaviano consegna all’ascolto del pubblico il Gianni Lenoci Hocus Pocus Quartet. Un ingresso a schiaffo. Improvvisazione. Composizione. Chironomia. Una cartografia di emozioni (scrive Lenoci, citando Deleuze). È un polimorfismo dinamico. È un laboratorio timbrico permanente. «Dobbiamo accettare l’idea che non possiamo possedere la musica, possiamo solo esserne vittime felici» (G. Lenoci). I suoni piramidizzano. I drums di Mongelli sono liberatori. È una trance. Lenoci riempie, fitto. È una febbre. Il sax di Gallo diventa uno strumento nuovo, dove il soffio diventa voce, e la voce grido, e il grido di nuovo suono. Tutto è calibrato. L’effetto è destabilizzante, ma così ricco da sostenere. Feroce. Attacca e spaventa. Non accenna la sosta. È un moto perpetuo. Decomprime e, sfiancato, desiste. Stride. È Mongelli, che vibra il ride con l’archetto, mentre Lenoci pizzica le corde del suo piano. Ritorna il tema. Litanico. Indossa una maschera taurina. È drammaticamente buffo, e fa spavento. Un attimo e si cambia scena. È un melodismo caldo che evapora lento. Belli i contrasti tra gli spazi ampi del sax di Gallo e quelli angusti del pianismo di Lenoci. Si incontrano, in un unisono che armonizza e rompe, d’improvviso, le resistenze. Tutto è così spontaneo e così maniacalmente previsto. Cromatizza un’ascesa. Carica. Contrabbasso e batteria sostengono. È una processione. Sale ancora, mentre cascano, in uno stato quasi di trance, le sequenze di Lenoci. E l’arrivo non deflagra. Resta lì, nell’ovvietà di qualcosa che non può sorprendere, tant’è naturale. Ritorna l’elemento ostinato, quasi marziale. Registri gravi. Il basso di Gadaleta è lamentoso, è un latrato che stringe e riconsegna ad atmosfere tetre tutto il resto. Si gioca ancora col polimorfismo, ed è quasi un rāga. Straordinario effetto visivo, oltre che acustico. Calma e si ritorna alle sonorità dell’inizio, resta il ricordo dell’Oriente. Ipnotico. Il coinvolgimento è totale. È un viaggio della mente. Smorza. Cupo, di tuono lontano. Splendido il terzo intervento, che apre con l’assolo di Gadaleta. Lenoci è ricchissimo, debordante. È un virtuosismo che scorre, ramifica e si scompone, raggiungendo altitudini e direzioni imprevedibili e dannatamente perfette. Bel swing. Il sincopato diverte e crea il giusto spazio al protagonismo di Gallo. Avvincente il disegno. Si sperimenta ancora. Si gioca con gli armonici. L’intro è geniale. Surreale. Libere dagli smorzi, le corde del piano di Lenoci simpatizzano coi richiami di Gallo. È un gioco di voci. È una corrispondenza lontana. C’è qualcuno che risponde, di là. C’è un universo dentro. Bellissimo. Cambio.

Qualche centinaio di metri e si apre un nuovo set. Teatro Piccinni. Tomasz Stanko e il suo Nordic Quintet sono pronti, ad un passo dalla scena. Intensa presentazione di Ottaviano, e si comincia. Il suono della tromba di Stanko è irrimediabilmente caratterizzato. Lirico. Morbido. Carezzevole. Le atmosfere dell’intro disperdono, si disperdono. Eco. É un minimal che solca e percorre. Silenzioso. Pulsante, quasi nervoso il basso elettrico di Christensen. Quello che si avverte, subito, è un’attenzione ossessiva alla linea. Distesa. Morbidamente adagiata. Il piano di Tuomarila è lì, sempre presente, discreto, statico. Non c’è protagonismo. Solo la linea del maestro. Luminosa. Il resto viaggia di sfondo, in sordina. Non c’è esasperazione, non c’è picco. Non c’è trasporto. Soffoca. Tutto è un racconto a mezza voce. Louhivuori crea spazi percussivi prismatici che restano vuoti. S’abbassano le luci, e ora è il basso di Christensen a narrare. L’ascolto si fa muto. Buio. I ribattuti tentano una tensione che non arriva. Innocuo. C’è una campana di vetro. Ovatta. Spegne. Un sound quasi annoiato e stanco. O forse c’è dell’altro. Mi viene da pensare. Tenta la breccia la chitarra di Bro, lavora di profondità. È una lama sottile. Fende. Un attimo, e intravedo la risposta. Dietro quel jazz di velluto, che scorre liscio e morbido al tatto, quasi soporifero, si avverte l’attesa. È come se tutto si svolgesse sotto la mano di qualcosa di più forte, di più grande. Visionario. Si crea un nuovo ambiente, un campo emozionale che tenta la fuga. Ha gli occhi sgranati, rivolti al cielo. Ma è ad un passo da quel cielo che, razionale, torna la tromba di Stanko. Raccoglie e riconsegna al sottocute il tentativo di fuga. La risposta. È come se tutto avvenisse in secondo piano. A voler celebrare una presenza, quella di Miles. Miles lives, impera il sottotitolo dell’edizione 2011 del BIJ. Ecco. Forse il momento taumaturgico si sta svolgendo ora. Celebrativo. È nel pensiero celebrativo si alza, devota, una preghiera. Intensa. Viva. Nuova. Ci riesce il piano di Toumarila, sostenuto con fede dal basso e dai drums. Ci riesce Stanko che raccoglie, ancora coerente, a mani giunte. Commemora la chitarra di Christenson. Semplice. Dolce. Calda. Vagamente blues. È un ricordo sfilacciato, ricucito di swing dalla magistrale tromba di Stanko. Piano, e quasi dei timpani. Chiude funereo. È un’altra dimensione quella che creano basso e chitarra. È fortissima la sollecitazione. Spettrale. Miles vive. Risveglio.

Mentre di là nel Piccinni si commemora e le atmosfere sono nostalgiche e intimiste, in piazza Ferrarese si scatena la festa. Hammond fronte al pubblico. Non ci sono trucchi. Tutto si crea sotto gli occhi trepidanti di un pubblico che vuole divertirsi. Taylor sa come fare. È immediato, e il suo stile è quello d’un trascinatore. Un animale da palcoscenico. Un attimo e riesce ad animare una piazza intera che lo cerca, lo aspetta e lo incontra in uno «Yessss!!» lunghissimo. Tutti sono pronti. «Are you ready for this?». È il richiamo. Ed è un battito di mani che corre dalla prima fila ai corridoi dei locali e accoglie in un abbraccio le migliaia di persone che tra ombrelloni rossi e bicchieri di birra vivono lo spettacolo di piazza Ferrarese. Lei è splendida, la black lady del James Taylor Quartet. Infiamma e consola. Taylor è divertente e trascinante, anche quando riesce a far intonare ad una piazza intera un inaspettato Happy Birthday. È un gioco che non stanca. È un tripudio di colori. Incandescente. È acid. È rock. Detona. Il pubblico va in visibilio. Il «corto circuito» (R. Ottaviano) è innescato. Definitivo. Chissà se era questo il jazz che aveva in mente il vecchietto di qualche ora fa. Mezz’ora a mezzanotte. E la festa continua.

Eliana Augusti

Leggi tutto...

BARI IN JAZZ live diary – 28 giugno 2011

Una mezz’ora appena, e anche per quest’anno Bari suonerà jazz. Giugno. Caldo, ma non troppo. Piazza Ferrarese è tutta uno struscio, come si dice dalle nostre parti. Trepida. C’è la fila dei bimbi al camioncino dei gelati. Prove di luci. I ragazzi al muretto si raccontano i primi sorrisi della vacanza. Soundcheck. Granita al limone. «Ma c’è un concerto?» Chiede una donna anziana al suo uomo d’una vita. Lui la guarda, con la stessa espressione di disapprovazione che magari le riserva quando il piatto è sciapo. «C’è il jazz!». Lui che ha letto i giornali, lo sa. Stasera, a Bari, c’è il jazz. Lo sanno tutti. L’entusiasmo di Ottaviano ha vinto ancora. E lo spettacolo è pronto. Anche quest’anno, nonostante i tagli alla cultura. «La vera forza di questi festival è la partecipazione del pubblico, il confronto tra vecchie e nuove generazioni, la progettualità degli artisti del nostro territorio in dialogo con quelli di altri contesti internazionali» (R. Ottaviano). E il BIJ prende le mosse proprio da qui, dal nostro territorio, dalla Puglia. Auditorium diocesano della Vallisa, la chiesa della purificazione, meglio nota come la “Raveddise”. «Il momento è taumaturgico».

Ottaviano consegna all’ascolto del pubblico il Gianni Lenoci Hocus Pocus Quartet. Un ingresso a schiaffo. Improvvisazione. Composizione. Chironomia. Una cartografia di emozioni (scrive Lenoci, citando Deleuze). È un polimorfismo dinamico. È un laboratorio timbrico permanente. «Dobbiamo accettare l’idea che non possiamo possedere la musica, possiamo solo esserne vittime felici» (G. Lenoci). I suoni piramidizzano. I drums di Mongelli sono liberatori. È una trance. Lenoci riempie, fitto. È una febbre. Il sax di Gallo diventa uno strumento nuovo, dove il soffio diventa voce, e la voce grido, e il grido di nuovo suono. Tutto è calibrato. L’effetto è destabilizzante, ma così ricco da sostenere. Feroce. Attacca e spaventa. Non accenna la sosta. È un moto perpetuo. Decomprime e, sfiancato, desiste. Stride. È Mongelli, che vibra il ride con l’archetto, mentre Lenoci pizzica le corde del suo piano. Ritorna il tema. Litanico. Indossa una maschera taurina. È drammaticamente buffo, e fa spavento. Un attimo e si cambia scena. È un melodismo caldo che evapora lento. Belli i contrasti tra gli spazi ampi del sax di Gallo e quelli angusti del pianismo di Lenoci. Si incontrano, in un unisono che armonizza e rompe, d’improvviso, le resistenze. Tutto è così spontaneo e così maniacalmente previsto. Cromatizza un’ascesa. Carica. Contrabbasso e batteria sostengono. È una processione. Sale ancora, mentre cascano, in uno stato quasi di trance, le sequenze di Lenoci. E l’arrivo non deflagra. Resta lì, nell’ovvietà di qualcosa che non può sorprendere, tant’è naturale. Ritorna l’elemento ostinato, quasi marziale. Registri gravi. Il basso di Gadaleta è lamentoso, è un latrato che stringe e riconsegna ad atmosfere tetre tutto il resto. Si gioca ancora col polimorfismo, ed è quasi un rāga. Straordinario effetto visivo, oltre che acustico. Calma e si ritorna alle sonorità dell’inizio, resta il ricordo dell’Oriente. Ipnotico. Il coinvolgimento è totale. È un viaggio della mente. Smorza. Cupo, di tuono lontano. Splendido il terzo intervento, che apre con l’assolo di Gadaleta. Lenoci è ricchissimo, debordante. È un virtuosismo che scorre, ramifica e si scompone, raggiungendo altitudini e direzioni imprevedibili e dannatamente perfette. Bel swing. Il sincopato diverte e crea il giusto spazio al protagonismo di Gallo. Avvincente il disegno. Si sperimenta ancora. Si gioca con gli armonici. L’intro è geniale. Surreale. Libere dagli smorzi, le corde del piano di Lenoci simpatizzano coi richiami di Gallo. È un gioco di voci. È una corrispondenza lontana. C’è qualcuno che risponde, di là. C’è un universo dentro. Bellissimo. Cambio.

Qualche centinaio di metri e si apre un nuovo set. Teatro Piccinni. Tomasz Stanko e il suo Nordic Quintet sono pronti, ad un passo dalla scena. Intensa presentazione di Ottaviano, e si comincia. Il suono della tromba di Stanko è irrimediabilmente caratterizzato. Lirico. Morbido. Carezzevole. Le atmosfere dell’intro disperdono, si disperdono. Eco. É un minimal che solca e percorre. Silenzioso. Pulsante, quasi nervoso il basso elettrico di Christensen. Quello che si avverte, subito, è un’attenzione ossessiva alla linea. Distesa. Morbidamente adagiata. Il piano di Tuomarila è lì, sempre presente, discreto, statico. Non c’è protagonismo. Solo la linea del maestro. Luminosa. Il resto viaggia di sfondo, in sordina. Non c’è esasperazione, non c’è picco. Non c’è trasporto. Soffoca. Tutto è un racconto a mezza voce. Louhivuori crea spazi percussivi prismatici che restano vuoti. S’abbassano le luci, e ora è il basso di Christensen a narrare. L’ascolto si fa muto. Buio. I ribattuti tentano una tensione che non arriva. Innocuo. C’è una campana di vetro. Ovatta. Spegne. Un sound quasi annoiato e stanco. O forse c’è dell’altro. Mi viene da pensare. Tenta la breccia la chitarra di Bro, lavora di profondità. È una lama sottile. Fende. Un attimo, e intravedo la risposta. Dietro quel jazz di velluto, che scorre liscio e morbido al tatto, quasi soporifero, si avverte l’attesa. È come se tutto si svolgesse sotto la mano di qualcosa di più forte, di più grande. Visionario. Si crea un nuovo ambiente, un campo emozionale che tenta la fuga. Ha gli occhi sgranati, rivolti al cielo. Ma è ad un passo da quel cielo che, razionale, torna la tromba di Stanko. Raccoglie e riconsegna al sottocute il tentativo di fuga. La risposta. È come se tutto avvenisse in secondo piano. A voler celebrare una presenza, quella di Miles. Miles lives, impera il sottotitolo dell’edizione 2011 del BIJ. Ecco. Forse il momento taumaturgico si sta svolgendo ora. Celebrativo. È nel pensiero celebrativo si alza, devota, una preghiera. Intensa. Viva. Nuova. Ci riesce il piano di Toumarila, sostenuto con fede dal basso e dai drums. Ci riesce Stanko che raccoglie, ancora coerente, a mani giunte. Commemora la chitarra di Christenson. Semplice. Dolce. Calda. Vagamente blues. È un ricordo sfilacciato, ricucito di swing dalla magistrale tromba di Stanko. Piano, e quasi dei timpani. Chiude funereo. È un’altra dimensione quella che creano basso e chitarra. È fortissima la sollecitazione. Spettrale. Miles vive. Risveglio.

Mentre di là nel Piccinni si commemora e le atmosfere sono nostalgiche e intimiste, in piazza Ferrarese si scatena la festa. Hammond fronte al pubblico. Non ci sono trucchi. Tutto si crea sotto gli occhi trepidanti di un pubblico che vuole divertirsi. Taylor sa come fare. È immediato, e il suo stile è quello d’un trascinatore. Un animale da palcoscenico. Un attimo e riesce ad animare una piazza intera che lo cerca, lo aspetta e lo incontra in uno «Yessss!!» lunghissimo. Tutti sono pronti. «Are you ready for this?». È il richiamo. Ed è un battito di mani che corre dalla prima fila ai corridoi dei locali e accoglie in un abbraccio le migliaia di persone che tra ombrelloni rossi e bicchieri di birra vivono lo spettacolo di piazza Ferrarese. Lei è splendida, la black lady del James Taylor Quartet. Infiamma e consola. Taylor è divertente e trascinante, anche quando riesce a far intonare ad una piazza intera un inaspettato Happy Birthday. È un gioco che non stanca. È un tripudio di colori. Incandescente. È acid. È rock. Detona. Il pubblico va in visibilio. Il «corto circuito» (R. Ottaviano) è innescato. Definitivo. Chissà se era questo il jazz che aveva in mente il vecchietto di qualche ora fa. Mezz’ora a mezzanotte. E la festa continua.

Eliana Augusti

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS