Jazz Agenda

San Giorgio a Liri Jazz Festival: via alla terza edizione

Terza edizione del Jazz Festival San Giorgio a Liri che prenderà piede dall'11 al 12 settembre nell'omonima cittadina ciociara. Due le formazioni che saliranno su questo palcoscenico: la prima il quartetto capitanato dal clarinettista Gianni Sanjust completata da Riccardo Biseo al pianoforte, Guido Giacomini al contrabbasso e Lucio Turco alla batteria, che si esibirà il giorno 11 presso il Laghetto In. Per quanto riguarda il 12 settembre, invece, sarà la volta del trio del bassista Mauro Arduini che vedrà la partecipazione di Dario Zeno al pianoforte e Lucrezio de Seta alla batteria. Il trio suonerà standard Jazz tra cui Coral, Giant steeps, Seven steeps To Heaven, All The tink You are. Di seguito il programma completo.

 

Jazz festival San Giorgio a Liri

 

11 settembre, ore 21:30, Laghetto In

Sanjust Quartet

Gianni Sanjust, clarinetto

Riccardo Biseo, pianoforte

Guido Giacomini, contrabbasso

Lucio Turco, batteria

 

12 settembre, ore 21:30, piazza Manzoni

Mauro Arduini Trio

Mauro Arduini Contrabasso

Dario Zeno Pianoforte

Lucrezio De Seta Batteria

In caso di pioggia i concerti si svolgeranno presso l'Auditorium Comunale...

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A Cassino, la prima della prima dello JANULA JAZZ FESTIVAL (17-18 settembre 2011)

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17 settembre, e anche a Cassino si fa sera. Poche luci e la Rocca Janula, sorniona e fiera, sorveglia da lassù l’insolita frenesia di Corso della Repubblica. È tutto un via vai. A un passo dal mitico Bar Italia, gli amici di Jazz e Libertà Roberto Reale, Francesco Mascio, Daniele Camerlengo e Antonio Violo sono pronti ad accogliere il pubblico del jazz, quello che stasera si lascerà sorprendere da uno spettacolo d’arte a tutto tondo. C’è l’artigianato, c’è la musica, ci sono le arti figurative stasera a Cassino. E Corso della Repubblica è un pullulare di suoni e colori. Parte così la prima edizione dello Janula Jazz Festival 2011. Gianluca Terenzi, Kukalounge dj set, scalda l’ambiente e prepara l’ingresso al Marco Zurzolo 5tet. Col sassofonista partenopeo ci sono Alessandro Tedesco (trombone), Vincenzo Danise (piano), Davide Costagliola (basso elettrico) e Gianluca Brugnano (batteria). Sono lì. L’attacco è morbido. Il sax di Zurzolo prende il via da lontano, allusivo, avvolgente. Disegna a tratti larghi, e quando il basso di Costagliola si sgancia dall’accenno contrappuntistico, lancia il tema. Parte il fugato che si arricchisce, fitto, carico di humor. Danise saltella nei ribattuti, vivace, tecnico, lucido e ne passa al filo di lama ogni frammento. Tedesco regge il gioco, e avanza ora per ottave, netto. È un circo. Un giro spinto e si tira su il tendone, lo spettacolo è pronto.

Zurzolo calca la scena, lussureggiante, vulcanico, in rotta perenne con la semplicità e le sintassi lineari dei temi attinti con naturalezza e generosità dal pittoresco repertorio della tradizione napoletana. Il suo è un gioco di contrasti accattivante e rigenerante, che conquista. Un attimo ed è la festa del paesello, la banda che passa. Zurzolo è lì, con la sua straordinaria imprevedibilità narrativa, parodica e scanzonata, a burlarsi del reale. Racconta, severo, e denuncia, incurante. Rompe gli schemi, li deforma e li gabba, con la disinvoltura e la carica appassionata del più verace dei napoletani. Una selezione che riscopre alcuni dei mille volti degli album Migranti (Egea Records, 2009) o Ex voto (Egea Records, 2000). Perde carattere nei tempi lenti. Si avvertono sforzati, compressi, tutti in attesa di deflagrazione, impacciati e indecisi, comunque a disagio. Denso è invece l’assolo di Costagliola, che sterza all’improvviso e osa il decollo. Lo segue Danise. Cambia il carattere, cambia la rotta. Seguono gli altri. Monta il groove, incandescente. E tutti sono più a loro agio, di nuovo coi temi della tradizione popolare partenopea. Si inseriscono di prepotenza e rubano la scena senza troppi complimenti ai poco convincenti tentativi di languido e dolce sentimentalismo. Il discorso si fa più interessante. Strizza l’occhio al pubblico e carica il tempo tra i break poliritmici di Brugnano e le scanzonate divagazioni e distorsioni di genere dei suoi compagni di gioco. Scappa un “bella ciao”, ma non è l’unico “svisto”. Si lascia prendere, Zurzolo. E l’urlo del suo sax, sempre superspinto nel registro acuto, non conosce colori e respiri. È una febbre.

C’è concitazione, energia, e non si disperde un atomo. Brugnano raccoglie quei volumi e li rilancia, carichi fino al limite. Timido, Tedesco emerge nel dedicato A Bruno. Il passo è stanco, trascinato. Ancora un cambio. E dal golfo di Napoli viaggia verso Rio, rivolta L’Avana. Parte un jazz-samba transatlantico che porta in dosso tutti i colori del Mediterraneo. Ci finiscono dentro citazioni da Real Book e altre allusioni partenopee. Una fantasia. Zurzolo piega al suo carisma, e confeziona un prodotto fortemente caratterizzato. Direziona i suoi con la verve del maestro, e costruisce per gradini dinamici un edificio di pieni e vuoti pazzesco. Il pubblico è con lui, rapito e coinvolto completamente nella festa. Non controlla le tensioni, fortissime, che vanno da sole e conquistano vita a morsi. S’innesca il corto circuito. Bilancio positivo per questo primo appuntamento cassinese. Si continua il 18 settembre con gli Oro-Logic 4tet e il featuring di Fabrizio Bosso. E il prossimo anno lo Janula Jazz Festival insidierà la Rocca. Bella rivincita per la vedetta sorniona!

Eliana Augusti

foto di Eliana Augusti e di G. Bisanti

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Live Report: Salice JazzWine Festival a Salice Salentino

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Salice Salentino (Le). Si è chiusa domenica, 11 settembre 2011, la V edizione della tregiorni Salice JazzWine Festival, direzione artistica di Andrea Sabatino, conduzione impeccabile di Luisa Ruggio. Una «scommessa vincente», ha sottolineato Sabatino, dove a vincere è stato il «jazz, che è amore, passione, emozione». Nient’altro. Ad aprire la serata, Mirko Signorile Trio, con Mirko Signorile (piano), Giorgio Vendola (contrabbasso) e Fabio Accardi (batteria). L’album, Clessidra(Emarcy Universal, 2009) è proposto in una selezione raffinatissima che empatizza con  le atmosfere rilassate di una fresca sera di fine estate. Il pianismo di Signorile è un moto d’onda, che raccoglie e trascina. È tutto un morbido fluire, canalizzato dalla voce avvolgente di Vendola, fino ai break poliritmici di Accardi. Esplosivi, macinano allusioni hard che si innestano inaspettate, rompono e dettano un groove cangiante che insaporisce. C’è tempo per un inedito del nuovo album, in uscita a novembre. Il melodismo è dichiarato. La linearità dei temi percorre senza scossoni, lasciando naturalmente spazio all’improvvisazione. Il tempo di un cambio scena, e sul palco arriva Paolo Recchia e il suo Ari’s Desire (Via Veneto Jazz, 2011). Con Recchia al sax contralto, ci sono Nicola Angelucci (batteria), Nicola Muresu (contrabbasso) e il feat. di Alex Sipiagin (tromba e flicorno). Dalle rivisitazioni in stile di Sonny Rollins e Leslie Bricusse, ai personali, tutti a firma Paolo Recchia.Tenor Madness arriva dinamica, coi continui cambi di tempo.

 

Tutto è spinto nel registro acuto, distratto da cromatismi e intervalli ampi di Recchia. Il suo sax, libero e spigoloso, schianta fragoroso con la tromba d’attesa di Sipiagin, calda e rarefatta, per poi invertirne la direzione e trovare nuova ispirazione in un dialogo scanzonato e divertente dal contrappunto vivace. Muresu imbastisce, discreto. Quando parte Boulevard Victor è Angelucci a farla da padrone.

 

Ispirato e trascinante, polarizza e stacca tempi che sequenziano il racconto di Resta. Peace Hotel apre mistico e pacificante. Angelucci rulla il timpano. Quando attacca Sipiagin, lo spazio prende una nuova dimensione, generosa e ampia. Recchia la intercetta e si infila negli interstizi colmi dei suoi divertimenti.Un virtuosismo composto che non distrae dall’intenzione melodica e dall’estro compositivo. Il mosaico è perfetto. Ritorna la voce di Rollins con Pent-Up House. Goliardico nello spirito che anima gli scambi confidenziali sax-trumpet e piacevolissimo e magistralmente saporito dall’eclettismo di Angelucci. I suoi drums descrivono e, impeccabili, lanciano uno swing sconsideratamente personale che caratterizza con verve la sezione ritmica. Freme dalla seconda fila Muresu. Il tune si fa romantico e struggente con Who Can I Turn To. Sensuale il sax di Recchia, controllatissimo e vibrante nei pianissimo. Largo e ispido, Sipiagin contrasta con le sue esplorazioni al limite del registro acuto. Prende un groove che cresce, e cambia il piglio, lasciandosi anni luce alle spalle la morbidezza dell’attacco. Un romanticismo schizofrenico che conquista.

 

E l’appuntamento è rinnovato al prossimo anno.

 

Eliana Augusti

 

foto di G.Bisanti

 

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Live report: Javier Girotto e gli Aires Tango

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Nella serata del 14 agosto, in una Roma quasi deserta, scopriamo con sorpresa una Casa del Jazz quasi piena. La giornata è calda e umida con una splendida luna piena. Con un sottofondo di instancabili cicale aspettiamo tutti quanti l’inizio del concerto. Questa sera suonerà Javier Girotto al sassofono accompagnato dai fedeli Aires Tango. In ordine: Natalino Mangalavite al pianoforte e voce ,Santiago Greco al basso e Martin Bruhn alla batteria e voce.  Tutti i musicisti sono di Cordoba, Argentina, paese di nascita di Javier Girotto, e presentano un disco dal titolo Alrededores de la Ausencià, disco dedicato ai 30.000 desaparecidos argentini scomparsi tra il 1967 e il 1983 durante la dittatura militare.  Appena iniziano a suonare veniamo trascinati in Argentina, le sonorità e i ritmi ci ricordano, la samba e il tango si fondono con il jazz. Girotto suona  e si avvinghia al suo sax lasciando trasparire le proprie sensazioni ma non vuole dominare la scena e lascia spesso spazio a gli altri musicisti. Martin Bruhn  il batterista , si lascia andare a ritmi di samba, mentre Natalino Mangalavite esegue soli di piano alternati da splenditi pezzi cantati, alcuni dei quali estremamente emozionali.

La gente applaude e alcuni ballano anche. Durante le pause Girotto racconta aneddoti sui musicisti, scherza e ride. Tutto ci lascia in bocca un sapore conviviale e allegro tipico della gente sud-americana. Il concerto si chiude tra un fragoroso applauso e avviandoci verso casa non riusciamo a resistere alla tentazione di battere le mani al ritmo si samba o canticchiare qualche melodia rimasta che questa splendida serata ci ha lasciato impressa.

Valentino Lulli

Foto di Valentino Lulli

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Locomotive Jazz Festival 2011 – Report

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6 agosto 2011. Sono da poco passate le due del mattino. Piazza Diaz è deserta. Solo il via vai degli infaticabili del service. Il Locomotive si smonta a pezzi, e si raccoglie con cura materna negli scatoloni che ne conserveranno, dolce, il ricordo, fino all’emozione della prossima edizione. C’è stanchezza, soddisfazione e già un pizzico di nostalgia negli occhi e nel cuore di chi ha partecipato lo spettacolo di Sogliano Cavour. Raffaele Casarano e Alessandro Monteduro sono lì, nel back stage, a regalare l’abbraccio di saluto sincero a chi, con loro, ha vissuto il caleidoscopico viaggio di suoni e colori del Jazz Circus 2011. E il diario di bordo non potrebbe essere più ricco. Bardoscia, Greco, Accardi, i fratelli Casarano, la Severini, Monteduro, Ferra, Di Ienno, Furian, Rubino, Bagnoli, Dalla Porta. E poi Fresu, le sonorità giunoniche di Dudu Manhenga, e ancora Conte, Nunzi, Benedettini, la Porter, il sax sincero di Partipilo e la tromba carismatica di Boltro. La follia trascinante e irriverente di Mototrabasso a fare da spartiacque. Le sue peregrinazioni fantastiche e fantasiose in loop, a bordo del curioso aggeggio metà motocicletta metà contrabbasso. Imprevedibile e geniale. Un circo. E ancora le commistioni forti delFood Sound System, il progetto a firma Don Pasta. Lì con lui ancora Bardoscia, Rollo, Carla e Raffaele Casarano e gli artisti dell’Ècole de Cirque Le Lido, tra acrobazie, giochi e tutti i sapori, gli odori e le voci della cucina salentina. La musica bolle, e lievita uno spettacolo metasensoriale che coinvolge a 360°. L’attesa per il gran finale di venerdì, 5 agosto.

Le armonie accoglienti di Zanisi e del Del Vitto Trio che soffrono la formula del “pre-concertone” e non trovano il giusto spazio d’ascolto, sacrificato dalla distrazione frenetica all’accaparramento del posto: pochi minuti e sarà Gino Paoli a conquistare la scena del Locomotive. Il suo “incontro in jazz” rapisce un pubblico variegato, di jazzofili e non. È il senso più autentico dell’incontro. Chiuso in un ghigno, scontroso e schivo, sembra rinascere sul palco. Rea, Bonaccorso, Boltro e Gatto sono accoglienti, e il progetto riscopre così, nel pregio della formazione, un’eleganza naturale e ipnotica che avvolge e sospende. Sono loro a fare la differenza, impreziosendo le spigolosità, dolci e severe, della voce di Paoli. Buio. Quando si riaccendono le luci sono i colori scalmanati dei Mascarimirì e il graffio di Terron Fabio a scuotere piazza Diaz. Cavallo detta il ritmo e scatena la festa. L’energia risveglia gli animi, ancora agganciati, torpidi, ad un’emozione. Quello che resta. L’emozione. E con lei gli amici del jazz, quelli che ritrovi in giro, per concerti, che vivi entusiasta, nelle storie di un viaggio, che ascolti e comprendi, sempre più intensamente, nell’esperienza rigenerante della musica, che senti negli abbracci sinceri di chi condivide la stessa passione e non ha bisogno di tante parole per raccontarsela. L’emozione del jazz. O, semplicemente, la gioia dell’incontro.

Eliana Augusti

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Jazz Circus…in diretta dal Locomotive Jazz Festival (Sogliano Cavour, 2011)

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2 agosto 2011. Anche per quest’anno il Locomotive Jazz Festival corre su rotaia. Percorre il Salento, scorre nelle vene della Sud Est e suona, jazz. Ultima fermata, Sogliano Cavour, piazza Diaz. Si parte così. Lo spazio intimo per la commemorazione di Matteo Perrone e la sua testimonianza d’amore immortale per la danza e la musica. L’intervento conciliante di Salvatore Vantaggiato (piano) con le divagazioni soft della chitarra di Giuseppe Pica e la partecipazione di Raffaele Casarano al sax. Sono il Free Steps Group, introducono e accompagnano i passi dei giovani danzatori della Arti Degas di Antonio Orlando. Il tempo delle proiezioni a cura di Chiara Idrusa Scrimieri e il Festival cambia faccia. Uno spazio aperto di promozione. My Favorite Records. Tuk Music, e una rassegna di giovani e meno giovani musicisti, prodotti e in produzione dall’etichetta, presentati al pubblico con una formula accattivante e vincente. Marco Bardoscia firma The Dreamer (My Favorite, 2011). Sul palco c’è lui, Marco, con William Greco (piano), Fabio Accardi (batteria) e Raffaele Casarano (sax). Apertura da Real Book conStella by Starlight. Il contrabbasso di Bardoscia si fa hard quando lascia il pizzico per l’archetto. Umori rock. Vivace e ricco il pianismo di Greco. Sostiene energico Accardi. S’insinua Casarano. Ninna nanna per la piccola Sara è un sussurro, e ogni armonico sfiora il cielo. È un abbraccio, caldo, che accoglie e protegge.

 

Delizioso lo scambio con Greco e il suo protagonismo, discreto e raffinato, sempre misurato e dinamicamente suggestivo. Prezioso. Qualcosa da dire. E Bardoscia ci riesce sempre. È un fiume in piena e detta un groove che sale. Corre e scorre. Casarano non dà tregua. È tutto in discesa, ripidissima. C’è sintonia e una naturalezza d’interplay che ha tutto il sapore d’un tempo unico, vissuto in quattro. Un live d’eccezione che supera il disco. Chica y nano, la dolcezza di una bimba e la sua buffa tenerezza in un esotismo avvolgente. Ogni brano ha dentro un pezzo d’anima e un cuore da sogno. E il sognatore, The Dreamer, è lui, Bardoscia, e il racconto commovente, profondo e avvolgente del suo contrabbasso. Complici fedeli il tocco elegante di Greco, le spigolature audaci di Casarano e le intense vibrazioni di Accardi. Ricco. È la volta di Simona Severini (La Belle Vie, My Favorite 2011) e delle sue suggestioni vocali alla francese. Ritorna Greco al piano. La Severini è leggera e la sua voce uno strumento complesso e imprevedibile che si arrampica, cangiante e polimorfo, in uno spazio aereo indefinito. Una libertà di vocalizzo e un controllo totale d’effetto che urta con l’asciutta esposizione dei testi dei brani cantati. Sempre ferma nell’intonazione, e il suo racconto è un punto fermo. La Severini ci ruota intorno, in un vortice da capogiro. Culla di suggestioni per la La Belle Vie, e un silenzio che suona. Un attimo ed è un grido che canta. Gioco di chiaro-scuri e il contrasto traccia, ora libero nel vocalizzo ora costretto dal testo, un percorso emozionale forte e caratterizzato. Aggancia e vibra, ipnotica e magnetica, esplorando con folle audacia, delirante sicurezza e languidi ritorni di lucidità ogni antro espressivo. Rigorosamente senza eccessi. Greco la sostiene, mirabilmente, assecondandone il pensiero, e swinga, personale e morbido. Nuova produzione introdotta da Patrizio Romano. È il Bebo Ferra Circle Trio. Bebo Ferra (chitarra), Gianluca Di Ienno (hammond), Maxx Furian (batteria). L’album in presentazione è Specs People (Tuk, 2011). Si parte con Scuro, a firma Ferra. Assolo di netto, scandito e baloccoso, di Furian. Afferra alla schiena e molla improvviso la presa. La chitarra di Ferra verticalizza, acida, ed elettrizza l’aria nello scambio energico con i drums. Stende l’hammond di Di Ienno. Tinte forti che infiammano e divorano. My English Brother. Atmosfere psichedeliche anni settanta. Lo spazio tra l’hard rock e il jazz è labilissimo e folgorante. Si cambia. Sul palco Dino Rubino (Zenzi, Tuk 2011) al pianoforte. Con lui Stefano Bagnoli (batteria) e Paolino Dalla Porta (contrabbasso). Rubino è allusivo, contenuto, intenzionalmente denso. Il pianoforte lo trattiene e fascia. Mistico il brano di chiusura. Passo lento, stanco, trascinato. Scalda la passione e il tema proposto dal registro grave del contrabbasso di Dalla Porta percorre e raggiunge in eco quello medio del piano. Bagnoli segna. Resta lì con Dalla Porta, e il quartetto si completa con Ferra e Paolo Fresu. Va in scena il Paolo Fresu Devil 4tet. Dagli stilemi consolatori alle urla acide. Sordinata o no, comunque effettata, la tromba di Fresu si riconosce. Bello l’interplay con Ferra e Dalla porta. Bagnoli spazzola. Convulse, frammentate e appuntite le linee dell’artista visivo Orodè Deoro che accompagnano ogni esplorazione sonora. Si chiude. Doppio finale con tutti gli artisti. Rubino rinasce alla tromba. È il jazz circus. Trascinante. E a sipario un suggestivoSummertime dal groove esplosivo. Benvenuti al Locomotive 2011.

Eliana Augusti

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Live Report: Electric Hot Tuna alla Casa del Jazz

Jorma Kaukonen e Jack Casady, in qualità di membri originari dei Jefferson Airplane, sono stati tra i pionieri del rock psichedelico degli anni 60. Nel 1970 i due hanno dato vita al progetto  Hot Tuna(in origine il nome previsto era “Hot Shit” ma fu la casa discografica ad opporsi) una delle più longeve band di roots-music americana. Dopo i primi quattro leggendari album (a partire dal secondo First Pull Up, Then Pull Down,  del 1971, entrò nella band anche il grandissimo violinista Papa John Creach), seguiti da una separazione e una da reunion negli anni 80, gli Hot Tuna si sono ciclicamente ripresentati alla ribalta in varie formazioni, con la costante presenza dei membri fondatori Casady e Kaukonen. A partire dal 2000 si sono succeduti vari tour sia in versione elettrica che acustica, e l’accento stilistico si è andato via via spostando verso il Country Blues, anche perché  alla line-up si è nel frattempo aggiunto Barry Mitterhoff, virtuoso del mandolino elettrico e vero e proprio veterano di generi quali il Bluegrass.  Quest’anno, con l’uscita di “Steady As She Goes“, primo disco in studio dal 1999,  e con un nuovo tour mondiale, gli Hot Tuna sono tornati a rendere bollenti  i cuori degli appassionati di Vintage Rock. Se infatti il termine vintage si riferisce ad oggetti d’annata con qualità superiori rispetto alle produzioni più moderne, allora gli Hot Tuna sono l’incarnazione vivente di questa definizione.

Il concerto svoltosi giovedì scorso, 21 luglio, al Parco della Casa del Jazz di Roma è iniziato con un’atmosfera assolutamente “relaxed”, come se si stesse assistendo a un’esibizione tra amici, magari in una fattoria di Woodstock, dove (ma guarda caso….) è stato registrato il nuovo album. Grazie all’approccio rilassato e divertito, la band del “Tonno bollente” riesce immediatamente a creare una gradevolissima atmosfera live che ipnotizza il pubblico romano accorso in massa malgrado la superofferta di concerti di questa stranamente fresca estate romana. I tre brani di apertura, “I see the Light” (ballatona country-acida), “Children of Zion” (blues superclassico) e “Wish you would” (sarà piaciuto particolarmente ai fan di Iggy Pop), ci danno la misura di quel che ci attende per il resto della serata: una cavalcata di oltre due ore, durante la quale la band di Kaukonen e Casady passa agevolmente attraverso tutti gli stili che hanno fatto grande la musica moderna Americana, quella con la A maiuscola per intenderci. Blues, Folk, Country, Rock, tutto distillato attraverso il fluido chitarrismo “finger-picking” e la rauca voce di Kaukonen, il basso genialmente semplice e galoppante di Casady, gli arpeggi virtuosi del “Mandolin Hero” Mitterhoff ed il preciso e potente drumming di Abe Fogle. Stupisce la freschezza dell’impatto sonoro, quasi come se invece che a degli ultrasessantenni ci trovassimo di fronte a dei ventenni impegnati nel loro primo tour. Ma le lunghe cavalcate acide dei Tuna  rivelano tutta l’esperienza dei nostri, grandiosi nell’intrecciare trame sonore straordinariamente coinvolgenti. Kaukonen, pelle bruciata dal sole e braccia coperte di tatuaggi, come un vecchio timoniere conduce la platea verso i lisergici deserti californiani di fine anni 60: verso metà concerto si raggiunge uno degli apici, grazie alla cover di un brano dei “compagni di strada lisergica” Grateful Dead (“I Know You Rider“). Ma anche i brani del nuovo album “Steady As She Goes” non sfigurano affatto (una menzione particolare per la quasi byrdsiana “Things That Might Have Been“, inno all’innocenza perduta di un’infanzia americana degli anni ’50, e forse dell’intera nazione). Si chiude con gran parte del pubblico in piedi, che (complici  la birra e gli ottimi cocktail serviti dal Bar della Casa del Jazz?) si mette ad ondeggiare come gli hippy a Woodstock. Gran finale con due brani tratti da America’s Choice, l’album uscito nel 1974: “Funky #7″ e  “Hit Single #1″. Non c’è dubbio: il tonno è ancora bollente!

Raphael Gallus e Francesco Varone

Set list:

I see the light

Children ofZion

Wish you wood

Ode to Billy Dean

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BARI IN JAZZ live diary – 1 luglio 2011

Al Bari in Jazz l’incontro è di casa. L’incontro. Quella straordinaria possibilità che è l’incontro. Accade. Per strada, da una bicicletta. Davanti a una birra, rigorosamente ghiacciata. Sotto il tetto d’un paradiso d’ombrello, mentre di là dal cielo si scatena l’inferno. All’ombra di un fazzoletto di bistecca, che sarebbe più facile da stracciare, ad averci il coltello giusto. Momenti. Rari. Unici. Non solo jazz. O magari, anche questo è jazz. D’altronde, la musica come la vita, e la vita come la musica, «sono solo questioni di stile», diceva Miles.

Al Piccinni c’è il Blake Allison Drake Trio. Bella l’atmosfera. Si inizia così, d’impatto. L’energico assolo dei drums di Hamid Drake scalda. Si va di stop. È una presenza convinta. Entusiasta. Entra nel vivo. C’è empatia. Il sax di Michael Blake è intenso. Forte. Avvolgente. I colori sono accesi. Poderose e sicure le linee tracciate dal contrabbasso di Ben Allison. C’è carattere. È un carisma perforante, che penetra, di netto. È una sinergia perfetta. Il varco è aperto. Il sax di Blake accede, arruffato, sui ribattuti e i percorsi cromatici di Allison. Caldi. Pastosi s’innervano, esplorando il registro più scuro. Il tema progredisce. Ed è una dolce salita, rotta, ispida sul finale. La percussività mimica di Drake incuriosisce e affascina. Blake ci imbastisce su un ricamo. Soffuso. Fermo immagine. Blake si incaglia su un modulo semplice, ritmicamente segnato, melodicamente circoscritto. È un labirinto che non pare conosca via d’uscita. Soffoca. L’esigenza è la fuga. Ed è un lungo vagare, fatto di passi stanchi e trascinati. Stenta. Esanime. Sfilacciato. Desiste. Cambia l’angolo di campo. Il sax lascia spazio ad una melodica. È quasi un reggae time. Scanzonato. L’interplay è naturale, luminoso. Il racconto avvince. Non ci sono fronzoli. Nessun inutile e frustrante virtuosismo. Le linee sono spezzate, posizionate con cura in uno spazio definito e guidano l’andare. Passa e va. Scompare all’orizzonte. Montreal midnight. Nuovo set. Drake lascia i drums e avanza sulla scena. La pelle del tamburo è una luna. L’archetto di Allison si arma di sonagli, e ne costruisce i bagliori. Illumina Montreal. È una notte ispirata. È un sogno urbano, che conosce possibilità di fuga. È la magia dei rhythmic noises. Il sax asseconda l’idea di Allison e copre il ritorno di Drake ai drums. Risveglio metropolitano. Conquista.

Un isolato più avanti i Camilloré incendiano il campo ferrarese. Ed è una cascata di colori. Ceddia è un divoratore. Consuma a morsi la piazza. Scatena l’incendio «e confonde il mondo con il suo kazoo». Circense. Chiude l’omaggio al Principe De Curtis. È un teatro. E Ceddia ne tiene le fila. Pochi minuti e arriva. Caldo. Lucente. Denso. È Argento vivo che scorre e riempie i vuoti. Cambio d’abito per piazza Ferrarese. Raffaele Casarano presenta il suo ultimo progetto discografico, Argento (Tuk Music, 2010). Suade, ispirato. L’elettronica di Marco Rollo entra, e sfida l’immaginario. È un collage perfetto. Il dialogo con Greco si fa intenso e il groove cresce. Anni settanta. Carla Casarano spinge, preziosa. Ed è una dichiarazione d’eleganza. Un amalgama che si lascia fendere dalle atmosfere andaluse della chitarra di Checco Leo. Bardoscia sostiene, discorsivo. Pressurizza. Il cielo partecipa. È un’intesa che non t’aspetti. Splendida. Argento sul palco, argento nell’aria. Argento è il lampo che all’improvviso squarcia. Argento ogni goccia che raggiunge, inesorabile, le lastre granitiche di piazza Ferrarese. Specchia. Scompone. Segue in ogni riflesso i colori del palco. L’acqua non ha nemici. Monteduro carica, fitto. Il cielo con lui.

Eliana Augusti

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BARI IN JAZZ live diary – 30 giugno 2011

«Water no get enemy». Fela Kuti. Una bottiglia e via. Acqua. E anche del temporale di qualche ora fa non resta che l’odore. Sospiro di sollievo. L’acqua non ha nemici. Nella sede dell’Abusuan di Strada Vallisa ci si incontra, appena il tempo di un bicchiere in compagnia. Sorrisi. Frammenti di vita. Incroci di lingue. C’è tutto un mondo in quest’angolo di Bari vecchia. L’Auditorium è colmo. Michele Giuliani & Reunion Platz sono pronti. Sonorità afro-cubane. Sapore di Sud. Si leva un inciso intenso, tribale. Avvolgono le voci. È un amalgama che consola e riscalda. Secondo intervento. Altra dimensione. Il piano di Giuliani porta lontano. Il pubblico è lì. Inchiodato. Distende. Calma. È un ascolto piacevole. E quando parte Step by Step la voce di Giuliani scava, sensuale. È un pensiero metropolitano che attraversa spazi esotici.  E viceversa. La  rigidità del suo attacco al tasto aggancia l’anima. Poche note. Scalfite. Il basso elettrico di Piarulli è morbido, avvolgente. Le percussioni di Pastanella spingono. C’è sound. L’album da cui sono tratti i brani proposti, tutti a firma Giuliani, è Roots (Zeitgeist Records, 2010). L’esperimento, «creare sonorità e ambienti etno-afro impiegando strumenti della tradizione europea, come il pianoforte o il basso elettrico», nota a margine Giuliani. L’impressione è che, al di là dei contesti geografici che si tenti di raggiungere o creare, Giuliani e i Reunion Platz conquistino un sound raffinato, personale, particolarmente piacevole, che prende, accompagna e appassiona. Ispirato e ottimista. Ovunque.

Piove. Ma al riparo. L’acqua non ha nemici. Approccio veloce ad un cibo che lamenta attenzioni e si corre verso il Piccinni. Appena arrivati l’atmosfera è incandescente. Si celebra il sodalizio Slettino – Bari. IlSylwester Ostrowsky & Piotr Wojtasik Quintet è lì. Francesco Angiulli è il quinto uomo d’una formazione tutta polacca. Perfetto. Il pianismo di McClung corre. È un suono che percorre, vivacizzato da sequenze elettriche, incandescenti. È un delirio di contrasti. I drums di McCraven rincorrono e distendono. La tromba di Wojtasik arriva puntuale, effervescente. Misurato e monocromo l’approccio di Ostrowsky. Gelido. Fitto il tessuto improvvisativo. Lunghi periodi, senza alcun cedimento. Divertente il dialogo a due, drums-tromba. Si va per piccoli moduli imitativi, scanzonati. Il risultato è febbricitante. Il tema acquieta, memorie jazz standard. Wojtasik è magnetico, intimo. Costruisce degli edifici sonori estremamente raffinati. Bello l’assolo del contrabbasso di Angiulli. La tavolozza dinamica è ricchissima. Si cambia sound. Si abbandonano le atmosfere dense per un respiro più leggero, distratto dallo scambio tromba-sax. Ostrowsky è più incisivo nel registro grave. Trascinante il tema. Il sincopato spinge. Pausa.

I tempi sono strettissimi. Il calendario rispettato al millesimo. Si apre il sipario. L’Apulian Orchestraè pronta, schierata. Luci basse. Ralph Alessi descrive da protagonista l’approccio ad una produzione speciale, dedicata all’edizione BIJ 2011. Dark Magus Walkin’ Out Of The Cool. È una presenza scenica forte, le dinamiche sono tutte spinte. È l’esasperazione di una terra che conosce l’orgoglio e sa farne la sua forza. Ed è inevitabile il confronto con sonorità, e personalità, diverse. Ottaviano conduce. È un gioco di stop e presenze, ricche, fittissime, dense. Debordante. Le dinamiche controllano e si controllano. Chiude. Si apre l’assolo della chitarra elettrica di Pino Mazzarano. Balbetta, distonica. Variazioni di intensità e piccoli delay. Tutto è scandito, percussivamente. È un gioco di pieni e vuoti. Ondeggia. Sinuoso. Rientra Alessi e distende. Giorgio Vendola, al contrabbasso, gli prepara un tappeto ritmicamente interessante e detonante. Ottaviano coordina i fiati, li raccoglie, li plasma. E sono vele che si levano. Da una parte Alessi. Dall’altra tutta la potenza percussiva delle sezioni ritmiche (D’Ambrosio-Accardi-Lampugnani) e l’intensità personale di Vendola. Le vele dei fiati, lì, nel mezzo. Gradino dinamico. Ed è ancora Vendola a sostenere, discreto, l’intervento lirico del piano di Mirko Signorile. Carica ancora. È un equilibrio di forme, timbri, colori. Ottaviano miscela, dosa e libera gli assoli. Ed è il piano a fare da ponte. Questa volta è Ottaviano stesso, direttamente dal suo sax soprano, a dare la direzione. Sicura, ricca, avvincente. Riempie a livelli. È un crescendo. E quando interrompe, a lampo si apre davanti un nuovo ambiente, fatto di echi, imitazioni e passi all’unisono con la tromba di Giorgio Distante. È l’elettronica, ora, a fare da ponte. I keyboards creano spazi che avanzano e retrocedono, in un singhiozzo dinamico che prepara l’ingresso della sezione dei fiati. Caldo l’intervento al sax di Vincenzo Presta. Ed è ancora Vendola a dettare il suo stile. Personalissimo. Quando si apre il suo assolo il silenzio è totale. Il respiro si fa affannoso. Palpita. È un percorso emozionale che cattura. È Vendola, sicuramente, una delle presenze più ricche dell’edizione di quest’anno del festival. Ritorna la tromba di Alessi, ritorna la chitarra elettrica di Mazzarano. Scala, fin su in cima. Ed è quasi rock. Divertenti i giochi di stop. Scanditi i quattro tempi di Ottaviano. Bloccano. Variano. Inseriscono un tema ponte. Ed è la volta della tromba di Distante. Il sound si fa quasi latin. Caratterizzata. Carismatica. Emerge, anche nel dialogo a due con Alessi. Si cambia ancora, ora per stop, ora per gradini dinamici. Ritorna il quaternario di netto, e la spensieratezza d’un tema di strada. Va di percussioni. Buio. Maurizio Lampugnani intona un frammento che ha colori d’Africa. Spazio percussivo. Si animano le sezioni ritmiche. È un ménage à trois. Iridescente.

Dal Piccinni a Piazza Ferrarese il passo è breve. Ma il salto di genere è forte e destabilizzante. È uno stato di trance permanente, a firma Anthony Joseph & Spasm Band. È un cocktail acido che porta, immediato, in un’altra dimensione. Alcolica la chitarra elettrica di Christian Arcucci. Convulso lo scambio percussivo Martinez-Castellanos. Antony è vorticoso, prende, travolge, devasta. È un ipnosi di gruppo. «Mi porta una birra?». Miscela esplosiva. Danza.

Eliana Augusti

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BARI IN JAZZ live diary – 29 giugno 2011

Un tavolo per tre. The in ghiaccio. L’atmosfera è quella della festa. Quella di ieri. E l’eco ne partecipa ancora i luoghi. La calura è invadente. Caffetteria del Ferrarese, oggi. Si gusta l’attesa. È lo scambio, piacevole, di impressioni su quello che è stato. È lo scambio, piacevole, di sensazioni su quello che sarà. Secondo giorno. Si riconoscono i volti. Il clima è familiare. Di là dagli spazi, si alzano, curiosi, i suoni della prova finale. Ed è un non-luogo, quello delle voci, dei pizzichi, dei fiati, dei rullati, delle risa, delle indicazioni di scena, quello che non si vede perché non accade, non per tutti, non ora. Il programma è densissimo. Manca poco.

Via di corsa. Sala Murat. Bitches Brew è pronto, come il suo autore. Enrico Merlin, milanese, racconta il suo Miles. Bitches Brew. Genesi del capolavoro di Miles Davis (Il Saggiatore, 2009). Un lavoro complesso, schietto, efficace e originale. Un lavoro che riattualizza la necessità atavica dell’uomo, e del musicista più dell’uomo, di comprendere, di ridurre e contenere quelle strategie, ove ve ne fossero, legate al magico «caleidoscopio» dell’improvvisazione. The Man sapeva. The Man faceva. I suoi colori. Le sue espressioni. È un Davis inedito, quello più discusso e controverso, quello del periodo elettrico. Merlin e Ottaviano si incontrano nel ricordo della storia del jazz e, meglio, di un uomo che ha fatto la storia del jazz. Un uomo raccontato dalle tracce che ha lasciato, quelle rimaste per anni negli archivi polverosi della Columbia Records e riscoperte, ora, dal genio indagatorio di Merlin, dalla sua sensibilità di musicologo, di musicista. Enrico ha ripercorso chilometri di nastri, passato al vaglio frequenze, scovato una fortunosa e fittissima rete di anonimi «scambisti» di rare registrazioni di ancor più rari concerti di Davis. E ha tessuto la rete, ricostruito il genio, intuito il black code e ipotizzato e verificato un linguaggio non verbale dell’improvvisazione, un linguaggio in grado di svelare il mistero di lunghissime sessions, in cui tutto si svolgeva entropicamente, empaticamente. Tutto raccontato con straordinaria e devota dedizione. È un viaggio intimo, fatto di voci e immagini sonore. Oltre lo spazio, oltre i colori dell’Enucleare della Murat, Miles Davis e i suoi, da Hancock a Carter, a Williams, arrivano e vivono, intensi. É una migrazione, affascinante. È un’intuizione, straordinaria. E straordinario è il racconto diBitches Brew, «non la fotografia di un evento sonoro, ma la costruzione tutto a taglio di un film» (E. Merlin). È questa la provocazione di Miles. È questa l’intuizione di Merlin. Suona. Di là dai codici, i piani si manifestano, invertiti. Ed è l’improvvisazione a guidare. Non è preventivato l’errore semplicemente perché non esiste. La composizione segue, in sala editing e montaggio, tutto il resto. Come in un film. Avvincente. «La musica viene prima», ammoniva Frank Zappa. Come dargli torto.

Via per l’Auditorium. Vallisa. Rino Arbore Quartet e le sue Suggestions From Space. Il leitmotiv è ancora lui, Miles. Ma non è un Miles che racconta. Questa volta. È un Miles che ascolta, dedicato, e che ispira. I brani, tutti a firma Arbore, vengono da lontano. Ed è quello stesso “lontano” il luogo in cui la chitarra lirica di Arbore e la tromba boreale di Nikolaisen convergono, e raccontano di un’esperienza intima, che vive ancora. Orgoglio del vivaio pugliese, il quartetto conta Vendola, al contrabbasso. E non inganna la sua giovane età. Conquista, immediato. I drums di Liberti scivolano, netti, ordinanti. È il lato di Miles più intimo, quello che ispira e raccoglie, quello che pervade mistico il racconto del flicorno di Nikolaisen. C’è spazio per la sperimentazione. Ed è Vendola ad osare. Seguono i flussi ventrali della chitarra di Arbore, e il contrasto accattivante coi picchi ispidi della tromba nordica di Roy. È un eloquio acrobatico, è un lirismo avvolgente. Cattura. Gonfiano le dinamiche. La comunione è eclettica. L’interplay definito, geometricamente. Si liberano le linee, gradualmente. È uno spazio, ora, quasi esotico, che si lascia assecondare con audacia e sfrontatezza e che esplode nel grido della tromba, dritto al cielo. Arbore c’è, profondo, personale. E gli armonici ne arricchiscono le tessiture. L’intenzione. «Soffermarsi sull’attimo che viene prima della creatività. Uno spazio dilatato. Una creatività che forse viene dall’alto. Dallo spazio. O che magari, invece, è dentro di noi» (R. Arbore). Suggestions From Space. Risponde. Deciso. Si torna al Piccinni. Ventagli e flash. C’è sound. La Mauro Gargano Reunionfeat. Bojan Z è schierata. Suggestivo il progetto. Ritorna Miles. Ritorna il tema del film. Ritorna l’intuizione registica. È un incontro di anime. Sono due lottatori. Il ring come il palco. Battling Siki. Miles Davis. E la boxe incontra il jazz. Il match è esplosivo. Un viaggio. Dal Senegal agli Stati Uniti, passando per Parigi. Ed è un romanzo. Tragicamente appassionato. Drammatico. Ma pulsa di vita. Un racconto fatto di frammenti, voci, suoni. Il pianismo di Bojan Z è straordinario, trascinante. E quando il testimone passa a Codja e alla sua chitarra è un’esplosione. Irradia. «Travaille avec la tête!», insinua la voce. E vola l’interplay Gargano – Bojan – Vignolò. Robusto, avvolgente, deciso e marcatamente rivelato. Gargano convince e rapisce. Magnetico, nella geometria delle linee e nella profondità dei colori. È un’intesa straordinaria, polarizzata dalla tromba di Gensane e dal sax di Itzquierdo. Smuove.

In piazza Ferrarese, intanto, c’è la bossa di Dario Skèpisi. L’atmosfera è vivace, frizzante. Ha i sapori dell’estate. E incoraggia l’incontro, la danza. C’è spazio per la tradizione e la «contaminazione», sottolinea Skèpisi. Basta un attimo. È Brasilia. È Bari. Il passaggio è naturale, disinvolto. Quasi i due mondi si appartenessero. Ed è una musica che parte dal cuore. Le lingue si sfiorano. Ed è un mélange accattivante. Rilassa e distende. Potere della musica. Suggestivo l’omaggio a San Nicola. La baresità viene fuori. Definitiva. Ed è una festa, da vivere. La samba si presta. E lo spettacolo si anima con le percussioni di Giacovelli. Carica e colora. Un attimo e si cambia scena. Dal brasil etno-jazz si vola al british blues. Ed è la forza dirompente dei Blues Breakers Renewed, progetto a firma Mike Zonno e Mimmo Bucci, a celebrare un album debordante, pietra miliare della storia del blues. Blues Breakers. L’anno era il 1966. L’hammond di Triggiani stilizza ora nuovi spazi. Non c’è spazio per commemorazioni malinconiche. Suona. E la voce di Paola Arcieri trascina, euforica. È da poco passata la mezzanotte.

Eliana Augusti

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