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CASA DEL JAZZ live diary – 6 settembre 2011 – Rita Marcotulli “racconta” i Pink Floyd

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La Casa del Jazz ci regala l’ultima rassegna in questa estate settembrina, abbandonando le sonorità che hanno contraddistinto il “Casa del Jazz Festival”, per 6 giorni di puro progressive. “Progressivamente”, questo il nome della rassegna, apre con un gruppo d’eccellenza guidato da una pianista d’altrettanta fama: Rita Marcotulli. “Us and them – Pink Floyd sounds” è un omaggio che attinge alle diverse realtà musicali dei componenti, dal risultato per nulla scontato! La folla alla biglietteria non tradisce le aspettative. Del resto i Pink Floyd rientrano in quella categoria di gruppi che uniscono generazioni, e forse anche la presenza sul palco del cantante Raiz, storico frontman degli Almamegretta, ha il suo peso. Fatto sta che ci ritroviamo tutti sul solito prato, frequentato un’estate intera (per chi è rimasto un vacanziero di città!), con le facce più abbronzate e rilassate a farci stupire ancora una volta. C’è meno rigore e più voglia di interagire con chi ci sta intorno. Ai tavoli le chiacchiere hanno il sapore dei viaggi che ciascuno racconta, ma tutti buttano un occhio al palco almeno una volta, in segno di attesa. Lo spiedo del kebab c’è ancora, ad impregnare l’aria, a ricordarci che in fondo può essere ancora estate. L’afa ha lasciato il posto ad un’aria più leggera, così si ha più piacere a stare all’aperto (ed anche a pensare di essere già tornati a Roma!). 

Alla breve presentazione della serata e del festival in sé, tutti si ricompongono pronti all’ascolto. Sul palco salgono in sette: oltre alla Marcotulli al piano e Raiz alla voce, abbiamo Andy Sheppard al sax;Pippo Matino al basso elettrico; Fausto Mesolella alla chitarra elettrica; Michele Rabbia alle percussioni e Mark Mondesir alla batteria. Se l’impronta di Raiz si avverte distintamente nelle sonorità arabeggianti, Michele Rabbia le valorizza con la sua bravura nel manipolare i suoni degli oggetti più disparati (in questo caso in particolare, la capacità di ricreare suoni “elettronici” attraverso una lastra di metallo). Fiori all’occhiello i virtuosismi di Sheppard e della Marcotulli. Pur non volendo stravolgere la struttura originaria dei brani, essi si ripresentano nuovi, non sempre immediatamente riconoscibili, ma ugualmente affascinanti ed inebrianti. L’uso del riverbero li rende eterei, avvolgenti; lascia che diventino un ricordo, un sogno. Come se la loro presenza lì, in quel momento, non fosse del tutto scontata. Colpisce, tra i brani, il modo in cui “Shine on you crazy diamond” sia stata spogliata da qualsiasi orpello virtuosistico, lasciandone emergere la bellezza del testo ed accentuando il contrasto tra la voce graffiante di Raiz e quella più “pulita” di David Gilmour. Senza tentare di surclassare o dare un’interpretazione originale di un brano unico nel suo genere.

Il progetto è ambizioso e ben riuscito. Riesce a calamitare l’attenzione e a regalare un po’ di nostalgia a chi i Pink Floyd li ama dagli esordi.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Live report: Javier Girotto e gli Aires Tango

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Nella serata del 14 agosto, in una Roma quasi deserta, scopriamo con sorpresa una Casa del Jazz quasi piena. La giornata è calda e umida con una splendida luna piena. Con un sottofondo di instancabili cicale aspettiamo tutti quanti l’inizio del concerto. Questa sera suonerà Javier Girotto al sassofono accompagnato dai fedeli Aires Tango. In ordine: Natalino Mangalavite al pianoforte e voce ,Santiago Greco al basso e Martin Bruhn alla batteria e voce.  Tutti i musicisti sono di Cordoba, Argentina, paese di nascita di Javier Girotto, e presentano un disco dal titolo Alrededores de la Ausencià, disco dedicato ai 30.000 desaparecidos argentini scomparsi tra il 1967 e il 1983 durante la dittatura militare.  Appena iniziano a suonare veniamo trascinati in Argentina, le sonorità e i ritmi ci ricordano, la samba e il tango si fondono con il jazz. Girotto suona  e si avvinghia al suo sax lasciando trasparire le proprie sensazioni ma non vuole dominare la scena e lascia spesso spazio a gli altri musicisti. Martin Bruhn  il batterista , si lascia andare a ritmi di samba, mentre Natalino Mangalavite esegue soli di piano alternati da splenditi pezzi cantati, alcuni dei quali estremamente emozionali.

La gente applaude e alcuni ballano anche. Durante le pause Girotto racconta aneddoti sui musicisti, scherza e ride. Tutto ci lascia in bocca un sapore conviviale e allegro tipico della gente sud-americana. Il concerto si chiude tra un fragoroso applauso e avviandoci verso casa non riusciamo a resistere alla tentazione di battere le mani al ritmo si samba o canticchiare qualche melodia rimasta che questa splendida serata ci ha lasciato impressa.

Valentino Lulli

Foto di Valentino Lulli

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Stefano Saletti e la piccola banda Ikona alla Casa del Jazz

Giovedì 11 agosto, Casa del Jazz Festival presenta: “Notte Mediterranea” con Stefano Saletti e laPiccola Banda Ikona. Ospiti speciali: Ambrogio Sparagna, Jamal Ouassini. Stefano Saletti presenta un progetto particolare dedicato a far conoscere affinità e differenze negli stili vocali e musicali dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo: le influenze, le contaminazioni, le specificità. Un viaggio affascinante tra i canti e i suoni del Mediterraneo: dalla polifonia balcanica ai canti del sud d’Italia, dai mouwashas arabo-andalusi, al fado portoghese, dai canti sefarditi della diaspora ebraica alle esperienze del canto in Sabir l’antica lingua del Mediterraneo. Polistrumentista, profondo conoscitore delle musiche del Mediterraneo e direttore di ensemble musicali internazionali, Saletti è il fondatore della Piccola Banda Ikona, formazione che al suo interno ha prestigiosi musicisti come le cantanti Barbara Eramo e Ramya, il fiatista Gabriele Coen, il violinista Carlo Cossu, il bassista Mario Rivera e il batterista Leo Cesari. Il gruppo per questa “Notte Mediterranea” si arricchisce di ospiti come Ambrogio Sparagna direttore dell’Orchestra Popolare italiana e il violinista Jamal Ouassini direttore della Tangeri Cafè orchestra. La Piccola Banda Ikona canta in Sabir, l’antica lingua franca che marinai, pirati, pescatori, commercianti, armatori, parlavano nei porti del Mediterraneo: da Genova a Tangeri, da Salonicco a Istanbul, da Marsiglia ad Algeri, da Valencia a Palermo.

Saletti e la Piccola Banda Ikona hanno ripreso questa sorta di esperanto marinaro, formatosi poco a poco con termini presi dallo spagnolo, dall’italiano, dal francese, dall’arabo, e l’hanno fatto rivivere scrivendo intensi brani che percorrono le atmosfere sonore della tradizione popolare del centro-sud Italia miscelate a melodie balcaniche, arabe, greche, sefardite. Nel 2008 è uscito per l’etichetta Finisterre il Cd “Marea cu sarea”, che è entrato ai vertici della classifica di Folk Roots, l’autorevole rivista inglese di world music e nella classifica dei migliori dischi del 2008 stilata dalla World Music Charts Europe, la classifica ufficiale della World music europea. La Piccola Banda Ikona nel 2009 ha ricevuto il prestigioso “Coups de coeur du jury” al Babel Med di Marsiglia per il Cd “Marea cu sarea”. In questi anni ha effettuato tour in diversi paesi europei e del Mediterraneo: Spagna, Portogallo, Francia, Bosnia, Grecia, Croazia, Svizzera e, naturalmente, in Italia.

Il precedente Cd “Stari Most” – pubblicato nel 2005 – era dedicato al Ponte Vecchio di Mostar in Bosnia, fatto crollare nel ’93, che da sempre rappresentava il simbolo dell’incontro e del passaggio dall’Occidente all’Oriente. Il disco è stato inserito nelle liste dei dischi più belli usciti nel 2005 stilate da World Music Charts Europe e da Folk Roots. Il loro brano Tagama è stato incluso in Buddha Bar vol. VIII e in Buddha Bar Ten Years che racchiude il meglio della produzione della famosa compilation dell’etichetta francese GeorgeV, oltre che nel Cd di Folk Roots (agosto/settembre 2006). La Piccola Banda Ikona ha effettuato numerosi lavori teatrali. Nell’estate 2007 ha riscosso un grande successo nell’esecuzione dal vivo delle musiche originali composte da Stefano Saletti per “l’Iliade l’aspra contesa”, andato in scena al Fori di Traiano a Roma e a Segesta per la regia di Piero Maccarinelli, con Massimo Popolizio e Manuela Mandracchia. Lo spettacolo viene ripreso l’anno successivo e nel 2010 viene rappresentato a Gibellina, nel Cretto di Burri. Il gruppo ha lavorato al fianco di Giancarlo Giannini nello spettacolo di musica e poesia “Il dolce canto degli dei”, debuttando al Festival di Taormina e proseguendo la lunga tournèe nei più importanti siti archeologici nazionali.

Casa del Jazz: viale di Porta Ardeatina, 55
Info: 06/704731
http://www.casajazz.it
ingresso:12 euro

Stefano Saletti e la Piccola Banda Ikona
ospiti speciali: Ambrogio Sparagna, Jamal Ouassini
Stefano Saletti: bouzuki, oud, chitarre, voce
Barbara Eramo: voce
Ramya: voce
Mario Rivera: basso
Gabriele Coen: clarinetto, sax, flauti
Carlo Cossu: violino, voce
Leo Cesari: batteria e percussioni

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Live Report: La reunion degli Area alla Casa del Jazz

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Una fresca giornata estiva con un cielo stellato che avvolge il palcoscenico della Casa del Jazz. E’ questa la cornice in cui hanno suonato gli Area, storico gruppo degli anni 70’, che abbiamo avuto il privilegio di ascoltare proprio ieri nel parco all’aperto di questa splendida struttura. Ad aprire il concerto, ci ha pensato il Luigi Cinque Opera Quartet. E appena il Sole è tramontato, dopo una breve presentazione del gruppo, la parola è passata subito alla musica. Questa formazione, dalle forti tinte sperimentali, è composta da Alexander Balanescu al violino, Salvatore Bonafede al pianoforte,Luigi Cinque ai clarinetti ed elettronica e Patrizio Fariselli (membro degli Area) al pianoforte e tastiere. E cominciamo col dire che la musica di questo quartetto è qualcosa che esce fuori da qualsiasi identificazione o etichetta. La partenza viene affidata ad un tappeto di note dissonanti che generano uno stato di tensione, o se preferite una specie di disordine primordiale con una logica ben precisa. Una musica lasciata in sospeso, che nella seconda track si trasforma in qualcosa di più concreto, in una melodia più nitida ed orecchiabile, che con un po’ di fantasia ci trasporta, perché no, nei paesi balcanici al centro di una piazza in festa. Il concerto prosegue e poi, quasi a spiazzarti, trova la sua conclusione in “Tangeri Cafè”, brano che comincia con una base dance e che si conclude sotto le note di una inaspettata cornamusa. E dopo questa breve parentesi arriva il momento tanto atteso. Senza che nessuno se ne accorga, dopo un breve periodo di pausa dovuto al cambio di palco, Paolo Tofani si siede sul palco a gambe incrociate con uno strano strumento in mano.

Ora, se avete presente almeno un po’ come si presentava un po’ di anni fa, forse penserete che di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta. E infatti, lasciati gli Area nel 1977, Tofani intraprese, un cammino spirituale che lo portò a diventare monaco, cosa che non gli impedì di continuare a sperimentare con l’elettronica, con strumenti tradizionali e con la fusione fra essi. E dopo quasi 35 anni dalla sua ultima apparizione con gli Area eccolo qui, con un look (passateci il termine) molto diverso, ma con la stessa voglia di suonare e con la stessa ironia di sempre. Lo strumento che ha in mano, costruito apposta a Cremona in una forma elettrificata, si chiama “Trikanta Veena a tre voci” e proviene dalla tradizione indiana. E che ci crediate o no con l’ausilio dell’elettronica fa delle cose davvero incredibili. Dunque, questo musicista geniale, serafico nel suo modo di stare sul palcoscenico e perfettamente a suo agio davanti al pubblico, comincia ad improvvisare su melodie orientaleggianti che ci trasportano in luoghi dal sapore mistico ed esotico. E mentre esplora universi paralleli per noi incontaminati, utilizzando al meglio tutte le potenzialità del suo strumento, il volume in uscita comincia a gracchiare un po’. Lui, immerso nella sua calma, non si perde d’animo e ci scherza su: “Forse agli angeli non piace la mia musica” commenta rivolgendosi al pubblico presente e in pochi minuti tutto torna alla normalità. A questo punto subentra la parte elettronica e si cambia registro.

Le melodie cantate dalla Trikanta Veena, strumento che ci ha davvero sorpreso, si mescolano con i suoni sintetizzati e ne fuoriesce una musica che sembra provenire da un altro pianeta. La tradizione si fonde con la sperimentazione, con il futuro, con delle sonorità che, giusto per darvi un’idea, potrebbero essere uscite da un film come 2001 Odissea nello Spazio. E a questo punto il momento tanto atteso è arrivato. Tofani, che durante il concerto non si è mai alzato in piedi, presenta Ares Tavolazzi al basso, Patrizio Fariselli al pianoforte e tastiere e il batterista Walter Paoli, questa sera ospite dei tre membri degli Area. E con l’entrata di tutti i componenti di questa formazione, la reunion vera e propria comincia con un groove incalzante e con tutta la potenza che da sempre li ha contraddistinti. Dopo un’introduzione della band, Fariselli presenta al pubblico il brano “Sedimentazioni” che non è altro che una sintesi di tutti i brani più rappresentativi del gruppo. L’unico problema è che tutte le composizioni vengono riproposte tutte insieme in una sorta di Big Bang apocalittico e sorprendente. Quindi, dopo un momento lasciato all’ironia, comincia il concerto vero e proprio, fatto di nuove composizioni, tratte dai singoli progetti di ognuno, e dai pezzi più classici del repertorio della band. Ad arricchire la performance ci pensa anche Maria Pia de Vito che sale sul palcoscenico per unirsi al quartetto. Il secondo brano a cui prende parte, secondo quanto ha detto Fariselli sul momento: “Racconta la storia una cometa”. Ora, queste parole, dette in una calda notte ricoperta di stelle, ci hanno fatto pensare, chissà poi perché, a tre re che seguono la loro pista tracciata nel cielo. E il brano, in cui si distingue il suono nitido del sintetizzatore, si risolve in una melodia arabeggiante che ci fa pensare a qualcosa di sacro ed ancestrale. La voce potente di Maria Pia de Vito disegna geometrie perfette e quando la musica diventa più minimale esce fuori con tutta la sua potenza.

C’è anche lo spazio per conoscere qualcosa di nuovo. Il brano successivo, infatti, si intitola “Epitaffio di Seikilos” e si tratta di un omaggio, o se preferite una reinterpretazione, del più antico esempio sopravvissuto di composizione musicale, ritrovato su una lapide in Turchia. Fariselli spiega al pubblico che questa melodia, la più antica a noi pervenuta, è stata dedicata da Seikilos alla moglie defunta. E lui la reinterpreta con leggerezza regalandoci un attimo di intimità e rilassatezza. La fase successiva del concerto è dedicata ai brani del repertorio più conosciuto e non mancano brani come l’Elefante Bianco e in ultimo Gioia e Rivoluzione, che riscalda un pubblico più che mai in estasi. E poi loro sono sempre gli stessi, sembra che il tempo, anche se c’è qualche capello bianco in più, non sia mai passato e l’energia sprigionata dalle loro note è sempre coinvolgente. Per noi, che non abbiamo vissuto quell’epoca, è una fortuna poter vedere una formazione così eclettica capace di mescolare generi, stili e tendenze. Ascoltare dal vivo un brano come Gioia e Rivoluzione non ha potuto che farci sentire dei privilegiati proprio perché ci ha fatto intravedere lo spirito di un’epoca passata, che ha segnato in maniera indelebile le rotte musicali delle generazioni future. E forse era proprio vero che a quell’epoca: “Combattere una battaglia con il suono delle dita” era una cosa possibile.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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Locomotive Jazz Festival 2011 – Report

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6 agosto 2011. Sono da poco passate le due del mattino. Piazza Diaz è deserta. Solo il via vai degli infaticabili del service. Il Locomotive si smonta a pezzi, e si raccoglie con cura materna negli scatoloni che ne conserveranno, dolce, il ricordo, fino all’emozione della prossima edizione. C’è stanchezza, soddisfazione e già un pizzico di nostalgia negli occhi e nel cuore di chi ha partecipato lo spettacolo di Sogliano Cavour. Raffaele Casarano e Alessandro Monteduro sono lì, nel back stage, a regalare l’abbraccio di saluto sincero a chi, con loro, ha vissuto il caleidoscopico viaggio di suoni e colori del Jazz Circus 2011. E il diario di bordo non potrebbe essere più ricco. Bardoscia, Greco, Accardi, i fratelli Casarano, la Severini, Monteduro, Ferra, Di Ienno, Furian, Rubino, Bagnoli, Dalla Porta. E poi Fresu, le sonorità giunoniche di Dudu Manhenga, e ancora Conte, Nunzi, Benedettini, la Porter, il sax sincero di Partipilo e la tromba carismatica di Boltro. La follia trascinante e irriverente di Mototrabasso a fare da spartiacque. Le sue peregrinazioni fantastiche e fantasiose in loop, a bordo del curioso aggeggio metà motocicletta metà contrabbasso. Imprevedibile e geniale. Un circo. E ancora le commistioni forti delFood Sound System, il progetto a firma Don Pasta. Lì con lui ancora Bardoscia, Rollo, Carla e Raffaele Casarano e gli artisti dell’Ècole de Cirque Le Lido, tra acrobazie, giochi e tutti i sapori, gli odori e le voci della cucina salentina. La musica bolle, e lievita uno spettacolo metasensoriale che coinvolge a 360°. L’attesa per il gran finale di venerdì, 5 agosto.

Le armonie accoglienti di Zanisi e del Del Vitto Trio che soffrono la formula del “pre-concertone” e non trovano il giusto spazio d’ascolto, sacrificato dalla distrazione frenetica all’accaparramento del posto: pochi minuti e sarà Gino Paoli a conquistare la scena del Locomotive. Il suo “incontro in jazz” rapisce un pubblico variegato, di jazzofili e non. È il senso più autentico dell’incontro. Chiuso in un ghigno, scontroso e schivo, sembra rinascere sul palco. Rea, Bonaccorso, Boltro e Gatto sono accoglienti, e il progetto riscopre così, nel pregio della formazione, un’eleganza naturale e ipnotica che avvolge e sospende. Sono loro a fare la differenza, impreziosendo le spigolosità, dolci e severe, della voce di Paoli. Buio. Quando si riaccendono le luci sono i colori scalmanati dei Mascarimirì e il graffio di Terron Fabio a scuotere piazza Diaz. Cavallo detta il ritmo e scatena la festa. L’energia risveglia gli animi, ancora agganciati, torpidi, ad un’emozione. Quello che resta. L’emozione. E con lei gli amici del jazz, quelli che ritrovi in giro, per concerti, che vivi entusiasta, nelle storie di un viaggio, che ascolti e comprendi, sempre più intensamente, nell’esperienza rigenerante della musica, che senti negli abbracci sinceri di chi condivide la stessa passione e non ha bisogno di tante parole per raccontarsela. L’emozione del jazz. O, semplicemente, la gioia dell’incontro.

Eliana Augusti

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Jazz Circus…in diretta dal Locomotive Jazz Festival (Sogliano Cavour, 2011)

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2 agosto 2011. Anche per quest’anno il Locomotive Jazz Festival corre su rotaia. Percorre il Salento, scorre nelle vene della Sud Est e suona, jazz. Ultima fermata, Sogliano Cavour, piazza Diaz. Si parte così. Lo spazio intimo per la commemorazione di Matteo Perrone e la sua testimonianza d’amore immortale per la danza e la musica. L’intervento conciliante di Salvatore Vantaggiato (piano) con le divagazioni soft della chitarra di Giuseppe Pica e la partecipazione di Raffaele Casarano al sax. Sono il Free Steps Group, introducono e accompagnano i passi dei giovani danzatori della Arti Degas di Antonio Orlando. Il tempo delle proiezioni a cura di Chiara Idrusa Scrimieri e il Festival cambia faccia. Uno spazio aperto di promozione. My Favorite Records. Tuk Music, e una rassegna di giovani e meno giovani musicisti, prodotti e in produzione dall’etichetta, presentati al pubblico con una formula accattivante e vincente. Marco Bardoscia firma The Dreamer (My Favorite, 2011). Sul palco c’è lui, Marco, con William Greco (piano), Fabio Accardi (batteria) e Raffaele Casarano (sax). Apertura da Real Book conStella by Starlight. Il contrabbasso di Bardoscia si fa hard quando lascia il pizzico per l’archetto. Umori rock. Vivace e ricco il pianismo di Greco. Sostiene energico Accardi. S’insinua Casarano. Ninna nanna per la piccola Sara è un sussurro, e ogni armonico sfiora il cielo. È un abbraccio, caldo, che accoglie e protegge.

 

Delizioso lo scambio con Greco e il suo protagonismo, discreto e raffinato, sempre misurato e dinamicamente suggestivo. Prezioso. Qualcosa da dire. E Bardoscia ci riesce sempre. È un fiume in piena e detta un groove che sale. Corre e scorre. Casarano non dà tregua. È tutto in discesa, ripidissima. C’è sintonia e una naturalezza d’interplay che ha tutto il sapore d’un tempo unico, vissuto in quattro. Un live d’eccezione che supera il disco. Chica y nano, la dolcezza di una bimba e la sua buffa tenerezza in un esotismo avvolgente. Ogni brano ha dentro un pezzo d’anima e un cuore da sogno. E il sognatore, The Dreamer, è lui, Bardoscia, e il racconto commovente, profondo e avvolgente del suo contrabbasso. Complici fedeli il tocco elegante di Greco, le spigolature audaci di Casarano e le intense vibrazioni di Accardi. Ricco. È la volta di Simona Severini (La Belle Vie, My Favorite 2011) e delle sue suggestioni vocali alla francese. Ritorna Greco al piano. La Severini è leggera e la sua voce uno strumento complesso e imprevedibile che si arrampica, cangiante e polimorfo, in uno spazio aereo indefinito. Una libertà di vocalizzo e un controllo totale d’effetto che urta con l’asciutta esposizione dei testi dei brani cantati. Sempre ferma nell’intonazione, e il suo racconto è un punto fermo. La Severini ci ruota intorno, in un vortice da capogiro. Culla di suggestioni per la La Belle Vie, e un silenzio che suona. Un attimo ed è un grido che canta. Gioco di chiaro-scuri e il contrasto traccia, ora libero nel vocalizzo ora costretto dal testo, un percorso emozionale forte e caratterizzato. Aggancia e vibra, ipnotica e magnetica, esplorando con folle audacia, delirante sicurezza e languidi ritorni di lucidità ogni antro espressivo. Rigorosamente senza eccessi. Greco la sostiene, mirabilmente, assecondandone il pensiero, e swinga, personale e morbido. Nuova produzione introdotta da Patrizio Romano. È il Bebo Ferra Circle Trio. Bebo Ferra (chitarra), Gianluca Di Ienno (hammond), Maxx Furian (batteria). L’album in presentazione è Specs People (Tuk, 2011). Si parte con Scuro, a firma Ferra. Assolo di netto, scandito e baloccoso, di Furian. Afferra alla schiena e molla improvviso la presa. La chitarra di Ferra verticalizza, acida, ed elettrizza l’aria nello scambio energico con i drums. Stende l’hammond di Di Ienno. Tinte forti che infiammano e divorano. My English Brother. Atmosfere psichedeliche anni settanta. Lo spazio tra l’hard rock e il jazz è labilissimo e folgorante. Si cambia. Sul palco Dino Rubino (Zenzi, Tuk 2011) al pianoforte. Con lui Stefano Bagnoli (batteria) e Paolino Dalla Porta (contrabbasso). Rubino è allusivo, contenuto, intenzionalmente denso. Il pianoforte lo trattiene e fascia. Mistico il brano di chiusura. Passo lento, stanco, trascinato. Scalda la passione e il tema proposto dal registro grave del contrabbasso di Dalla Porta percorre e raggiunge in eco quello medio del piano. Bagnoli segna. Resta lì con Dalla Porta, e il quartetto si completa con Ferra e Paolo Fresu. Va in scena il Paolo Fresu Devil 4tet. Dagli stilemi consolatori alle urla acide. Sordinata o no, comunque effettata, la tromba di Fresu si riconosce. Bello l’interplay con Ferra e Dalla porta. Bagnoli spazzola. Convulse, frammentate e appuntite le linee dell’artista visivo Orodè Deoro che accompagnano ogni esplorazione sonora. Si chiude. Doppio finale con tutti gli artisti. Rubino rinasce alla tromba. È il jazz circus. Trascinante. E a sipario un suggestivoSummertime dal groove esplosivo. Benvenuti al Locomotive 2011.

Eliana Augusti

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Live Report: alla centrale Montemartini il MAT trio

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Straordinario esempio di come vecchio e nuovo possono convivere insieme in armonia, la Centrale Montemartini, situata a via Ostiense nei pressi di piramide, oltre ad essere una location ricca di fascino, è anche un luogo dove spesso e volentieri si può ascoltare del buon jazz. Parliamo di una centrale termoelettrica inaugurata nel 1912 che da un lato ci fa pensare a come eravamo un po’ di tempo fa, dall’altro ci offre la possibilità di guardare degli esempi più che degni di arte antica. E se il posto che abbiamo avuto modo di visitare lo scorso venerdì ci ha dato modo di fare dei paragoni, se non altro fra due mondi agli antipodi, anche la musica che abbiamo ascoltato ci ha dato modo di arricchirci attraverso un gioco di contrasti, si suoni, di luci e colori. La formazione che è salita su questo palcoscenico è ilMAT trio, acronimo del trio di Marcello Allulli, sax tenore, direttore artistico, compositore e arrangiatore, di cui fanno parte anche il chitarrista Francesco Diodati e il batterista Ermanno Baron

E allora, giusto per darvi un’idea di quello che abbiamo avuto modo di ascoltare (e vedere…) venerdì, possiamo cominciare col dire che la musica, soprattutto quando si parla di jazz, forse è l’unica arte che ha la capacità di deliziare l’udito con delle vibrazioni capaci di addolcire i nostri timpani. Se a questo aggiungiamo che anche i nostri occhi sono rimasti piacevolmente sorpresi da quello che abbiamo visto, forse ben comprenderete che in quella sera, a quella data ora, c’era anche un’alchimia in più rispetto ad un normale concerto. La musica, infatti, è stata sempre accompagnata da immagini video che scorrevano sotto i nostri occhi. Ma non parliamo di semplici riprese, come potrebbero esserlo quelle che guardiamo ogni giorno in Tv, ma di qualcosa che era ben studiato, costruito e a volte creato sul momento. In altre parole una forma d’arte che ne incontra un’altra e la completa dandole una sorta di potere narrativo che forse avrebbe anche da sola, ma non con la stessa potenza e introspezione.

E veniamo alla serata vera e propria. Il brano con cui il MAT trio esordisce è Time, una rivisitazione dell’omonima composizione fuoriuscita dal genio di Tom Waits. E’ un inizio in sordina, malinconico, una maniera dolce per alzare un sipario immaginario superato il quale si è immersi nell’oblio della poesia e della musica. Questo trio inoltre è una formazione atipica, un po’ fuori dagli schemi, che premia il timbro degli strumenti piuttosto che il virtuosismo portato all’eccesso. E mentre il concerto prosegue, le immagini scorrono dandoci a volte una diversa prospettiva di quello che sta accadendo sul palcoscenico. L’ultimo sogno, terzo brano di questa splendida serata, composto dallo stesso Marcello Allulli, è una sorta di crescendo in cui il sassofono a tratti dà sfogo a tutta la sua potenza, a tratti mostra tutta la sua dolcezza. E mentre la musica cresce producendo colori del tutto originali, il video la accompagna riproponendo, attraverso un’altra prospettiva, quello che succede sul palco. Come se fosse una narrazione vista da un’altra angolatura, o una storia che sembra svolgersi in parallelo. Sono immagini distorte della realtà, immagini che sembrano catturate da qualcuno che spia attraverso il buco di una serratura. Non importa se questo avvenga attraverso la ripresa del sax di Marcello, attraverso un piede che batte sulla gran cassa o attraverso delle dita che pizzicano una chitarra. Quello che è importante è, infatti, la visione che ne esce fuori. Come se guardando la stessa cosa da diverse prospettive si riuscissero ad estrapolare un altro racconto, un’altra storia, un’altra parentesi. E il concerto scorre velocemente coinvolgendo anche il pubblico in prima persona.

Altro brano di cui ci piace parlare è senza dubbio Hermanos, title track dell’ultimo lavoro del trio, che Marcello Allulli introduce al pubblico con una spiegazione. Gli “Hermanos” sono i nostri fratelli, quelli che durante un periodo difficile, ovvero l’unità d’Italia, per fame e miseria si sono dati alla macchia diventando i famosi briganti. Sono tutti quelli che per sopravvivere hanno cercato un’altra via e che sono stati accusati di andare contro uno stato che semplicemente li ha resi quelli che sono. E la musica a questo punto diventa una storia, la storia dei nostri bis nonni, la storia di un popolo che ha patito soprusi e miseria, narrata attraverso una melodia semplice, malinconica e popolare. Una storia che magari ci porta con la mente a quei focolari accesi in una foresta, dove si radunano tutti quei fuorilegge che per scacciare la nostalgia di una casa, di una donna, di tutto quello che hanno perduto in una volta sola, cantano insieme in un canto accorato. Insomma, un concerto dai mille volti, arricchito da diverse sfaccettature e visto da diversi punti vista. C’è tempo per una rivisitazione del famoso brano di Fabrizio de André, la canzone di Marinella, c’è tempo anche per ascoltare una piacevole rivisitazione del famosissimo brano Besame Mucho e c’è tempo per coinvolgere il pubblico in un coro a tu per tu con i musicisti. E quello che possiamo dire è che è stata una serata veramente molto intensa, intrisa di musica e contenuti, che forse, da quello che vi abbiamo appena raccontato, vi sembrerà che si sia svolta in una giornata intera, quando invece è durata per poco più di un attimo.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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Live Report: Electric Hot Tuna alla Casa del Jazz

Jorma Kaukonen e Jack Casady, in qualità di membri originari dei Jefferson Airplane, sono stati tra i pionieri del rock psichedelico degli anni 60. Nel 1970 i due hanno dato vita al progetto  Hot Tuna(in origine il nome previsto era “Hot Shit” ma fu la casa discografica ad opporsi) una delle più longeve band di roots-music americana. Dopo i primi quattro leggendari album (a partire dal secondo First Pull Up, Then Pull Down,  del 1971, entrò nella band anche il grandissimo violinista Papa John Creach), seguiti da una separazione e una da reunion negli anni 80, gli Hot Tuna si sono ciclicamente ripresentati alla ribalta in varie formazioni, con la costante presenza dei membri fondatori Casady e Kaukonen. A partire dal 2000 si sono succeduti vari tour sia in versione elettrica che acustica, e l’accento stilistico si è andato via via spostando verso il Country Blues, anche perché  alla line-up si è nel frattempo aggiunto Barry Mitterhoff, virtuoso del mandolino elettrico e vero e proprio veterano di generi quali il Bluegrass.  Quest’anno, con l’uscita di “Steady As She Goes“, primo disco in studio dal 1999,  e con un nuovo tour mondiale, gli Hot Tuna sono tornati a rendere bollenti  i cuori degli appassionati di Vintage Rock. Se infatti il termine vintage si riferisce ad oggetti d’annata con qualità superiori rispetto alle produzioni più moderne, allora gli Hot Tuna sono l’incarnazione vivente di questa definizione.

Il concerto svoltosi giovedì scorso, 21 luglio, al Parco della Casa del Jazz di Roma è iniziato con un’atmosfera assolutamente “relaxed”, come se si stesse assistendo a un’esibizione tra amici, magari in una fattoria di Woodstock, dove (ma guarda caso….) è stato registrato il nuovo album. Grazie all’approccio rilassato e divertito, la band del “Tonno bollente” riesce immediatamente a creare una gradevolissima atmosfera live che ipnotizza il pubblico romano accorso in massa malgrado la superofferta di concerti di questa stranamente fresca estate romana. I tre brani di apertura, “I see the Light” (ballatona country-acida), “Children of Zion” (blues superclassico) e “Wish you would” (sarà piaciuto particolarmente ai fan di Iggy Pop), ci danno la misura di quel che ci attende per il resto della serata: una cavalcata di oltre due ore, durante la quale la band di Kaukonen e Casady passa agevolmente attraverso tutti gli stili che hanno fatto grande la musica moderna Americana, quella con la A maiuscola per intenderci. Blues, Folk, Country, Rock, tutto distillato attraverso il fluido chitarrismo “finger-picking” e la rauca voce di Kaukonen, il basso genialmente semplice e galoppante di Casady, gli arpeggi virtuosi del “Mandolin Hero” Mitterhoff ed il preciso e potente drumming di Abe Fogle. Stupisce la freschezza dell’impatto sonoro, quasi come se invece che a degli ultrasessantenni ci trovassimo di fronte a dei ventenni impegnati nel loro primo tour. Ma le lunghe cavalcate acide dei Tuna  rivelano tutta l’esperienza dei nostri, grandiosi nell’intrecciare trame sonore straordinariamente coinvolgenti. Kaukonen, pelle bruciata dal sole e braccia coperte di tatuaggi, come un vecchio timoniere conduce la platea verso i lisergici deserti californiani di fine anni 60: verso metà concerto si raggiunge uno degli apici, grazie alla cover di un brano dei “compagni di strada lisergica” Grateful Dead (“I Know You Rider“). Ma anche i brani del nuovo album “Steady As She Goes” non sfigurano affatto (una menzione particolare per la quasi byrdsiana “Things That Might Have Been“, inno all’innocenza perduta di un’infanzia americana degli anni ’50, e forse dell’intera nazione). Si chiude con gran parte del pubblico in piedi, che (complici  la birra e gli ottimi cocktail serviti dal Bar della Casa del Jazz?) si mette ad ondeggiare come gli hippy a Woodstock. Gran finale con due brani tratti da America’s Choice, l’album uscito nel 1974: “Funky #7″ e  “Hit Single #1″. Non c’è dubbio: il tonno è ancora bollente!

Raphael Gallus e Francesco Varone

Set list:

I see the light

Children ofZion

Wish you wood

Ode to Billy Dean

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Live report: Shake the jazz a Villa Celimontana

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Shakespeare non l’ha mai fatto, ma Stefania Tallini assieme ad Angela Antonini e Paola Traversoci ha provato, con gran successo. Uno spettacolo interamente declinato al femminile quello di Shake the jazz del 12 luglio a Villa Celimontana; rivisitazione dell’opera shakespiriana Antonio e Cleopatra, abbinata al piano della Tallini, che gli ha conferito un forte carattere jazz. Le note seguono gli umori altalenanti di Cleopatra, l’amore tormentato con Antonio e il turbinio straziante della battaglia. Un adattamento, quello di Paola Traverso e Angela Antonini, che non segue in maniera lineare e cronologica la storia dei due amanti, ma che vuole mettere in risalto, con l’ausilio del piano, l’aspetto più viscerale dei pensieri, delle riflessioni e dei sentimenti dei due protagonisti. La cornice poi è più che suggestiva, e quasi evocativa; un’immersione nel verde di Villa Celimontana, rispecchiato nelle luci soffuse del festival e nel canto delle cicale un po’ ovunque. 

Una raffinatezza che ben si confà alla musicista Stefania Tallini, la quale vanta una brillante carriera artistica nell’ambito del jazz italiano ed europeo. Vincitrice di concorsi importanti sia come pianista che come compositrice-arrangiatrice, ha all’attivo 6 dischi a suo nome, presentati anche in Francia e in Germania: Etoile(Yvp – 2002); New Life (Yvp –2003); Dreams (Alfamusic / Raitrade, 2005); Pasodoble (Sbrocca, 2007); Maresìa(Alfamusic, 2008) e il nuovo The Illusionist (Alfamusic, 2010), in Piano Solo. Tutti i CD presentano musiche interamente scritte e arrangiate dalla pianista. Deutschlandradio Berlin, Radio France e Radio Bremen hanno trasmesso suoi concerti; Radio Tre – in contemporanea con il circuito radiofonico europeo EBU – ha trasmesso in diretta i suoi due concerti (nel 2006 e nel 2008) inseriti nell’ambito dei Concerti Del Quirinale. Sempre al Quirinale è stata ospite per la “Celebrazione Internazionale della Festa della Donna 2008”, alla presenza del Presidente della Repubblica Napolitano. Alcuni suoi brani sono stati registrati da Enrico Pieranunzi: “December Waltz” e “When All Was Chet” e da John Taylor e Diana Torto “Deseo”. Inoltre, un suo brano, “New Life”, è stato inserito nel REAL BOOK ITALIANO.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Live Report: Odio l’estate – da Brescia alla Finlandia

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Odio l’estate nasce come festival giovane, dai musicisti alla direzione artistica, al di fuori delle location più in voga della capitale (si tiene a Villa Carpegna), con la promessa di essere vincente. Ad aprire la rassegna due serate dedicate all’etichetta discografica CAM jazz, con la quale giovedì 7 luglio Fulvio Sigurtà ha presentato il suo ultimo disco House of Cards. L’aria che si respira nella pineta è sicuramente retrò; ci riporta alle estati da bambini, quando la sera si faceva la passeggiata sul lungo mare con tutta la famiglia e ci si fermava sempre in piazza o -appunto- in pineta a prendere un gelato! Le sedie sdraio sparse un po’ ovunque ancor più ce ne ricordano, e sicuramente fanno breccia nel cuore di molti. L’ambiente è raccolto intorno ai tavoli centrali, sui quali si affacciano, oltre al palco, alcuni stand e due chioschi. Più defilata e meno illuminata c’è quella che potrebbe sembrare una zona relax, con altre sdraio su cui la gente è assopita in attesa dell’inizio del concerto. E’ decisamente surreale la commistione tra giovani e cultori del genere, che si dividono gli spazi assieme a famiglie dall’aria “marina”, già inconsuete per Roma stessa. Eppure anche quei signori in bermuda e ciabatte osservano incuriositi i dischi esposti dalla Saint Louis, a fianco di indifferenti bohémien. 

Ai tavoli, oltre a fare molte chiacchiere davanti ad una birra o alla “Vaffancola” (fregio di italianità e controtendenza), si può cenare o farsi tentare dai dolci che ammiccano dalla vetrina del chiosco dei gelati. E’ in questa situazione fortemente popolare, che Sigurtà, assieme ad Achille Succi al sax,Federico Casagrande alla chitarra, Joe Rehmer al basso e Jonas Burgwinkel alla batteria, ci introduce al suo ultimo virtuosismo. Il concerto spazia molto nelle sonorità afro, lasciandosi andare alla fusion e a picchi di pura improvvisazione, con naturalezza e freschezza, senza ridondanze o ostentazioni. Del resto come rimanere delusi dalla “tromba più felice tra le nuove generazioni“! A seguire i finlandesi che hanno fatto innamorare di sé mezza Europa. I Sun Trio (Olavi Louhivuori – batteria, Antti Lötjönen – basso, Kalevi Louhivuori – tromba) tornano, dopo l’esordio con il disco Time Is Now, con un nuovo lavoro: Dream Are True. Dalle trame variegate e affascinanti in piena tradizione scandinava, con spolverate di elettronica, sapienti e mai sopra le righe, che conferiscono colori unici alla tela variopinta e sorprendente di questo gruppo cosmopolita.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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