Jazz Agenda

Live Report: Caterina Palazzi Quartet, Gianluca Petrella e Ipocontrio all’Auditorium

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Era parecchio che mancavamo all’ Auditorium e con nostra sorpresa rimaniamo sempre affascinati da questo posto che rappresenta l’unione perfetta tra architettura e musica. La serata è calda in tutti i sensi e noi ci troviamo qui per seguire la rassegna  “Jammin 2011” organizzata da il Saint Louis College of Music per celebrare i suoi 35 anni di attività. Oggi ci presentano in apertura gli “Ipocontrio” , vincitori nel 2009 del concorso nazionale per i giovani talenti Saint Luis Jazz Contest, gruppo composto da Bruno Salicone al pianoforte, Francesco Galatro al contrabbasso e Armando Luongo alla batteria. In seguito come “portata” principale il Caterina Palazzi Quartetcon un ospite speciale : Gianluca Petrella. Gli ” Ipocontrio” si presentano con una formazione che propone delle sonorità molto piacevoli all’ascolto. Marciano a tempo di swing, l’atmosfera che si respira è quella degli anni ’30, ma non mancano dei momenti di puro stile, tra brani originali e standard jazz eseguiti con estrema facilità e fluidità. Il piano, la batteria e il basso creano un magnifico connubio che ci fa sperare di poterli ascoltare ancora.

Il Caterina Palazzi Quartet è composto da Danielle Di Majo al sax, Giacomo Ancillotto alla chitarra, Caterina Palazzi al contrabbasso e Maurizio Chiavaro alla batteria. Ospite speciale è Gianluca Petrella, trombonista eclettico dalle mille risorse sonore. I brani presentati vengono dall’ultimo lavoro i Caterina Palazzi, “Sudoku Kuller”, una sintesi delle diverse esperienze musicali di questa giovane contrabbassista. Sonorità che passano dal rock e confluiscono nel jazz,  lasciandoci, però, un sapore di originalità e di contemporaneità. Il tutto viene arricchito dall’eclettico Gianluca Petrella capace di inserirsi in questo contesto con una sua rilettura personale. Alla fine del set ci ritroviamo entusiasti di questo progetto e consapevoli della bella realtà musicale che siamo stati fortunati di sentire. Due gruppi molto differenti tra loro ma entrambi con molto da dare. Ascoltateli se vi capita…

foto e articolo di Valentino Lulli

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Live report: Javier Girotto e gli Aires Tango

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Nella serata del 14 agosto, in una Roma quasi deserta, scopriamo con sorpresa una Casa del Jazz quasi piena. La giornata è calda e umida con una splendida luna piena. Con un sottofondo di instancabili cicale aspettiamo tutti quanti l’inizio del concerto. Questa sera suonerà Javier Girotto al sassofono accompagnato dai fedeli Aires Tango. In ordine: Natalino Mangalavite al pianoforte e voce ,Santiago Greco al basso e Martin Bruhn alla batteria e voce.  Tutti i musicisti sono di Cordoba, Argentina, paese di nascita di Javier Girotto, e presentano un disco dal titolo Alrededores de la Ausencià, disco dedicato ai 30.000 desaparecidos argentini scomparsi tra il 1967 e il 1983 durante la dittatura militare.  Appena iniziano a suonare veniamo trascinati in Argentina, le sonorità e i ritmi ci ricordano, la samba e il tango si fondono con il jazz. Girotto suona  e si avvinghia al suo sax lasciando trasparire le proprie sensazioni ma non vuole dominare la scena e lascia spesso spazio a gli altri musicisti. Martin Bruhn  il batterista , si lascia andare a ritmi di samba, mentre Natalino Mangalavite esegue soli di piano alternati da splenditi pezzi cantati, alcuni dei quali estremamente emozionali.

La gente applaude e alcuni ballano anche. Durante le pause Girotto racconta aneddoti sui musicisti, scherza e ride. Tutto ci lascia in bocca un sapore conviviale e allegro tipico della gente sud-americana. Il concerto si chiude tra un fragoroso applauso e avviandoci verso casa non riusciamo a resistere alla tentazione di battere le mani al ritmo si samba o canticchiare qualche melodia rimasta che questa splendida serata ci ha lasciato impressa.

Valentino Lulli

Foto di Valentino Lulli

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Live Report: alla centrale Montemartini il MAT trio

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Straordinario esempio di come vecchio e nuovo possono convivere insieme in armonia, la Centrale Montemartini, situata a via Ostiense nei pressi di piramide, oltre ad essere una location ricca di fascino, è anche un luogo dove spesso e volentieri si può ascoltare del buon jazz. Parliamo di una centrale termoelettrica inaugurata nel 1912 che da un lato ci fa pensare a come eravamo un po’ di tempo fa, dall’altro ci offre la possibilità di guardare degli esempi più che degni di arte antica. E se il posto che abbiamo avuto modo di visitare lo scorso venerdì ci ha dato modo di fare dei paragoni, se non altro fra due mondi agli antipodi, anche la musica che abbiamo ascoltato ci ha dato modo di arricchirci attraverso un gioco di contrasti, si suoni, di luci e colori. La formazione che è salita su questo palcoscenico è ilMAT trio, acronimo del trio di Marcello Allulli, sax tenore, direttore artistico, compositore e arrangiatore, di cui fanno parte anche il chitarrista Francesco Diodati e il batterista Ermanno Baron

E allora, giusto per darvi un’idea di quello che abbiamo avuto modo di ascoltare (e vedere…) venerdì, possiamo cominciare col dire che la musica, soprattutto quando si parla di jazz, forse è l’unica arte che ha la capacità di deliziare l’udito con delle vibrazioni capaci di addolcire i nostri timpani. Se a questo aggiungiamo che anche i nostri occhi sono rimasti piacevolmente sorpresi da quello che abbiamo visto, forse ben comprenderete che in quella sera, a quella data ora, c’era anche un’alchimia in più rispetto ad un normale concerto. La musica, infatti, è stata sempre accompagnata da immagini video che scorrevano sotto i nostri occhi. Ma non parliamo di semplici riprese, come potrebbero esserlo quelle che guardiamo ogni giorno in Tv, ma di qualcosa che era ben studiato, costruito e a volte creato sul momento. In altre parole una forma d’arte che ne incontra un’altra e la completa dandole una sorta di potere narrativo che forse avrebbe anche da sola, ma non con la stessa potenza e introspezione.

E veniamo alla serata vera e propria. Il brano con cui il MAT trio esordisce è Time, una rivisitazione dell’omonima composizione fuoriuscita dal genio di Tom Waits. E’ un inizio in sordina, malinconico, una maniera dolce per alzare un sipario immaginario superato il quale si è immersi nell’oblio della poesia e della musica. Questo trio inoltre è una formazione atipica, un po’ fuori dagli schemi, che premia il timbro degli strumenti piuttosto che il virtuosismo portato all’eccesso. E mentre il concerto prosegue, le immagini scorrono dandoci a volte una diversa prospettiva di quello che sta accadendo sul palcoscenico. L’ultimo sogno, terzo brano di questa splendida serata, composto dallo stesso Marcello Allulli, è una sorta di crescendo in cui il sassofono a tratti dà sfogo a tutta la sua potenza, a tratti mostra tutta la sua dolcezza. E mentre la musica cresce producendo colori del tutto originali, il video la accompagna riproponendo, attraverso un’altra prospettiva, quello che succede sul palco. Come se fosse una narrazione vista da un’altra angolatura, o una storia che sembra svolgersi in parallelo. Sono immagini distorte della realtà, immagini che sembrano catturate da qualcuno che spia attraverso il buco di una serratura. Non importa se questo avvenga attraverso la ripresa del sax di Marcello, attraverso un piede che batte sulla gran cassa o attraverso delle dita che pizzicano una chitarra. Quello che è importante è, infatti, la visione che ne esce fuori. Come se guardando la stessa cosa da diverse prospettive si riuscissero ad estrapolare un altro racconto, un’altra storia, un’altra parentesi. E il concerto scorre velocemente coinvolgendo anche il pubblico in prima persona.

Altro brano di cui ci piace parlare è senza dubbio Hermanos, title track dell’ultimo lavoro del trio, che Marcello Allulli introduce al pubblico con una spiegazione. Gli “Hermanos” sono i nostri fratelli, quelli che durante un periodo difficile, ovvero l’unità d’Italia, per fame e miseria si sono dati alla macchia diventando i famosi briganti. Sono tutti quelli che per sopravvivere hanno cercato un’altra via e che sono stati accusati di andare contro uno stato che semplicemente li ha resi quelli che sono. E la musica a questo punto diventa una storia, la storia dei nostri bis nonni, la storia di un popolo che ha patito soprusi e miseria, narrata attraverso una melodia semplice, malinconica e popolare. Una storia che magari ci porta con la mente a quei focolari accesi in una foresta, dove si radunano tutti quei fuorilegge che per scacciare la nostalgia di una casa, di una donna, di tutto quello che hanno perduto in una volta sola, cantano insieme in un canto accorato. Insomma, un concerto dai mille volti, arricchito da diverse sfaccettature e visto da diversi punti vista. C’è tempo per una rivisitazione del famoso brano di Fabrizio de André, la canzone di Marinella, c’è tempo anche per ascoltare una piacevole rivisitazione del famosissimo brano Besame Mucho e c’è tempo per coinvolgere il pubblico in un coro a tu per tu con i musicisti. E quello che possiamo dire è che è stata una serata veramente molto intensa, intrisa di musica e contenuti, che forse, da quello che vi abbiamo appena raccontato, vi sembrerà che si sia svolta in una giornata intera, quando invece è durata per poco più di un attimo.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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Live Report: Vito Favara presenta Even If al Be Bop Jazz Club

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Di giovani talenti che meriterebbero di avere maggiore spazio nel panorama jazzistico capitolino ce ne sono davvero tanti. Fra questi abbiamo il piacere di segnalarvi un giovane musicista siciliano, ormai trapiantato a Roma da un bel po’ di tempo, dal nome Vito Favara. Un pianista originale e virtuoso che venerdì scorso abbiamo avuto modo di ascoltare nel rinnovato Be Bop, un luogo centrale per il jazz romano che dà anche molto spazio ai giovani talenti che forse meriterebbero più attenzione. Ad accompagnare questo ragazzo siciliano, che armato di tanta passione ha girato l’Europa per poi trapiantarsi nella nostra città, c’erano due veterani del Jazz romano: Francesco Puglisi al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria. Dunque, un trio, la formazione che per eccellenza mette in risalto le potenzialità del pianoforte e che attraverso l’essenzialità, secondo noi, raggiunge la perfezione e la giusta stabilità fra ritmo e melodia.

E il concerto comincia sotto le note di “Even If” title track di un album che un orgoglioso Vito Favara ha presentato la sera stessa al pubblico presente. In questo brano, che ha dato il via ad un concerto veramente molto piacevole, abbiamo avuto modo di ascoltare come un giovane musicista, che di talento ne ha da vendere, riesca a giocare con questo strumento, passando dalle costruzioni armoniche, fatte da accordi ascendenti e discendenti, ad assoli velocissimi e musicali. E forse sta proprio qui l’originalità di Vito Favara, nel saper giocare con questo strumento, nel non prendersi troppo sul serio e nel divertirsi a cambiare l’intensità del brano che viene suonato, in questo caso di chiara matrice Even 8. Ma se un concerto comincia in un modo, non è detto che non sia possibile cambiare registro. E così c’è anche il tempo per uno standard, ‘Il Fascio Blues’ che ci fa viaggiare per un po’ nelle atmosfere degli anni ‘50 a tempo di swing. Un ritmo incalzante, divertente, a tratti arrembante, che ci fa pensare alle pellicole in bianco e nero e al fascino di un’epoca che ci ha lasciato un retaggio musicale davvero importante.

Ma sono i pezzi originali quelli più intriganti della serata. Nella composizione Peace for Peace, il brano che senza dubbio ci ha colpito di più, esce fuori tutta l’originalità del Vito Favara compositore. Un brano malinconico, dal sapore (secondo noi) latineggiante in cui spicca la sensibilità di un musicista attento (e brillante allo stesso tempo) e in cui c’è anche il tempo per invertire un po’ le carte in tavola. Per un breve istante, infatti, mentre il contrabbasso esce fuori tenendo la linea melodica, il pianoforte fa da supporto armonico, generando una piacevole sensazione di intimità e rilassatezza. E prima che finisca il primo set c’è anche il tempo ascoltare un brano in ¾, White Flowers, in cui la pulsazione della batteria viene accompagnata da assoli velocissimi e da rapide armonizzazioni. A fotografare l’attimo ci pensa la luce del locale che piano piano si abbassa generando un’atmosfera calda e accogliente che ben accompagna il brano che conclude questa prima sessione del concerto.

Il secondo set prosegue sempre con la stessa filosofia, dando ai singoli lo spazio che meritano, e offendo al pubblico presente tutta la passionalità e la raffinatezza che, unite al giusto tocco musicale, trasmettono emozione e voglia di stupire. E il concerto scorre veloce, leggero e intimo, fino all’ultima immagine che il pianoforte di Vito Favara disegna davanti ai nostri occhi, rendendoci contenti di aver potuto osservare dal vivo un pianista che sicuramente troverà il giusto spazio nel panorama capitolino.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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Live Report: La varietà dei jazz4U al 28divino

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La sera di venerdì al 28Divino Jazz si caratterizza per la forte componente di “varietà”. Vario è il pubblico, varie sono le melodie proposte e varia è la scelta dei brani. Ci troviamo di fronte ai “jazz 4U” diretti dalla batteria di Cesare Botta, il delicato contrabbasso di Enzo Bacchiocchi, armonizzati dal piano di Francesco Bignami e dalla chitarra di Marco Moro. Il gruppo è ormai noto sulle scene romane da alcuni anni e propone una scelta musicale basata su una mistione di standard jazz, condito con blues e swing. Il concerto si apre con atmosfere leggere e riflessive che portano l’ascoltatore a concentrarsi su ogni singolo membro del gruppo, ad essere rapito dal movimento armonico delle dita sulla tastiera, dalla rapidità degli accordi della chitarra, mentre la batteria rimane la base sulla quale il contrabbasso muove la sua sinfonia. 

Durante la serata la varietà delle scelte geografiche è sicuramente molto accattivante e rapisce l’attenzione. I brani spaziano dai classici del panorama americano fino a giungere alle melodie sud americane e brasiliane, il tutto accompagnato da una selezione di brani inediti del gruppo, che mettono in risalto le qualità dei singoli elementi. L’aria che si respira è molto piacevole e non ci si accorge del tempo che passa. In chiusura il gruppo si congeda con il noto brano “ooo aria aio oba oba” e si presta volentieri a parlare con il pubblico, mostrando il lato più familiare della serata. Quello che stupisce di questo quartetto è sicuramente la totale armonia degli elementi; sul palco sembrano divertirsi talmente tanto che lo spettatore rimane coinvolto non solo dai suoni, ma anche dall’affiatamento tra gli elementi. Inoltre il locale si presta benissimo ad un’atmosfera raccolta e familiare: luci soffuse e di colore rosso rendono il tutto molto privato e intimo, nonostante la sala del concerto non sia poi di dimensioni così modeste. Ci auguriamo di sentire nuovamente questo spontaneo quartetto in serate così piacevoli!

Laura Orlandi           

Foto di Valentino Lulli

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Live Report: Lorenzo Tucci Trio – un esordio al Music Inn

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Seguire un concerto in un jazz club è sempre un’esperienza particolare. C’è sempre una forte intimità (o empatia se preferite) fra pubblico e musicisti e c’è sempre l’occasione di osservare tante cose che in un altro tipo di locale sarebbe più difficile notare. Dai semplici sguardi di intesa che potrebbero scambiarsi un bassista e un pianista prima di passare da un assolo al tema principale, dai sussurri con cui alcuni musicisti accompagnano il suono dello strumento, dalle contrazioni dei muscoli che avvengono quando un batterista percuote il suo strumento. Questa atmosfera l’abbiamo percepita in pieno sabato scorso alMusic Inn, storico locale di Roma che, con nostra grande gioia, ha da poco riaperto i battenti.

E nella serata di cui vi stiamo per parlare, in questa splendida cornice situata nel centro di Roma, hanno suonato dei giovani musicisti che, armati di tanto talento e voglia di fare, hanno voluto cimentarsi con uno dei mostri sacri del Jazz, John Coltrane. Il progetto si chiama per l’appunto Tranety, un gioco di parole che deriva proprio da Trane, soprannome che gli amici davano a questo sassofonista geniale. E i musicisti di cui vi stiamo per parlare, invece, sono tre: Lorenzo Tucci, batterista e leader di questa formazione, Claudio Filippini al pianoforte e Luca Bulgarelli al contrabbasso, tutti giovanissimi, affiatati e ansiosi di cimentarsi in un progetto così coraggioso affidandosi proprio ad un trio, formazione essenziale, ma perfetta ed autosufficiente.

Insomma, un tuffo nell’universo di Coltrane! Così possiamo descrivere un concerto che fin dai primi brani ci ha fatto capire lo stile deciso con cui Lorenzo Tucci e il suo trio hanno affrontato la serata. Un’empatia perfetta che abbiamo compreso fin da subito grazie al ritmo incalzante, alla velocità di esecuzione, alla sincronia perfetta con cui sono stati riproposti brani come Moment’s Notice, Lonnie’s Lament, oppure Afro Blue, scritto da Mongo Santamaria, suonato spesso da Coltrane e riprodotto in maniera eccellente con ampio spazio all’improvvisazione. C’è tempo anche per alcuni brani inediti di Lorenzo Tucci, come Hope e Soltice e per una struggente Ivre in Paris di Claudio Filippini; c’è tempo anche per ascoltare un gioiellino come Over The Rain e per raccontare la storia di John Coltrane con musica e parole.

Ascoltando Cousin Mary, infatti, brano che il sassofonista ha dedicato alla cugina e che Lorenzo Tucci ha presentato personalmente al pubblico, noi, con un po’ di fantasia, ci siamo immaginati un ragazzo tenace seduto su uno sgabello con davanti uno spartito aperto. Un ragazzo che studia fino a tarda sera e che vuole a tutti i costi suonare davanti ad un pubblico che prima o poi lo adorerà, proprio come il trio di Lorenzo Tucci che di voglia di stare su di un palcoscenico ne ha veramente tanta. E forse questa musica martellante che sembra non fermarsi mai, che sfocia nell’improvvisazione e che si risolve spesso in ritmi incalzanti e sincopati, per un momento ci ha trasportato con la mente da un’altra parte, in un’altra epoca, o in un altro continente… Magari quando John Coltrane suonava nei locali più in dell’epoca deliziando il pubblico con quello stile innovativo che tutti gli amanti del Jazz a posteriori ricorderanno per sempre.

Carlo Cammarella  

Foto di Valentino Lulli

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Il Jazz fra due mondi – intervista a Lucio Ferrara

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E’ un progetto dal chiaro sapore internazionale quello che abbiamo avuto modo di ascoltare ieri alla Casa del Jazz, un disco che racchiude anni di viaggi e di lavoro ricchi di entusiasmo. Parliamo dell’ultimo lavoro del chitarrista Lucio Ferrara, “It’s all right with me”, presentato ieri in una delle location più belle della capitale. Insieme a lui c’erano Nicola Angelucci (batteria) e Luca Mannutza(hammond) due musicisti che Lucio conosce bene, con i quali ha condiviso molte esperienze e che hanno preso parte ad un progetto cominciato dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti. Dunque, un disco a cui hanno partecipato, oltre ai nomi appena citati, artisti come Lee Konitz, Antonio Ciacca, Ulysses Owens, Kengo Nakamura e Yasushi Nakamura. Lucio Ferrara ci ha raccontato in prima persona questa esperienza.

Lucio, per cominciare volevo parlare dalla genesi di questo progetto: “It’s All Roght with me”. Come mai è stato registrato luoghi diversi, tra Sorrento, Roma e lo stato del New Jersey?

“Diciamo che non c’è un motivo preciso. Quello che ho scelto sono state le formazioni con cui preferisco sonare come il quartetto con pianoforte, il trio con lo hammond e il quintetto con il sassofono. La scelta vera e propria è stata l’idea di registrare un disco a New York, ma alla fine ho preferito aggiungere due brani con due musicisti, Nicola Angelucci e Luca Mannutza, con cui sono tutto l’anno. Con loro c’è un vero e proprio rapporto di amicizia perché ci vediamo continuamente, mentre le esperienze con i musicisti americani sono momenti occasionali in cui ci si incontra una volta all’anno a New York”.

Quindi, potremmo dire che in questo progetto c’è un’anima internazionale?
Esattamente, diciamo che in questo progetto viene fuori questa mia internazionalità legata ai rapporti di lavoro e ai viaggi continui. E’ un aspetto che effettivamente rappresenta gli ultimi anni della mia carriera.

E il titolo di questo tuo progetto è forse legato ad un tuo stato d’animo particolare?
“Sicuramente è legato a quella positività che incontro quando lavoro con gli american negli Stati Uniti e a quell’incoraggiamento che loro hanno verso la vita. Questo progetto rappresenta tutta quella positività che sento quando vado in questo paese. E’ un momento in cui sento un’altra aria e in cui respiro in un altro ambiente. Con questo titolo ho cercato di descrivere apertamente questo stato d’animo”.

Il fatto di non avere una formazione stabile è forse legato al fatto di considerare la musica come qualcosa in continuo cambiamento?
“Si, sicuramente c’è il vantaggio di suonare con diversi musicisti e di scoprire come la musica viene fuori in maniera sempre differente. Ovviamente la cosa ideale sarebbe quella di suonare con una band fissa con cui lavorare per tutta la vita perché soltanto in questo modo raggiungi un Interplay unico, però ci sono anche gli aspetti legati alle novità. Suonando con diverse persone Impari da tutti e collezioni esperienze che ti aiutano a crescere”.

Quindi, potremmo dire che l’approccio con i musicisti con cui suoni è legato proprio al concetto di Interplay?
“Credo di si, io lo vivo così. Il mio modo di suonare dipende anche dagli altri musicisti, dagli imput continui che mi trasmettono e dal continuo sviluppo del l’idea di Interplay”.

E il fatto di aver viaggiato tanto quanto può avere influito sulla tua musica?
“Sicuramente ha influito tantissimo. Viaggiare è fondamentale perché a un certo punto, quando pensi di sapere tutto, scopri che ci sono delle novità. Per crescere hai bisogno di cercare sempre nuove esperienze”.

E se dovessimo fare un parallelismo fra un’esperienza dal vivo in America ed una in Italia…
“Diciamo che il pubblico americano in generale è molto entusiasta e senti la sua presenza continuamente. E’ un pubblico attento che conosce bene la storia del jazz e al quale non hai bisogno di spiegare la musica che suoni. Quando ti esprimi con un bambino usi un determinato linguaggio e quando ti trovi in America è come se parlassi ad un adulto che ti capisce bene”.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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Live Report: Free Ambient Trio al Manhattan

Domenica, 3 aprile 2011. Roma. Si apre il sipario del Teatro Manhattan. Sul palco, ancora una volta protagonista è il Free Ambient Trio. Leonardo De Rose al contrabbasso, Piertomas Dell’Erba al sassofono tenore e Simone Porcelli ai sintetizzatori presentano Live in Manhattan, Live in Rome, l’ambizioso progetto di concezione ambient jazz registrato lo scorso 12 dicembre, sempre al Manhattan di Roma. La difficoltà di riconoscere i singoli brani di un album nato dall’eclettismo e dalla sinergia improvvisatrice di tre musicisti profondamente diversi per temperamento e percorso artistico esiste, e non è il caso di farne mistero. Tutto è dichiarato, quasi confessato, nella scelta indovinatissima di partecipare l’ascolto col pubblico. Ed è Dell’Erba a rompere il ghiaccio, a interrompere la recita e a guidare, con tono disinvolto, arguto e ironico, quell’ascolto che si riscopre, appena un attimo dopo, consapevole e piacevolmente nuovo.

foto di Laura Belli

Tre personalità, tre universi molto diversi: ordinato e misuratamente eccentrico quello di De Rose, magnetico e vulcanicamente geniale quello di Dell’Erba, pacificante e parsimonioso quando sorprendentemente spinto quello di Porcelli. Tre anime differenti che si incontrano nel Free Ambient Trio, si inseguono, si sovrappongono, si contrastano, per raccontare, ogni volta e in maniera diversa, quel: «Cosmo fatto di interazioni», percezioni e descrizioni, confida Dell’Erba, «quella strada senza rete dove non c’è altra salvezza di arrivare a meta che nell’ascolto reciproco». Una narrazione di immagini sonore: «dove non si sa dove si va, ma dove si sa che si può andare dove si vuole, con l’obiettivo di non ripetersi, e lasciare tutto all’interazione del momento», svela De Rose. “Intentional-improvisation”, definirei la deliziosa aporia suggerita dal Trio: un’improvvisazione che colma e farcisce di dettagli esclusivi e cangianti i suggestivi titoli proposti da Dell’Erba, stimolanti e puntuali note a margine di un ascolto che funziona come un’istantanea.

Si parte con Psicodramma: suoni che portano lontano, contrastandosi in un continuo gioco di luci e specchi. Molto ricercati gli effetti. Quindi, è la volta di Le tragicomiche vicende dell’orgoglio, un racconto irriverente che emerge subito per il suo carattere dinamico, imposto dal contrabbasso ritmico di De Rose e dai ricchi synth di Porcelli, acquosi. L’elettronica la fa da padrona, mentre i suoni acustici del sax e del contrabbasso trasmutano, dalle vesti intonate a quelle ritmiche e onomatopeiche, creando situazioni percettive complesse e ipnotiche. Isterico e dolce il pensiero di Dell’Erba, per nulla imbarazzato nelle sue divagazioni free dal contrabbasso riflessivo di De Rose. Tutto è, in due parole, straordinariamente coerente. Cambia il passo. World in Manhattan, World in Rome scimmiotta il titolo dell’album. Bello il swing, gustoso e ricercato. Un pezzo corale che conquista. Lo spazio tra acustica ed elettronica quasi scompare. Sublime irrompe d’improvviso, tagliando il silenzio. Mistici i synth di Porcelli. Quasi commovente il contrabbasso di De Rose che riesce a sorprenderti quando, a un certo punto, rivolta lo strumento per regalare al brano, in un momento percussivamente intenso, pulsante, tutto il protagonismo del tempo. Piacevoli le suggestioni world music. With all my soul, già traccia dell’album MacroMicrocosmi (2010) a firma Dell’Erba-Porcelli, è riproposta in una nuova forma. Il tema è lo stesso, ma si coglie appena, tanta è la ricchezza creativa dei synth. Nuove e accattivanti le proposte di dialogo: da una parte le sapienti imbastiture del contrabbasso, dall’altra i fili luminosi, ora distesi ora arruffati di un sax mai così lirico.

A impreziosire la performance, la presenza eccezionale dell’artista visivo Andrea Costingo e dei suoi Puppets che compaiono nel videoclip ufficiale di presentazione dell’album. Geniale.

Eliana Augusti

foto di Eliana Augusti e Laura Belli

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Live Report: Al BeBop, tra “Giazz” e cultura italiana

Quello a cui abbiamo avuto modo di partecipare domenica scorsa al BeBop, è stato il battesimo di un nuovo progetto musicale nato dall’estro di Daniele Chiusaroli. Giazz Quartet (questo il nome della formazione che abbiamo avuto il piacere di ascoltare) ripropone, infatti, i pezzi più belli del cantautorato italiano in chiave jazzistica, attraverso la splendida voce di Isabella Nicoletti e le note di Andrea Pagani (sostituto di Mauro Scardini) al piano, Francesco De Palma al contrabbasso e Daniele Chiusaroli alla batteria. Il repertorio attinge a piene mani nei grandi classici, come: Non arrossire di Gaber, Prendila così di Battisti, Parole Parole di Mina, Ma l’amore no dell’attrice Alida Valli, Senza finedi Gino Paoli, Pinguino innamorato del Trio Loscano e molte altre. “Il jazz per chi lo suona è una passione straordinaria – ci spiega Daniele Chiusaroli – ma la cosa più importante è trovare il giusto modo di esprimersi. Proporre il cantautorato italiano vuol dire trovarsi di fronte a tavoli pieni di gente che canta la tua musica. È come se noi andassimo a prendere il linguaggio italiano e lo traducessimo in linguaggio jazzistico, creando un ponte tra il jazz e la cultura italiana.”

Si è cercato di abbracciare i cantautori più importanti – ci racconta, invece, Isabella Nicoletti – provando a ripercorrere la storia della musica italiana d’autore. Il motivo di un progetto del genere è il fatto che, personaggi come Nicola Arigliano, hanno portato il jazz in Italia, ed i brani in italiano sono un buon modo per avvicinare la gente al genere e di  renderla più partecipe durante il concerto.” La cantante del gruppo, infatti, con la sua grazia e delicatezza nella voce riesce effettivamente a far presa sul pubblico. Riesce bene sia in pezzi prettamente “maschili” sia nel paragone con le grandi voci femminili del secolo scorso, non risultando affatto statica.  La sua figura femminile padroneggia, ma in modo discreto, nel gruppo; risulta eterea. Nota distintiva della serata è quindi l’eleganza, in ogni sua forma. Il pubblico risponde in maniera entusiasta, canticchiando e muovendosi sulle sedie a tempo di musica. Neppure i ricchi piatti che scorrono sotto i loro occhi riescono ad incanalare l’attenzione abbastanza da distrarli dall’ascolto; e gli schermi posizionati negli angoli del locale con meno visibilità, aiutano i ritardatari a seguire il concerto senza problemi. L’intento si può perciò dire abbia avuto un successo conclamato!

Serena Marincolo

Foto di Valentino Lulli

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“Back in Rome” si riunisce al 28divino


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Back in Rome” non è soltanto il nome di un quartetto, ma un vero e proprio appuntamento tra amici che dopo tanto tempo si ritrovano per suonare insieme. Un ‘occasione resa possibile grazie al rientro a Roma del contrabbassista Fabrizio Cecca, residente a Parigi da tempo, che insieme agli altri membri del quartetto, venerdì scorso, è salito sul palco del 28divino. Di lui possiamo dire che è attivo sulla scena musicale fin dai primi anni ’70 al fianco di musicisti come Nicola Stilo, Francesco De Gregori, Mimmo Locasciulli e Sergio Caputo. Proseguiamo dicendoche a metà degli anni ’90 fa parte della Big Band della scuola popolare di musica di Testaccio e che dal 2005 fonda un proprio gruppo, “Sextet Machine”, che esegue le sue composizioni. Vincenzo Lucarelli, ,pianista del gruppo, studia alla Manhattan School of Music di New York dove ha la possibilità di suonare in numerosi locali con musicisti affermati della scena newyorkese. Tornato a Roma nel 2003, incide il suo primo disco New Cycle Mood e dal 2004 ha la possibilità di farsi conoscere e apprezzare a livello internazionale in diversi festival ed eventi. Massimiliano de Lucia, alla batteria,comincia la sua esperienza nel mondo della musica suonando con gruppi che gravitano nell’ambito della musica pop-rock. Nel 1991 si trasferisce a New York per approfondire il linguaggio della musica latino americana e jazz, diplomandosi presso il Drummer’s Collective. Una volta tornato in Italia, collabora sia in studio che dal vivo con musicisti italiani e americani, svolgendo una intensa attività concertistica su tutto il territorio nazionale. Nel 2003 registra il CD del sassofonista Paolo Cerrone “For a Trip” e adesso suona stabilmente nel trio della pianista Silvia Manco. Come ospite, ormai habitués, troviamo Francesco Lento alla tromba. 

Come dicevamo, ad ospitare questi 4 musicisti, ci ha pensato il 28divino, che con la sua impeccabile accoglienza ha trasformato la serata in un momento di scambio culturale e di piacevole ascolto. E infatti, ciò che ci ha stupito maggiormente della musica di questo quartetto, è stata la commistione di età e di caratteri, quasi a voler rimarcare che la musica, e in questo caso il jazz, non ha “tempo”. Non a caso il repertorio che abbiamo ascoltato, anche se principalmente basato su standard jazz di Charlie ParkerDizzy Gillespie, si lascia influenzare dalla bossanova, dal  blues, dal bebop, mantenendo una costante vena swing. Per non scadere nello scontato e dare movimento ai brani stessi, il quartetto ha proposto delle rivisitazioni di alcune ballad in chiave swing, dove la tromba, che funge da “voce” solista del gruppo, genera un’ impronta del tutto particolare. E sono proprio la tromba ed il pianoforte gli strumenti che innescano un gioco di “botta e risposta” che rende lo scorrere dei brani trascinante, simbolo di un ottimo affiatamento. Non c’è bisogno che gli artisti parlino o che ci spieghino quali territori della musica stiano esplorando mentre si trovano lì sul palco, perché il loro esperimento musicale si spiega benissimo da solo. E a noi non resta che chiederci: a quando la prossima reunion?

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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