Jazz Agenda

Jasmine Tommaso: intervista ad una promessa del jazz (e non solo)

Il secondo appuntamento di Jazz New Generation, la rubrica dedicata ai giovani talenti del Jazz,  è dedicato ad una “figlia d’arte”: Jasmine Tommaso. Nata a Roma il 10 Novembre del 1986, comincia sin da piccola ad avere una forte passione per il teatro; prende lezioni di ballo e pianoforte nella scuola di danza e musica della madre (la coreografa Kelly Morris) e soltanto in seguito si dedicherà al canto, che impara quasi per gioco. Studia con Catia di Stefano gli standard jazz (e Spice!) appassionandosi al genere e in seguito, dopo essersi trasferita in America, studia alla South Orange Country School of the Arts, dove si dedica soprattutto ai musical. Studia teatro all’università di Santa Cruz e, una volta laureata, torna in Italia pronta a lavorare seriamente in ambito musicale. Jasmine ha risposto volentieri alle nostre domande.

Jasmine, quanto ha influito la figura di tuo padre nelle tue scelte a livello musicale?

Non troppo. Ho iniziato a cantare per mia scelta. Inizialmente mi sono avvicinata agli standard jazz perché erano sicuramente più accessibili. Ti davano la possibilità di seguire la struttura della canzone ma si prestavano comunque molto bene all’improvvisazione. E dopo che mi ha ascoltata mio padre, ha deciso di prendermi sotto la sua ala, se così si può dire, e mi ha lasciato cantare durante alcune delle sue serate. In questi casi lo prendevo un po’ come un gioco.

Quindi, qual è stato il tuo percorso “sul campo”?

Inizialmente sono stata più che altro “ospite” di mio padre: all’Alexander Platz e ai Musei Capitolini, ad esempio. Nel 2008 ho cantato un pezzo durante la serata in onore dei 50 anni di carriera di papà all’Auditorium. Di mio, invece, ho partecipato alla rassegna Giovani Titani a Villa Celimontana. È stata la prima volta in cui sono stata leader di una band! Poi ho suonato al Selinunte Jazz Festivaled ora sono tre anni che suono all’Auditorium per la rassegna Insieme Per Il Cuore.

So che sei stata recentemente impegnata con l’evento Lucca Jazz Donna!

Si, è la terza volta che collaboro con loro, ma solo la seconda come presentatrice. La prima volta partecipai come cantante.

Ce ne parleresti?

È un evento che dà spazio ad artiste internazionali, non solo italiane. Che sia al femminile è sicuramente una cosa ottima, dato che spesso determinati generi o strumenti vengono rapportati prettamente a figure maschili. Del resto credo che nel 2011 non dovrebbe esserci più bisogno di sottolineare il genere di appartenenza per poter ricevere uno spazio dedicato. Dovrebbero essere dei concetti già superati.

Altro impegno attuale è la creazione del tuo nuovo disco, giusto?

Giuro che sogno un’esperienza del genere da quando sono bambina! Purtroppo la mia conoscenza del pianoforte non è massima, quindi spesso vado a tentativi. Col tempo, però, sono riuscita a sedermici davanti e a tirare fuori, quasi giocando, delle cose che sento mie. Parto sempre da qualcosa che mi cattura e da lì creo la base per scrivere poi la musica, i testi e tutto il resto. In ogni caso, vivo la composizione come un momento molto personale che affronto con me stessa e il piano, come se scrivessi in un diario. È nato tutto molto organicamente, senza pensare troppo alla “scelta” di una cosa piuttosto che un’altra. L’anno scorso, poco dopo il mio compleanno, ho scritto la mia prima canzone e adesso ho 9 pezzi pronti. E’ probabile che inserisca delle cover, ma non ho deciso quali!

Ovviamente, filo conduttore sarà il jazz?

E invece no! Sto facendo qualcosa di completamente diverso. Non ti nego che il mio primo pensiero è stato: “Oddio, mio padre cosa penserà di me!”. Poi man mano che vedevo costruirsi davanti a me i vari brani mi sono rispecchiata molto nel lavoro che stavo facendo. È qualcosa che mi appartiene totalmente e che esprime quello che sento; proprio per questo mi viene difficile categorizzarlo in un genere! Se proprio dovessi farlo direi un “pop sofisticato”, con forti vene indi e blues. La conferma del mio buon operato e della mia grande soddisfazione è stata l’approvazione di mio padre che mi ha incoraggiata molto a continuare. È stato lui a propormi di fare delle demo da portare ad un produttore per far sì che questo mio sogno si concretizzasse.

Hai già in mente una data di uscita?

Non ancora, perchè l’iter è un po’ particolare. Adesso sto lavorando per mettere insieme questi pezzi già finiti in modo da poterli registrare. E poi sto ancora cercando una casa discografica. Se dovesse andare male la mia ricerca credo che mi affiderò ad una casa indipendente, per poter distribuire via internet il disco, che comunque resterà il mio “biglietto da visita” nel momento in cui comincerò a fare delle serate per questo stesso progetto. In ogni caso sono e sarò contenta! Sono felicissima di aver intrapreso questo viaggio, che è stato emozionante fin dal primo momento.

 

Serena Marincolo

Leggi tutto...

Il Jazz e le nuove generazioni – Intervista ad Ettore Fioravanti

Se parliamo di jazz, la prima cosa che ci viene in mente possono essere i grandi nomi che ne hanno la fatto la storia, oppure le grandi formazioni che dominano il panorama di questo periodo. Ciò che, invece, abbiamo intenzione di fare noi, oltre a segnalarvi i grandi nomi e i grandi concerti, è di dare uno spazio alle giovani generazioni che in questo periodo stanno imprimendo una ventata di rinnovamento. Ebbene sì, di giovani talenti che si stanno avvicinando a questo genere musicale ce ne sono veramente tanti e per questo ci siamo detti: “Perché non dargli uno spazio?” Quindi, iniziando questa settimana, inauguriamo una nuova rubrica che chiameremo “Jazz New Generation” con un’intervista ad un musicista, Ettore Fioravanti, che già abbiamo avuto modo di apprezzare dal vivo al 28divino (per vedere il live cliccaqui). Lui, a contatto con i giovani ci sta davvero tanto, non solo perché insegna al conservatorio, ma anche perché ci suona…

 Ettore, tu sei un musicista che sta molto a contatto con i giovani. Quali sono, secondo te, le nuove tendenze musicali delle nuove generazioni?

Partendo dal fatto che ho 53 anni e non sono più tanto giovane, posso dirti che, oggi più che mai, c’è una interessantissima volontà di fusion, ma non nel senso limitante della parola che è stato dato alla musica elettronica e degli anni 80. Diciamo che c’è una tendenza a mischiare i generi senza vergogna e senza particolari scrupoli, con una volontà che rientra nel proprio gusto. Vedo ragazzi di 25 ani che suonano tranquillamente i Nirvana con spirito jazzistico, o viceversa la musica di Parker con spirito rock, mettendoci dentro la loro esperienza di musica classica o di altra provenienza. In più è aumentata la competenza del linguaggio jazzistico perché sono migliorate le didattiche nei conservatori e nelle scuole. Diciamo che la gente che suona jazz lo studia e lo perfeziona in modo organico.

Ho notato ultimamente, ascoltando nuovi musicisti che si avvicinano a questo genere, che si tenta di fondere diversi linguaggi con il jazz. Mi riferisco soprattutto alle sonorità psichedeliche che spesso ho notato nei più giovani. E’ una tendenza che hai notato anche tu?

Si, perché psichedelica mi fa venire in testa i gruppi degli anni 70, ovvero quelli che ho iniziato ad ascoltare io. Quel tipo di suono è stato recuperato positivamente senza che ci si ponga il problema di vederlo legato ad uno stile che può essere considerato vecchio o inadatto. Da questo punto di vista la mia generazione era più casta e mischiava meno i generi sul piano delle sonorità, mentre oggi mi sembra che non esista più questa vergogna.

Nel tuo quartetto ci sono anche degli elementi giovani come Marco Bonini e Francesco Ponticelli. Per un musicista come te, quanto è importante confrontarsi con le nuove generazioni?

E’ fondamentale perché ti accorgi che loro non hanno un senso di riverenza non tanto nei miei confronti, ma su come fare musica insieme. Uno come Ponticelli, che ha 25 anni, e Marco, che ne ha un po’ di più, quando suonano insieme a me si pongono sullo stesso piano… E meno male! Sono contento, anche perché spesso vengono fuori delle linee musicali che non sono dettate da me. Questo mi piace molto perché si può discutere di musica quanto vuoi, ma quando ti metti a suonare insieme è tutta un’altra cosa.

E come hai conosciuto Marco e Francesco e Marcello, il quarto componente del quartetto?

Io avevo già suonato con Marcello Allulli in trio con Siniscalco. Marco Bonini era iscritto al conservatorio di Frosinone, dove insegno, ed era uno studente. Invece, per quanto riguarda Ponticelli sapevo soltanto che era bravo, non lo conoscevo e lo ho semplicemente contattato.

E quanto si impara dalle nuove generazioni?

Moltissimo! Si impara molto soprattutto sul piano della freschezza. Inoltre una persona che suona da 40 anni come me in questo modo ha la possibilità di eliminare quelle sovrastrutture che si è creata in testa. È fondamentale quando hai che fare con dei figli o con degli allievi, perché smetti di pensare che hai sempre ragione.

Quindi, si potrebbe dire che stando a contatto con le nuove generazioni si ha la possibilità di reinventarsi?

Si, il reinventarsi deriva dal fatto che elimini un meccanismo. Infatti, quando vai avanti ti dai dei punti fermi che in un certo senso distruggi quando hai a che fare con persone nuove. In questo senso è vero, ti reinventi e ti rimetti in gioco.

E che ambiente si respira nel mondo della didattica?

Dunque, io insegno in conservatorio e quindi posso testimoniarti che c’è una la situazione molto vitale proprio perché le scuole stanno uscendo dallo stretto campo della musica accademica. Tutto questo permette a gente che si occupa di jazz, di rock e musica non accademica di avvicinarsi al conservatorio. E’ un rinnovamento che alcuni considerano negativo e che io, invece, considero molto positivo. In genere alcuni musicisti considerano negativo il fatto di studiare questa musica, lo vedono come sbagliato. In più gira molto l’idea che la musica jazz non vada studiata, ma io non sono d’accordo perché il jazz, come disciplina, anche se possiede un linguaggio e una pronuncia non insegnabili, ha delle regole e delle storie che sono sintetizzabili e comunicabili. I giovani, per l’appunto, sono capaci di fare questo e prendono le regole senza recepirle come un aut aut. C’è la freschezza, l’ingenuità, a volte la provocazione rispetto all’insegnamento applicato in un conservatorio che, ora più che mai, ha bisogno di rinnovamento. E’ come se fosse un frullatore energetico.

Quindi, in fin dei conti, tenendo presente le nuove generazioni potremmo dare un giudizio positivo?

Assolutamente positivo! Quando c’è un rinnovamento in atto e idee che si incrociano, o che a volte si scontrano, vengono fuori anche delle ferite, ma sono positive perché portano sempre nuovi stimoli. Il jazz ha bisogno di essere continuamente messo in discussione altrimenti diventi un museo, una statua di marmo fissa. Io dentro casa non metto la “Venere di Milo”, ci metto la lavatrice perché mi serve… Ci metto qualcosa che mi può servire per crescere.

Leggi tutto...

Random, tra passato e presente – intervista ad Antonella Vitale

Dell’ultimo progetto di Antonella Vitale vi avevamo già parlato circa un mese fa, ma vi diciamo la verità, questo Cd ci ha incuriosito molto e abbiamo voluto indagare un po’ più a fondo. Il titolo “Random”, (un Cd prodotto dall’etichetta NewMediaPro) così moderno ed innovativo, ha stuzzicato la nostra curiosità proprio perché in questo progetto sono racchiusi dei brani famosi del passato arrangiati per l’occasione da un gruppo di musicisti più che degni. E inoltre parlando con Antonella, che ben si è prestata a questa nuova sfida, non abbiamo potuto fare a meno di notare un certo entusiasmo che forse capita quando ci si trova di fronte a delle nuove avventure. Dunque, abbiamo chiesto proprio a lei raccontarci più da vicino l’evoluzione di questo lavoro.

‘Random è un titolo suggestivo. Come e perché sceglierlo per il tuo disco?
“Random sintetizza ed esprime perfettamente il progetto. Il termine stesso è ormai nell’uso corrente della nostra lingua pur se “importato”, Random è la casualità inaspettata e riserva quindi delle sorprese. In questo caso la sorpresa è stata proprio il risultato finale di tutto il lavoro”.

Quindi come è nato questo progetto? Avevi in mente un’idea precisa fin dall’inizio o, come spesso accade, è nato tutto per caso o per qualche incontro al momento giusto?
“Tutto nasce dall’idea del produttore Rocco Patriarca NewMediaPro Records, che in passato mi ha coinvolto in altre avventure discografiche; il mio primo CD “The Island”, e “Live alla Palma”, CD live di Massimiliano Coclite con Fabrizio Bosso dove ho preso parte come special guest”.

I brani scelti per questo album sono forse molto eterogenei fra loro, ma a noi sembra che, in contrasto con il titolo, abbiano un filo logico che li accomuna. Ci puoi raccontare come hai lavorato a questo progetto e che ruolo hanno avuto anche le altre persone che vi hanno preso parte?
“Ci siamo incontrati un pomeriggio ed abbiamo parlato del progetto, delle possibili opzioni verso cui orientarci, in poco più di mezz’ora la scelta dei brani era già parzialmente definita. Abbiamo creduto che rendere omaggio ad autori del pop italiano contemporaneo fosse la soluzione giusta, specialmente per una vocalist di estrazione jazzistica che solitamente trascura questo repertorio. Dico questo non per un pregiudizio verso quella musica che non si identifichi come “Jazz” ma solo perché in questi anni la mia ricerca in ambito italiano si è limitata spesso verso grandi autori come Luigi Tenco, Bruno Martino, Umberto Bindi, senz’altro più vicini al mio mood musicale ed interpretativo.
Una volta stabilita la scaletta dei brani , avevo già in mente la formazione dei musicisti con cui lavorare, alcuni ormai stretti collaboratori da tantissimi anni, insieme ai quali ho realizzato i miei precedenti CD “The Island” (AudioRecords) “The look of Love” (Alfamusic) e Raindrops (Velut Luna).
Una sola prova e poi siamo andati in studio a registrare con delle linee guida, ma senza avere la minima idea di come fosse stato il lavoro ultimato. Durante la registrazione dei brani in ogni take c’era un sonorità che pian piano prendeva una sua forma ed una sua direzione ben precisa.
Quasi Tutti i brani hanno in comune la loro identità “Pop”. A parte le tre take di Pino Daniele, come “Sicily”, “Anima” e “Voglio di più” senz’altro più acustiche, le altre composizioni come “Non abbiam bisogno di parole” di Ron, oppure “Scrivimi” di N. Buonocore, rappresentavano la vera sfida su come affrontare una possibile rilettura con una “sintassi” più jazzistica, quindi più essenziale e ricercata, senza stravolgerne la loro natura. 

Abbiamo cercato di dare al progetto una dimensione più intima ed esenziale.

Francesco Puglisi, (che considero un fuoriclasse) insieme ad Alessandro Marzi, Domenico Sanna, Enrico Bracco, (con il quale ho anche registrato in duo la take “Destino” ), hanno saputo creare un alchimia perfetta di arrangiamenti e di suoni, il loro interplay è un prodigio sonoro che rappresenta il filo conduttore di questo progetto. Bruno Marcozzi ha saputo inserirsi su questo tessuto realizzando dei magistrali ricami percussivi mentre Aldo Bassi ha sovrainciso successivamente gli interventi di tromba e filicorno, conferendo ai temi un carattere ancor più evocativo, assolutamente raffinato. Anche questa volta ho voluto coinvolgere il Maestro Andrea Beneventano, ci uniscono più di quindici anni di collaborazione artistica, con lui in questo CD ho registrato “Gli amori diversi” e Spicchio di Luna”. In conclusione una bonus trak con Roberto Genovesi alla chitarra acustica con il quale abbiamo condiviso una versione di “Io che amo solo te” veramente molto originale.

Vorrei anche dire che il merito della resa del progetto, realizzato infatti per una etichetta di “audiofili” per eccellenza (la “New Media Pro”) è del fonico Stefano Isola che ha confezionato il tutto in modo ineccepibile.

Ho cercato vocalmente di non cadere nel luogo comune del …”Facciamolo jazz”, che credo riduttivo e assolutamente decentrato. Se vuoi cantare il jazz, esiste un considerevole patrimonio di standards americani sui quali hai un ampia scelta . Il canto diventa emozione pura quando nell’interpretare una melodia più popolare o rock, devi destrutturarti sia mentalmente che vocalmente, cercando di adottare una forma mobile e più dinamica di percezione e se riesci almeno in parte allora sei solo all’inizio di un percorso interessante.
Ho cantato cercando di non eccedere mai in virtuosismi o scat vocali ma cercando di rispettare le melodie originali, tra l’altro bellissime, e di essere il più “italiana” possibile”.

Insegni piano jazz e canto: quale è la prima qualità o attitudine che secondo te predispone un musicista ad una carriera soddisfacente?
“Non insegno canto ormai da tempo, dopo undici anni di insegnamento ho preso coraggio è ho rispettato l’idea che già maturavo da anni e cioè di concentrarmi su un lavoro più individuale di ricerca e di perfezionamento della tecnica vocale, ho un bambino e questo è un altro modo di dedicarmi all’insegnamento, lui è il mio allievo prediletto!”

Progetti, tour, insomma il prossimo futuro…Dove e quando?

“Per il momento porto avanti i miei progetti con diverse formazioni, ma le date imminenti sono il 27 dicembre 2010 in concerto all’Alexanderplatz Jazz Club di Roma in sestetto con lo stesso organico del CD, ed il 30 gennaio sempre nello stesso jazz club presenterò ufficialmente “Random”. Sono inoltre voce solista nella Big Band di Gerardo di Lella”.

Leggi tutto...

Luisa Cottifogli racconta Anita, il suo ultimo lavoro da studio

foto di Stefano Caporilli

In precedenza vi avevamo già parlato di Anita, l’ultimo lavoro di Luisa Cottifogli (ex cantante dei Quintorigo) pubblicato dall’etichetta Nuccia Records, un progetto interessante che ha visto la trasformazione di uno spettacolo teatrale “Anita dei due Mondi”, prodotto dal Ravenna Festival nel 2008, in un cd esclusivamente musicale. E sono tante le contaminazioni che abbiamo potuto ascoltare in un lavoro che ci è apparso ben curato nei minimi dettagli, a partire dalla musica latino americana per giungere ad alcuni dialetti tipici della tradizione italiana. Quindi, senza girarci troppo intorno, non neghiamo che questo progetto, così ricco di contaminazioni diverse, ci ha davvero incuriositi e di conseguenza abbiamo raggiunto Luisa Cottifogli che ci ha raccontato in prima persona la storia di Anita.

Prima che diventasse un progetto elaborato in studio “Anita” è stato uno spettacolo teatrale, “Anita dei Due Mondi”, vuoi raccontarci la genesi di questo nuovo lavoro?

“Questo lavoro nasce da uno spettacolo teatrale: “Anita dei due mondi”, prodotto da Ravenna Festival nel 2008 con la regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi.. Lì sulla scena agiva Anita Garibaldi, attraverso parole e musica, e il mio ruolo era quello di entrare da attrice nel personaggio – visto attraverso momenti e temi fondamentali della sua vita – e uscirne da musicista per cantare. In un secondo momento ho sentito la necessità di raccogliere in un cd esclusivamente musicale alcuni dei brani più significativi dello spettacolo, con l’aggiunta di altri due che avevo nel cassetto. I temi del cd sono i leit-motiv dello spettacolo: l’attesa (Anita che aspettava Garibaldi di ritorno dalle guerre e dai viaggi, Anita che per cinque volte ha aspettato un figlio da lui…). Poi la determinazione della propria vita (Anita, che da bimba è stata educata come un maschio dal padre, viene poi costretta dopo la morte di lui, all’età di quattordici anni, a sposare un uomo non amato, più vecchio, spesso ubriaco e autoritario. Allora aderisce alla politica libertaria di ribellione al potere dell’impero, si innamora di Garibaldi e decide di fuggire con lui per combattere al suo fianco, per la libertà del popolo brasiliano e di quello di altri paesi sudamericani. Lascia suo marito che era partito in guerra nelle truppe imperiali e decide la sua vita, ritrovando la libertà nella quale era cresciuta). Infine il ricordo e la morte (Anita ricordava in modo struggente i momenti nei quali era vivo il padre, che la portava a cavalcare sulla spiaggia e la spronava alla libertà e alla vita)”.

foto di Stefano Caporilli

Quanto ti rispecchi nella figura di Anita?

“Sia nello spettacolo teatrale che nelle parole dei miei brani l’identificazione fra Luisa e Anita è quasi totale, attraverso i temi della libertà, dell’auto-determinazione della propria vita, dell’avventura del vivere, ma anche della morte , dell’attesa e del ricordo.
Temi universali che permettono l’identificazione di ognuno di noi con i testi delle canzoni. Forse la forza del disco “Anita” sta proprio qui. Ed è la prima volta che in un mio lavoro sono le parole a motivare e a generare la musica e che, pur di non compromettere la forza dei testi, talvolta canto sottovoce.
Un critico ha recentemente scritto: “Anita ha l’effetto di far dimenticare la musica e di scardinare il confine fra la vita e la mia vita … canzoni che Luisa Cottifogli mi ha strappato dall’anima, come fossero sempre state mie”.

foto di Stefano Caporilli

In Anita sono molte le contaminazioni con la musica latino americana. C’è un affetto particolare che ti lega al Sudamerica?

“Questo ideale viaggio in Sudamerica è legato al personaggio stesso di Anita, nata a Laguna nel sud del Brasile (territorio nel quale veniva parlata una lingua mista di portoghese e spagnolo, il “Portugnolo”) poi emigrata a seguito di Garibaldi in Uruguay e in Italia dove a Mandriole,  nei pressi di Ravenna, troverà la morte.
Ecco allora che nel disco si intrecciano il portoghese brasiliano, lo spagnolo, l’italiano e perfino il romagnolo. E l’italiano che utilizzo è volutamente imperniato di ritmiche e richiami melodici sudamericani.
Ogni progetto che realizzo mi porta in varie parti del mondo attraverso le lingue parlate e i linguaggi musicali, e ogni volta finisco per innamorarmi di quello che trovo.
In questo caso sono sbarcata per la prima volta in Sud America, scoprendo un bellissimo repertorio che intendo utilizzare nel  live di “Anita” accanto ai brani del cd”.

foto di Andrea Bernabini

E quale è il  tuo legame con la cultura popolare italiana?

“Anche in questo caso basta scavare nelle radici culturali e nei dialetti di ogni regione d’Italia per scoprire fonti ineguagliabili di poesia e forme musicali fra le più disparate e interessanti.
Un esempio: attraverso il lavoro di ricerca sulle tradizioni romagnole che ha preceduto la registrazione del mio precedente disco “Rumì”, ho scoperto un mondo affascinante che mi ha dato forti ispirazioni musicali, ma anche la voglia di conoscere le varie regioni d’Italia con lo stupore e l’interesse che di solito dedichiamo a paesi lontani considerati “esotici”. Lo stesso stupore che mi ha preso quando ho incontrato, grazie alla collaborazione musicale coi piemontesi Marlevar, la cultura e la lingua provenzale delle valli del cuneese”.

Quando suonerai a Roma ?

“Anita ha un trascorso romano piuttosto burrascoso. Nel 1849 arriva nella capitale per riunirsi al suo amato Giuseppe Garibaldi, ma è subito costretta con lui alla fuga, inseguita dalle truppe francesi e austriache dopo il crollo della repubblica romana. Durante questa trafila troverà la morte nei pressi di Ravenna. Dopo un anno Garibaldi tornerà in Romagna a prenderne le spoglie per portarle con sé a Nizza. Nel 1932 esse saranno definitivamente deposte nel basamento del monumento equestre del Gianicolo dedicato all’eroina dei due mondi.
Mi piacerebbe riportarla alla vita proprio a Roma, attraverso i miracoli che solo l’arte e la musica sanno compiere. E spero sarà molto presto”.

Leggi tutto...

Caterina Palazzi presenta Sudoku Killer alla Casa del Jazz

7
8
9
10
12
per-articolo1
prima
quarta
quinta
seconda
sesta
settima
terza
01/13 
start stop bwd fwd

Caterina Palazzi è sicuramente una musicista che si sta rivelando uno dei talenti emergenti del panorama jazzistico italiano. Contrabbassista romana, amante del Jazz, ma anche del rock, ama far confluire nella sua musica molteplici influenze che derivano da un back ground sicuramente ricco e aperto alla sperimentazione. Qualche giorno fa Caterina ha presentato in via ufficiale il suo nuovo lavoro, Sudoku Killer, alla Casa del Jazz (un concerto che a quanto pare è stato molto gradito dal pubblico) e noi, che non neghiamo di essere rimasti davvero incuriositi, l’abbiamo raggiunta per farci raccontare la filosofia che si nasconde dietro un progetto tanto interessante quanto sperimentale.

Caterina, quanto c’è del tuo background in questo nuovo CD, mi riferisco alle diverse sonorità a cui hai attinto?

“Di base questo è un Cd che possiamo definire di Jazz, anche se contaminato da altre sonorità. Io sono partita dal rock di Jimi Hendrix, dei Rolling Stones, dei Red Hot Chili Peppers e anche dei Nirvana. E’ stata la mia passione fino ai 20 anni, poi c’è stata una fase jazzistica e adesso sto mescolando le influenze per scrivere una musica che definisco “la mia”. Ovviamente non può essere un lavoro che riprende le musiche degli anni ‘40 perché, essendo una musica composta da me, è normale che vengano altre influenze. Io, infatti, sono appassionata di rock, anche di musica elettronica e il disco è così contaminato proprio perché volevo seguire un mio percorso. Quindi, ho fatto inconsciamente leva su tutto quello che ho ascoltato in questi anni.”

Il titolo di questo lavoro “Sudoku killer” cosa rappresenta?

“Sudoku killer è un gioco matematico, una variante di quello normale, diciamo un Sudoku assassino perché è un gioco davvero “scervellotico”. Quindi, ho scelto questo titolo, primo perché sono appassionata dei giochetti di logica e, visto che la sera ne faccio tanti, è un cosa che rispecchia una parte della mia personalità. Secondo, ho deciso di usare questo nome perché i miei pezzi sono storie che apparentemente non sono collegate, ma che hanno un filo conduttore ben preciso. Il Sudoku, infatti, è un incrocio di numeri che messi insieme hanno uno a loro logica, quindi Sudoku Killer è un parallelismo fra logica e numeri che danno una coerenza a questo prodotto e alle canzoni che lo compongono.”

E questi titoli così inquietanti?

“Sicuramente sono appassionata di cinema e ho attinto ampiamente da questa tradizione. E poi il disco ha sonorità cupe, tutti minori, con i titoli collegati ad un’atmosfera che si avvicina al noir, ma con una buona dose di ironia.”

Quindi, quali sono gli scenari che dipingete attraverso la vostra musica?

“Principalmente partiamo dai film, anche dai libri, e poi sicuramente da stati d’animo della mia vita. Un titolo, per esempio, è Berlino Est ed è nato perché, quando sono stata a Berlino per la prima volta, ho avuto delle sensazioni che ho trasformato in musica senza sapere che erano collegate a quella visione. Ispirazioni, libri, cinema, atmosfere, qualunque cosa mi colpisca esce fuori attraverso un brano musicale.”

In alcune tue dichiarazioni hai affermato che suoni con spirito Punk, vuoi commentare questa frase?

“Il discorso è… Va bene che tutti siamo musicisti di professione, con massima serietà, però il jazz forse si prende troppo sul serio. A me, invece, piace sdrammatizzare, fare dell’ironia su quello che si fa, suonare con grinta anche se può essere che sbagli una nota. Anche se faccio due accordi, ci metto grinta e il messaggio arriva comunque.”

Può essere una nuova frontiera del Jazz il fatto di utilizzare nuove sonorità, come le chitarre distorte che richiamano anche la musica psichedelica?

“In realtà quello che noto nel jazz italiano, dal quale mi discosto, è che è un po’ influenzato dal jazz moderno americano, senza ritmiche rock e con un uso limitato degli effetti. Per esempio le chitarre elettriche sono poco sfruttate perché chiaramente il piano acustico è migliore di una chitarra acustica. Io, invece, mi sento vicina al jazz nord europeo che va verso una direzione molto interessante, senza tempi dispari o armonie molto complicate. Infatti, sono più melodica e gioco sul suono più che sul fatto di complicare un pezzo. Meglio due note con un suono pazzesco che con mille accordi come faceva John Coltrane.”

E questa sperimentazione è venuta fuori da sé? Quanto sono stati importanti i componenti del tuo gruppo?

“Loro sono fondamentali nel suono del disco. In realtà è già da tre anni che esiste questo gruppo, abbiamo iniziato con un’impronta jazz e, a furia di studiare insieme siamo cresciuti e abbiamo capito che suonare gli standard ci andava stretto. Avevo l’esigenza di fare un mio suono e per questo ho cominciato a proporre cose mie, loro mi hanno seguito, erano sulla mia lunghezza d’onda, forse prima più guidata, mentre adesso hanno chiaro quello che voglio. Adesso il gruppo è ben rodato. Inoltre a me piace fare delle piccole Suite, con molte variazioni, mi diverto a scrivere e, secondo me, è molto importante che un tema abbia la sua logica.”

Continuerete con questo progetto o è soltanto una parentesi?

“Certo, io sono determinata a portare avanti questo progetto, mi sembra che il pubblico sia entusiasta e vedere che cento persone sono rimaste senza biglietto alla Casa del Jazz, non può che farmi piacere. Abbiamo girato in Italia, continueremo a farlo e questo progetto lo continuo, cascasse il mondo! E’ un percorso difficile e originale, ma per adesso siamo stati ripagati ampiamente. Chiaramente continuerò con gli stessi componenti, ma non posso garantire per il futuro, a volte i percorsi di dividono.”

Un ultima domanda, quali saranno i tuoi prossimi impegni?

“Dopo questa presentazione ufficiale alla Casa del Jazz, anche se in realtà il Cd uscito a febbraio, a fine novembre saremo in Veneto, a fine dicembre in Lombardia e Liguria. Una settimana al mese di tour in Nord Italia, l’idea è questa. Inoltre abbiamo proposto due pezzi nuovi alla Casa del jazz e sono piaciuti anche più di quelli vecchi. Certo, per quanto riguarda un secondo CD, ora ti dico che  mi sto godendo il primo e non ho fretta. L’obiettivo è quello di suonare il più possibile per promuovere al meglio questo lavoro.”

Leggi tutto...

Jazztales al 28divino – fra musica e letteratura

Jazztales è un progetto nato dalla collaborazione fra Marcello Rosa, uno dei maestri del trombone jazz in Italia, e Filippo La Porta, critico letterario, giornalista e saggista. Uno spettacolo che aggancia la musica alla letteratura e in cui i due linguaggi si fondono per raccontare un mondo fatto di cultura e tradizioni. Dunque, si tratta di un racconto irregolare sul Jazz, una storia fatta anche di aneddoti e di contrasti, in cui Filippo La Porta, oltre a fare da collante tra un brano e un altro, suona anche le percussioni (il resto della formazione è composto da Caterina Palazzi al contrabbasso e da Paolo Tombolesi al piano). Lo scorso sabato questo spettacolo è andato in scena al 28divino e noi, per approfondire il discorso, abbiamo raggiunto Marcello Rosa e Filippo La Porta.

Quale è stato il punto di partenza di questo progetto “Jazztales”?

Marcello Rosa: “Diciamo che io e Filippo ci conosciamo da decenni, ma la nostra collaborazione è partita un paio di anni fa a Villa Celimontana, quando ci siamo incontrati durante l’anniversario dello sbarco lunare. Nel ’69, in occasione dell’allunaggio, avevo suonato nel parco delle Naiadi a Pescara, il concerto finì all’una e lo sbarco avvenne intorno alle cinque. Durante quella sera c’erano jazzisti venuti da tutto il mondo e anche tanti televisori che trasmettevano l’evento. Quindi, dopo quaranta anni Rubei ha voluto farmi ricreare a Villa Celimontana quell’atmosfera e proprio durante l’anniversario Filippo fece un discorso introduttivo. Diciamo che il progetto è nato da questo punto di partenza, è venuto fuori in modo naturale e ognuno ci ha messo del suo. Inoltre Filippo è un appassionato e, avendo sotto mano anche gli scritti del Jazz, abbiamo parlato e deciso di fare questa avventura, è stata una cosa spontanea, un po’ diversa del solito, con una formazione al minimo”.

Quindi, questi scritti sul Jazz fanno da collante a questo spettacolo?

Filippo La Porta: “Questi scritti fanno da collante cronologicamente. Infatti, fra gli autori citati ci sono Scott Fitzgerald con i racconti dell’ “Età del jazz” degli anni 20, poi si fa un percorso nel blues degli Stati Uniti, poi c’è Marinetti e il futurismo che esaltava la musica sincopata, c’è Boris Vian autore di “Sputerò sulle nostre tombe” che scriveva gialli americani, ci sono Céline, Gregory Corso, c’è Kerouac autore di “Sulla strada”, c’è anche Ginsberg e infine faccio una puntata in America Latina con Julio Cortàzar che ha scritto “Il Persecutore”, un libro su Charlie Parker”.

In cosa consiste, allora, la letteratura Jazz?

Filippo La Porta: “L’obiettivo è proprio quello di capire quale è la letteratura Jazz, che non è tanto quella che parla dei jazzisti, ma quella che assume in sé l’elemento che caratterizza il genere, cioè il rischio, l’improvvisazione, l’imprevedibilità. Tutto parte da una frase di Marcello Rosa che dice: “Noi  sappiamo come comincia un brano ma non sappiamo mai come finisce”. Cito anche Raffaele la Capria che ha associato la letteratura ai salti mortali. Scrivere un romanzo è come un salto e bisogna farlo bene, c’è un elemento di rischio e di imprevedibilità.

E come avete sviluppato questo spettacolo?

Marcello Rosa: “Diciamo che questa cronologia è venuta spontaneamente, ma non è la cosa più importante perché si tratta di curiosità. Per esempio Kerouac, un grande scrittore d’avanguardia,  era un grande appassionato di Jazz tradizionale, mentre nessuno immagina che un pittore all’avanguardia come Pollock amasse il Jazz del Passato. Vengono fuori questi apparenti contrasti, sono curiosità che fanno riflettere e l’ascoltatore esce da questo spettacolo imparando qualcosa. Non c’è niente di artefatto, né di stantio perché io suono i brani che mi piacciono, non mi interessa seguire un filone e se alcune melodie possono essere agganciate al jazz sono molto contento. Poi se a questo discorso si può agganciare anche la letteratura è tanto di guadagnato.

Leggi tutto...

Luna Nuova, l’ultimo lavoro del Trio Salerno – intervista a Sandro Deidda

deidda
deidda-al-sax
deidda-alexanderplatz
deidda-sandro
pierpaolo-bisogno
pierpaolo-bisogno-alle-percussioni
pierpaolo-bisogno-percussioni
sandro-deidda
sandro-deidda-al-sax
sandro-deidda-primo-piano
sandro-deidda-sassofono
trio-salerno
trio-salerno-alexanderplatz
01/13 
start stop bwd fwd

Una musica elegante e molto raffinata, un jazz di chiara matrice europea che esalta la melodia e la lirica. Sono questi gli elementi distintivi del Trio Salerno composto da Sandro Deidda (sassofono tenore e soprano), Guglielmo Guglielmi (pianoforte), e Aldo Vigorito (contrabbasso). Un esordio che risale al 2008 con un progetto dal titolo “Cantabile”, edito dalla storica etichetta capitolina Via Veneto Jazz, e una sperimentazione continua, fatta di innumerevoli collaborazioni, che oggi ha portato alla nascita di un secondo lavoro, “Luna Nuova”. Proprio sabato scorso il Trio è andato in scena all’Alexanderplatz, con special guest d’eccezione, il percussionista Pierpaolo Bisogno. E noi abbiamo chiesto a Sandro Deidda di raccontarci questo nuovo progetto.

 

Sandro, per cominciare, ci vuole raccontare questo progetto, Luna Nuova?

Luna Nuova è un progetto nato nel 2010 che, a differenza del nostro primo Cd, Cantabile, è composto principalmente da temi noti. Per esempio ci sono brani come “Joy Spring” di Clifford Brown, altri di Ennio Morricone come “Metti una Sera a Cena”, per il quale ci siamo avvalsi della collaborazione dei Solis String Quartet, un famoso trio di archi napoletano, e “Deborah’s theme”, tema centrale della colonna sonora di “C’era una volta in America”. C’è anche un omaggio ad una canzone napoletana, “Passione”, di Valente-Tagliaferri e alcuni brani scritti da noi. “Faber”, per esempio, è una mia composizione dedicata a Fabrizio de Andrè e “Luna Nuova”, la title track, è un altro brano che ho scritto io.

C’è un filo conduttore che unisce queste musiche forse così eterogenee fra loro?

Siamo noi a rendere il tutto omogeneo. Anche se suoniamo musiche eterogenee, alla fine il nostro sound è riconoscibile ed è il risultato del nostro affiatamento e della nostra ricerca. Diciamo che c’è un nostro tocco su brani di provenienza diversa che privilegia la melodia, la liricità, senza però perdere il ritmo. Noi perseguiamo questo fine ed è una cosa che ci viene del tutto naturale.

Quindi, come è nato questo Trio Salerno?

Il nostro trio è nato da un antica amicizia che legava i nostri padri. Loro, anche se facevano altri lavori, erano professionisti e svolgevano un’attività concertistica. Il padre di Aldo, che era un chirurgo, ha cominciato a studiare tardi e, una volta in pensione, ha cominciato a prendere lezioni da mio padre. Diciamo che loro ci hanno trasmesso questa loro passione per la musica e poi le nostre strade si sono indirizzate verso il jazz.


E questa vostra scelta di non utilizzare la batteria…

In pratica la nostra scelta è stata quella di eliminare la batteria che solitamente è un elemento costitutivo tipico di una qualsiasi formazione jazz. Quasi sempre ogni gruppo nasce con la batteria, ma noi abbiamo fatto a meno di questo elemento caratterizzante cercando di ottenere qualcosa di differente dagli altri, un sound personale, molto lirico. Diciamo che fin dal principio la nostra ricerca si è sviluppata con l’intento di esaltare la melodia e l’armonia che ne consegue, tutto seguendo una logica “Cantabile”, che è proprio il titolo del nostro primo Cd, edito nel 2008 dall’etichetta Via Veneto Jazz. Non ci piace la definizione cameristica, però talvolta le nostre sonorità sono talmente sottili che potrebbero riecheggiare quelle classiche.

Il vostro è un gruppo molto affiatato in cui c’è un’armonia ben consolidata. Potremmo dire che per voi è valido il concetto di interplay?

Diciamo che ognuno dà il proprio contributo in modo uguale agli altri. Per esempio Dave Brubeck componeva le sue musiche e gli altri sideman lo seguivano; noi, invece, siamo tre compositori allo stesso livello, tre musicisti che si completano, ognuno complementare all’altro. Per fortuna tra di noi c’è un equilibrio magico che è dovuto soprattutto al numero elevato di prove che facciamo. Inoltre registriamo spesso i nostri concerti e valutiamo le cose che funzionano e anche quelle che non funzionano, un consiglio che diamo soprattutto ai giovani che si avvicinano al Jazz. Per quanto riguarda il nostro repertorio, quello composto da brani originali, diciamo che le musiche vengono composte da tutti e tre ed è una collaborazione paritetica. Non c’è qualcuno che prevale.


Sabato scorso avete suonato all’Alexanderplatz insieme al percussionista Pierpaolo Bisogno. Collaborate spesso con elementi esterni al Trio?

Con Pierpaolo collaboriamo anche in altri progetti ed è spesso uno dei nostri ospiti. L’abbiamo chiamato perché la voglia di sperimentare non ci manca e in questo caso, visto che era un sabato sera, volevamo vivacizzare la nostra proposta rendendola più allegra e frizzante. Questo si unisce alla nostra curiosità di sperimentare l’inserimento di alcuni ospiti nel trio. E’ già successo e continuerà a succedere. Pierpaolo Bisogno è un bravissimo vibrafonista e percussionista che vive a Roma da anni e che abbiamo invitato molto volentieri.

Quindi, vi rivedremo presto all’Alexanderplatz?

Si torneremo presto, il prossimo concerto è previsto per il 10 Novembre

Leggi tutto...

Stefano di Battista racconta il suo nuovo progetto Women’s Land

Venerdì scorso avevamo ascoltato all’Alexanderplatz la presentazione del nuovo progetto di Stefano di Battista, Women’s Land, nato dalla collaborazione con Gino Castaldo, uno dei più noti critici musicali italiani. Come abbiamo appreso durante l’esibizione, tutte le musiche sono state studiate per rendere omaggio a quelle figure femminili che hanno lasciato un segno indelebile nella storia. Per capirne la filosofia e i retroscena, abbiamo approfondito l’argomento con Stefano di Battista, leader di questa nuova formazione.

Stefano, come nasce l’idea di fare questo tributo alle figure femminili?

“Nasce perché in questi ultimi mesi ho notato che tutte le compositrici e cantanti donne nella parte creativa hanno sempre qualcosa di diverso dall’uomo. Inoltre, visto che da poco ho avuto una bambina, una femmina, mi sono catapultato nell’universo femminile e mi piace immaginare come potrà essere lei da grande. Ti faccio un esempio: quando ascolto Joni Mitchell o Rita Marcotulli, sia nelle composizioni che nel modo di suonare o di cantare, riscontro un approccio diverso nella parte creativa e nel modo di esprimere la musica. Tecnicamente non saprei dirti cosa c’è di diverso, ma mi arriva un’emozione differente da quella che percepisco quando ascolto un uomo. Tutto questo mi ha incuriosito e ho cercato di prenderlo come stimolo per scrivere delle cose diverse. Da un po’ di mesi stavo componendo sempre le stesse cose, mi annoiavo, per cui ho pensato che immaginare questo tipo di dolcezza delle donne, potesse darmi nuovi stimoli. Inoltre ho visto che quando penso ad un soggetto in realtà mi vengono delle idee e sono ispirato a scrivere cose diverse.”

Quindi, cosa è nato per primo, il pensiero della figura femminile o la musica?

“Diciamo che la prima cosa che mi ha spinto è stata la curiosità, il cercare di capire cosa ci fosse dietro questo differenza. La curiosità mi ha spinto ad immaginare questi personaggi femminili per poi scrivere qualcosa di diverso. Ovviamente tutto questo l’ho condiviso con Gino Castaldo con il quale sono molto amico e, avendo passato del tempo insieme, abbiamo dato vita ad una specie di avventura volta alla ricerca di questi personaggi e della loro storia. In realtà non abbiamo studiato i personaggi da capo a fondo, ma abbiamo cercato di prendere delle suggestioni che potessero essere traslate in musica.”

E questa parte narrata, che abbiamo ascoltato venerdì, sarà presente nel CD?

“Si, noi metteremo questa parte narrata nel libretto, che sarà curato da Gino Castaldo stesso, e quindi, ogni donna sarà raccontata da un uomo, attraverso la visione di noi uomini e attraverso il modo in cui noi l’abbiamo raccontata sia con le parole che con la musica. Tutto questo per dare vita ad un progetto che sprigioni amore nei confronti della donna e nei confronti della figura femminile. Lo possiamo definire tributo, oppure omaggio, ma in definitiva, il fatto che io sia padre di una bimba, e che comunque sia sensibile a un certo tipo di realtà femminile, non fa altro che farmi amare le donne in una maniera che potremmo definire spirituale. Il fatto che una donna possa diventare mamma per me è un fenomeno incredibile.”

Quindi, c’è anche qualcosa di autobiografico in questo lavoro?

“Probabilmente c’è anche questo aspetto autobiografico, ma non è l’unico perché non parlo solo di me, ma anche di un immaginario generale che hanno uomini come me e Gino, per esempio.”

Come è avvenuta l’associazione della musica a una figura femminile, avete pensato ad un genere prestabilito?

“No, a volte la musica accompagna il periodo storico del soggetto. Per esempio Rita Levi Montalcini è stata in America e noi ce la siamo immaginata a New Orleans; la parte iniziale del brano, quella un po’ più dolce, diventa un blues proprio perché abbiamo immaginato che Rita Levi, appena arrivata in America, abbia potuto avere delle esperienze d’amore divertenti, scoprendo qualcosa di sé, magari andando in vacanza a divertirsi. Non lo so, ci siamo immaginati una persona che ha fatto delle scoperte in America e l’abbiamo descritta con un ritmo che per eccellenza si usa nel Jazz, il New Orleans. Questo è un parametro che poi ci permette di tornare alla musica un po’ più dolce nella parte finale, che poi è quella che suoniamo all’inizio. Cerchiamo di seguire un po’ l’andamento della storia di ognuna di queste figure femminili.”

Un’ultima domanda, Stefano, quali saranno i prossimi progetti di questo nuovo quartetto?

“Per quanto riguarda i prossimi progetti, contiamo di registrare un album e siamo già in contatto con Caetano Veloso, per avere una partecipazione, con Pat MethenY, se ci riusciamo, e… Con altri artisti, che ovviamente saranno uomini; sarà sempre un omaggio rivolto alle donne, ma visto al maschile. Per il momento credo che questa avventura non finirà mai perché in realtà continuiamo a scrivere brani ogni giorno; siamo arrivati a quindici pezzi, continuiamo a farne di nuovi e forse questo sarà un disco chiamato volume 1, volume 2 e volume 3. Dopo vedremo, intanto ti posso dire che Women’s land per il momento è il mio futuro”.

Leggi tutto...

Sesta edizione del Garbatella Jazz Festival – intervista a Pino Sallusti

Si è conclusa la scorso sabato la sesta edizione del Garbatella Jazz Festival, evento che si è svolto nella storica Villetta, al civico 26 di via Passina, che già da un po’ di tempo è entrato a far parte della tradizione di uno quartieri più belli della città. In questa tre giorni completamente dedicata al jazz, sono saliti sul palco il duo Duality, il trio Maurizio Giammarco Jazz3 e il Pino Sallusti. Per approfondire l’argomento e per comprendere la forza di un Festival che sembra radicarsi sempre di più nello spirito di un pubblico che comincia veramente ad amare il jazz, abbiamo intervistato Pino Sallusti, musicista, contrabbassista, nonché direttore artistico del Festival.

Pino, per cominciare ci vuoi raccontare come avete strutturato questo Festival?

“L’iniziativa è stata strutturata in tre giorni, con tre concerti, tre formazioni diverse e, quindi, proponendo tre diversi modi di ascoltare il jazz. Durante la prima serata c’è stato il duo di Andrea Beneventano e Nicola Puglielli, che si basa proprio sull’interplay fra pianoforte e chitarra. E nonostante la villetta non fosse adatta ad un concerto di questo tipo, c’è stata una grossa risposta del pubblico sia per la bravura dei musicisti, sia per il coinvolgimento stesso delle persone. In tutte le serate è stato chiesto a gran voce il bis ed è stata una vera sorpresa anche per il duo”.

E durante le altre serate come è andata?

“Durante la seconda serata c’è stato il trio di Maurizio Giammarco con Francesco Puglisi e Marcello Di Leonardo. Purtroppo la temperatura non è stata molto favorevole, ma anche in questo caso, nonostante le minacce di pioggia, la gente ha risposto molto bene anche se abbiamo dovuto spostare il concerto dal palco centrale. Infine nella terza serata ci sono stato io con il mio gruppo che è composto da Claudio Corvini, alla tromba, Massimiliano Filosi, al sax alto, Marco Conti, al sax tenore, Marco Guidolotti, al sax  baritono, Andrea Frascaroli, al pianoforte, Gianni Di Renzo, alla batteria; tutte formazioni non convenzionali.”

Quindi, come avete organizzato le serate del Festival?

“Prima di ogni concerto c’è stato sempre un quartetto che apriva la serata, eccetto durante la seconda giornata per motivi logistici, a cui si aggiungeva una cantante con un repertorio di pezzi originali e di standard. Ogni anno c’è sempre una formazione che apre il Festival.”

Avete già in mente qualcosa per la settima edizione?

“Diciamo che questo Festival comincia ad essere una bella realtà, stiamo già lavorando alla settima edizione che vorremmo fare tra giugno e luglio, anche perché ci siamo accorti che è un peccato non utilizzare una cornice così bella come è successo per il concerto di Giammarco”.

Quanto è importante un evento di questo tipo per valorizzare un quartiere come Garbatella?

“Sicuramente il Festival è come un vaso di fiori che abbellisce un salotto già bello. Inoltre, grazie al lavoro di organizzazioni come Cara Garbatella, Altre Vie e grazie anche agli sponsor presenti abbiamo registrato sempre il pieno”.

Quindi, il Garbatella Jazz Festival è un evento che rimane legato alla realtà del quartiere o richiama anche un pubblico che proveniente da altre parti della città?

“Ovviamente richiama la gente del quartiere, ma quest’anno, proprio perché abbiamo cercato alzare il livello del festival, c’è stata una risposta non soltanto dal popolo della Garbalella, ma anche dalla gente degli altri quartieri. Infatti, il prossimo anno vorrei riuscire ad ampliare questo festival da tre sere a una settimana, per arrivare a proporre una rassegna estiva che si sviluppi in più mesi, sempre che continui la mia collaborazione come direttore artistico. Inoltre mi piacerebbe ampliare il discorso con la didattica e i seminari”.

Pino, per concludere, quali sono stati i punti di forza del Festival? In particolare su cosa avete affidamento?

“Sull’entusiasmo soprattutto, io ho organizzato il festival dal letto perché a maggio sono stato operato di tumore. E’ stata una cosa che mi ha tirato fuori da una situazione brutta e devo dire che sono stati tutti disponibili a darmi aiuto. La cosa più bella è che l’ultima sera ho risuonato il contrabbasso in pubblico, una scommessa vinta, anche se le condizioni climatiche non erano proprio perfette”.

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS