Jazz Agenda

Domenico Sanna Trio al Charity Cafè

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“L’uomo con due mani destre”, così è stato definito Ahmad Jamal, uno dei pianisti più “à la page” del xx secolo. A lui si è ispirato Domenico Sanna che venerdì scorso al Charity Café, nel suggestivo centro romano, si è esibito con la sua formazione composta da Marco Valeri alla batteria e Giorgio Rosciglione al contrabbasso. Un trittico eccellente, classicamente sperimentale e che vanta numerose collaborazioni ed esibizioni di grande qualità. All’uscita del loro ultimo disco “Too Marvelous For Words ‘’, prodotto dalla Tosky records, e che vi consigliamo di non perdere, Sanna si è dimostrato un talentuoso e promettente pianista, capace di tenere il passo di veterani del jazz come il Maestro Rosciglione (nella band da un anno) che ha collaborato con Eddy Palermo (eccellente chitarrista sicilianaMente imbossanovato) e Marco Valeri che, nonostante la giovane età, vanta un curriculum di altrettanto rispetto.

Il Charity ha fornito la cornice giusta per l’intimità che la serata richiedeva: luci soffuse, profumato vino bianco, silenzio di rito e largo alla raffinatezza delle note… Due set musicali: agli standard come ‘’ Gone with the wind‘’,  i musicisti hanno alternato brani di composizione  propria come la meravigliosa “The Last Rain ‘’ di Giorgio Rosciglione. Il pianista Dado Moroni ha affermato di essersi commosso nell’ascoltarli ed effettivamente la classe e la spontaneità garbata che emerge dalle performance di questi jazzisti affiora ad ogni loro concerto. Dalla professionalità puntuale dei tempi, al rigoroso ma variopinto senso ritmico che la batteria di Valeri esprime perfettamente, al ‘camminare’ sostenuto e al mix linguistico originale di Rosciglione. Musicisti che si lasciano spazio e respiro musicale per poderosi slanci improvvisativi e tuttavia sempre ‘concertati ‘. Domenico stesso a fine concerto si è espresso con noi in questi termini: “E’ bellissimo dare lievi scosse alla nostra scaletta: un pezzo che avevamo stabilito come seconda esibizione diventa il quarto o l’ultimo quando si suona”.

 

E’ piaciuta a noi e a tutto il pubblico della serata questa capacità di esaltarsi vicendevolmente e di incastrarsi senza interrompere il generale flusso musicale.  “Il loro tocco è elegante” per riprendere le parole di Moroni, un tocco che sa di italianità e di storiche radici statunitensi, che non si perde nella sterilità virtuosistica sempre fine a se stessa e che si libera ad ogni performance con il valore aggiuntivo dell’ emozione o commozione di chi suona per chi ascolta. Un omaggio alla Musica espresso nella lentezza e nella calma delle dita del giovane ed emergente Sanna, pianista esperto dalle originali possibilità, che può offrire ancora molto e che il panorama jazzistico europeo conosce già molto bene. Auguriamo a cotanti musicisti di proseguire con grinta la loro carriera al di là degli ostacoli, delle scuole di pensiero e delle mode che ne scaturiscono, e di profondervi impegno come hanno fatto fino ad ora per addolcirci il cuore ed affinarci il gusto.

Veronica Paniccia

foto di Valentino Lulli

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Emanuele Urso Quintet al Gregory’s

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Si rinnova come ogni venerdì al Gregory’s l’appuntamento con il “ Re dello swing “ e la sua band,Emanuele Urso Quintet : ottima performance, professionalità rigorosa, vibrazioni accattivanti, mood swing perfettamente amalgamati e regalati al pubblico dello storico jazz club romano. Venerdì scorso eravamo proprio lì ad ascoltarli con il nostro orecchio profano e la voglia di divertirci tra molti esperti e cultori del genere. Due ore di spettacolo divise in due set musicali e “Buona la prima”, come si dice!

Il quintetto composto da Emanuele Urso al clarinetto/batteria, Antonio Pierri al vibrafono,Adriano Urso al piano, Osvaldo Mazzei alla batteria e Alessio Urso al contrabbasso ha soddisfatto ogni livello musicale. La formazione, infatti, si lancia da subito in vivaci e funamboliche esperienze musicali in Italia e in Europa a fianco dei maggiori esponenti del panorama jazzistico quali Christian Meyer, Frank Vignola, Bucky Pizzarelli. Nel 2006 si esibisce assieme ad un suo grande estimatore Renzo Arbore, nella trasmissione Matrix.

Insomma, quello che ci siamo trovati di fronte, e tutta la sacrosanta Musica che abbiamo ascoltato, proveniva da collaborazioni di alto livello e da un lavoro svolto negli anni con profondo impegno. Emanuele è un animale da palcoscenico oltre che un batterista e un clarinettista acclarato. Incita i suoi musicisti sul palco nei loro slanci improvvisativi, li sostiene con le note e con lo spirito di un carismatico frontman.


Foto by Valentino Lulli

Nel loro repertorio rigorosamente swing anni 30-40, rientrano i più famosi brani di Benny Goodman, Glen Miller, Lionel Hampton riarrangiati e presentati al pubblico nel vecchio e sempre nuovo dixieland mood. Una breve e particolare considerazione va ad Antonio Pierri che ha offerto vibrazioni speciali con un ritmo incalzante che inseguiva piano e batteria catturando attenzione ed orecchi dentro e fuori i suoi soli. Dunque, una serata che è stata condotta e allietata con il prestigio di standard originali e giri armonici in perfetto stile dixieland. Omaggio ad una New Orleans ormai lontana, a quelle piste da ballo che non ci hanno visto danzare sotto un ritmo costantemente incalzante della batteria, a quelle melodie divenute il fraseggio di un’Era, a quelle polifonie complesse e virtuose.

Un grazie alla band e ai suoi maestri, ai loro studi, alla loro Passione che li ha guidati e che ci ha coinvolti e travolti per tutto il tempo. Un grazie speciale ad Emanuele o “ Re dello swing “ che dir si voglia per il tempo concessoci  per una breve intervista in cui ci ha illuminato non solo sui suoi passi da musicista, attraverso scorci sulla storia del jazz , ma anche sul “senso” musicale che negli anni lo ha sostenuto e ha sorretto il suo impegno portandolo assieme alle sue formazioni ad essere, così giovane, uno dei più riconosciuti jazzisti a livello internazionale. Un concerto che potrete seguire ancora  il 22 e il 29 di ottobre sempre al Gregory’s a cui vi consigliamo di non mancare.

Veronica Paniccia

 

Foto di Valentino Lulli

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Ettore Fioravanti 4et al 28divino

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Può il linguaggio del Jazz fondersi con la musica pop, con quella d’autore e magari anche con le sonorità psichedeliche? Che ci crediate o no, la risposta è si. E la dimostrazione tangibile di quanto abbiamo appena detto la troviamo nel quartetto di Ettore Fioravanti (Ettore Fioravanti 4et), composto dall’omonimo batterista, da Francesco Allulli al sax, da Marco Bonini alla chitarra e da Francesco Ponticelli al contrabbasso. L’occasione di poter ascoltare questa formazione che ama mescolare queste sonorità ci si è presentata venerdì scorso al 28divino jazz club e, visti anche i precedenti, non ce la siamo lasciata sfuggire.

 

Quindi, torniamo per un momento alla domanda iniziale ed entriamo nel dettaglio. Come fa questo quartetto a far confluire musiche così eterogenee in un unico discorso? Cominciamo col dire che per fare una cosa del genere, ci vuole un gruppo ben consolidato e uno studio quasi maniacale degli interventi strumentali, senza il quale quei silenzi e quelle pause non avrebbero lo stesso effetto. Diciamo, poi, che la voglia di sperimentare ce la devi avere un po’ nel sangue, nel senso che devi essere aperto a confrontarti con stili diversi, e per finire devi essere anche capace di farli confluire in un discorso che abbia un filo logico. E queste caratteristiche il quartetto le possiede proprio tutte quante, insieme ad una buona dose d’ironia che sul palco non guasta proprio per niente.

E veniamo alla serata di venerdì. Il concerto comincia con le note della chitarra di Marco Bonini, un inizio quasi in sordina, con una musica distesa e rilassata, seguito dagli altri componenti che entrano quasi in punta di piedi, senza che ci sia qualcuno che prevalga e creando un’atmosfera adatta all’apertura di un sipario. Proprio come Un’aria di Vetro, titolo di questo primo brano. Poi, quasi a spiazzarti, il basso comincia con un ritmo sincopato che si incastra perfettamente con il tempo della batteria, una musica concitata, molto differente da quella precedente, ma, come vi avevamo accennato in precedenza, è proprio questa la caratteristica del quartetto, quella di non dare punti di riferimento. E quindi, stando a questa filosofia, la musica prosegue, ti prende sempre di più e arriva anche il gioiellino di questo primo set.

Poco prima della pausa, infatti, il gruppo presenta una versione del tutto personale di A walk on the Wild Side, il capolavoro di Lou Red, che ovviamente viene arrangiato in chiave jazz. E questa volta la musica d’insieme, con gli interventi suonati al punto giusto, sostituisce le parole del cantautore americano, fondendosi con la musica pop e allargandosi anche all’improvvisazione. La seconda parte del concerto, invece, è senza dubbio quella più sperimentale, quella in cui vengono toccate le sonorità più particolari che ci fanno capire la vera anima del quartetto. Il brano che ci ha colpito di più, infatti, si chiama Strategia della Tensione. Immaginate una chitarra distorta incastrata perfettamente con il timbro di un sassofono che ci ricorda le sirene della polizia o se preferite un disco volante che sta per atterrare sul pianeta terra. Immaginate tutto questo, che naturalmente viene accompagnato da un ritmo incalzante e deciso, e ottenete la strategia della tensione secondo l’Ettore Fioravanti 4et, una musica che certamente non si allontana dal jazz e che, allo stesso tempo, abbraccia le sonorità più sporche della musica psichedelica. Ed il risultato di questa serata è qualcosa di atipico, di sublime, una sperimentazione che va anche verso il pop e che, grazie all’alchimia dei componenti del quartetto, acquista un’identità ben definita.

Carlo Cammarella

foto di Roberto Panucci

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Stefano di Battista women’s land featuring Gino Castaldo inaugura la nuova stagione dell’Alexandeplatz


Quando parliamo di musica, generalmente siamo portati a credere che un compositore per prima cosa scriva la parte melodica. Magari potremmo dire che è stato ispirato da un’immagine, da qualcosa che lo ha attirato, dal ricordo di un viaggio, da un paesaggio particolare, ma è raro che dietro ad un insieme di composizioni (quelle che poi possono dar vita ad un CD) ci sia un pensiero ben strutturato. Forse detto in questo modo, questo concetto potrebbe sembrare un po’ artificioso, ma questo succede soltanto quando parliamo di musicisti che hanno l’estro o l’intelligenza per creare qualcosa con solide fondamenta.

Perché questo preambolo così noioso? Effettivamente basterebbe esporre le cose così come si sono svolte o descrivere uno per uno i brani della serata che stiamo per raccontare, ma a dir la verità la cosa ci è sembrata un po’ riduttiva. E allora partiamo dall’inizio e diciamo che innanzitutto la riapertura dell’Alexanderplatz non poteva che offrire uno spettacolo migliore con il ritorno di Stefano di Battista, sassofonista di fama internazionale, che ha presentato il suo nuovo progetto Women’s Land. Insieme a lui sono saliti sul palco Roberto Tarenzi, al pianoforte, Dario Rosciglione, al contrabbasso, Roberto Pistolesi, alla batteria, e c’è stata anche la partecipazione straordinaria diGino Castaldo, uno dei critici musicali più importanti in Italia.

E così siamo arrivati al nodo cruciale. Ogni brano proposto dal quartetto è stato introdotto da una lettura di Gino Castaldo: sono le donne del passato, quelle che hanno lasciato il segno nella storia, le protagoniste delle composizioni, ognuna legata al suo tempo, alle sue tradizioni, alla sua natura e anche alla musica del periodo in cui è vissuta. Ed ecco svelato il motivo per cui dietro alle musiche di Stefano di Battista c’è un pensiero ben strutturato, perché queste donne, che siano Anna Magnani, Rita Levi Montalcini, o Lara Croft, hanno preso vita proprio grazie all’ispirazione di un gruppo di musicisti che si sono calati, momento per momento, in epoche, mondi e culture diverse.

Dunque, tornando alla splendida serata che venerdì scorso abbiamo avuto il piacere di vedere all’Alexanderplatz, diciamo che il concerto è cominciato con la descrizione di Rita Levi Montalcini; due note di basso hanno accompagnato la voce di Gino Castaldo che ha iniziato raccontando una parte della vita di questa importante scienziata, quella trascorsa negli Stati Uniti. E poi, dopo questo breve preambolo, è cominciata la musica, il sassofono lentamente è salito d’intensità e ha preso il sopravvento; le parole, ciò che resta del mondo razionale, hanno lasciato il posto alla melodia, all’emotività, all’inconscio del suono. Il brano è cominciato con una melodia molto dolce, per poi approdare in un blues, una musica un po’ nostalgica che ci ha trasportato per qualche istante da un’altra parte, in America, magari quando Rita Levi Montalcini era in vacanza o in una delle sue tante lezioni universitarie. E poi sono arrivate le prime variazioni, la musica si è trasformata in improvvisazione pura fino a tornare al tema originale.

Ma di donne su cui parlare bisogna dire che ce ne sono davvero tante. E quindi è arrivato il turno di Molly Bloom, la Penelope di Joyce, è arrivato quello di Anna Magnani, la cui figura è stata accompagnata da una melodia malinconica che ben si lega all’immagine di una donna fragile e triste. E sempre con un po’ di immaginazione, spaziando da un periodo storico all’altro, il quartetto ci ha fatto avvicinare a Lucy, la prima donna del mondo, passando per Lara Croft, associata ad un ritmo ed una musica più moderni ed incalzanti, fino a raggiungere Coco Chanel, elegante come sempre anche attraverso i disegni del sassofono.

Ogni donna ha una sua musica, un suo linguaggio, qualcosa che la rappresenta o che può essere una fonte di ispirazione. Stefano di Battista questo lo ha compreso perfettamente e per questo ha dato vita ad un progetto del tutto originale, capace di spaziare tra musica e lettura. E quindi, lo possiamo proprio dire, per l’Alexanderplatz non poteva che esserci un’apertura migliore, un modo originale per inaugurare una nuova stagione che sicuramente ci darà modo di apprezzare tanti altri musicisti.

Carlo Cammarella

foto di Mauro Romano

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Report: Claudio Santamaria & Jazz All Star chiudono Parioli in Musica

La scorsa settimana si è concluso il Festival “Parioli in Musica – note di Lunedì” con il concerto diClaudio Santamaria & Jazz All Star. Dunque, un grande successo per la prima edizione di una rassegna che ha visto alternarsi sul palcoscenico del teatro Parioli, da poco tornato ad essere un luogo consacrato alla cultura, tantissimi musicisti di altissimo livello. E per quanto riguarda l’ultimo appuntamento del festival, ecco il nostro report fotografico a cura del nostro fotografo Valentino Lulli.

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The Sky Above Braddock di Mauro Ottolini – una recensione

Facciamo per un attimo un salto temporale e trasferiamoci con la mente a Pittsburgh in Pennsylvania. Proprio nella periferia di questo centro urbano, uno dei più importanti di questo stato, è situato un quartiere chiamato Braddock, un nome che forse non vi dirà niente, ma che comunque ha avuto una storia degna di essere raccontata. Se pensate, infatti, che l’economia di questa cittadina si basava sull’esistenza di un’acciaieria, capirete bene come la città, dopo il fallimento dell’industria siderurgica nel ’50, si sia trasformata in un vero e proprio deserto. Poi, se a questo aggiungiamo che negli anni ’80 il crack ci ha messo, per così dire, il carico da novanta, allora il gioco è fatto ed ecco che Braddock diventa una specie di città fantasma. Una brutta storia, un’epopea del declino, un esodo infernale che qualcuno, però, armato di tanta passione, ha voluto raccontare a suon di note. Unico intento, quello di far rivivere le situazioni e le atmosfere legate ad un periodo, ad un luogo, ad un’epoca che, forse, alla musica hanno dato veramente tanto. E così è nato “The Sky Above Braddock”, un lavoro discografico ideato da Mauro Ottolini, trombonista, e pubblicato da Cam Jazz, che ripercorre in un modo del tutto originale la storia di una cittadina che il tempo ha coperto di polvere forse con troppa cattiveria.

Allegria, tristezza, inventiva e sperimentazione convivono in un lavoro decisamente multiforme in cui le diverse voci di un’epoca parlano attraverso le note di un trombone, di un piano, di un clarinetto, di un sax, di una fisarmonica e, perché no, anche di una batteria che nella seconda track, “Workin man blues”, ci è sembrata somigliare un po’ al suono di un martello utilizzato da un operaio degli anni ‘50. Ma questo è soltanto un piccolo dettaglio, perché l’anima di “The Sky above Braddock” è fatta di tradizione, ma anche di sperimentazione, di suoni distorti, dei lamenti di un popolo alle prese con una crisi che ne ha decretato l’esodo.

La track 3, infatti, “Mayor John”, dedicata al sindaco John Letterman (che a far rinascere la città ce la sta mettendo proprio tutta) sembra quasi un lamento, un sussulto di immagini sfocate che si trasforma in uno strillo di rabbia disegnato da un imponente solo distorto. Magari, chissà? Quando Mauro Ottolini ha arrangiato questa canzone stava pensando proprio a Mayor John, mentre tenta di rimettere in sesto i pezzi di un puzzle ormai andati perduti, oppure al prefisso della Pennsylvania, 6-5000, (titolo di un’altra track) che questo stravagante personaggio ha tatuato sul braccio. E poi c’è anche un brano dedicato a Vicky Vargo, la bibliotecaria, che anche lei ostacola la decadenza della città. Una melodia dolce, accesa di tanto in tanto dal caldo suono di una fisarmonica, che ci fa immaginare una signora armata di occhiali e calamaio seduta nel suo studio a studiare l’anima della sua città.

Ma quello che colpisce in questo lavoro è l’insieme. 8 membri con tre special guestes che riempiono tutti gli spazi vuoti. Chiaramente se parliamo di Mauro Ottoilini, si capisce bene che i fiati avranno un ruolo preponderante, ma gli altri strumenti come il piano, la chitarra e persino la fisarmonica trovano un loro spazio all’interno di una sperimentazione continua che genera una specie di piacevole disordine ben organizzato. Attraverso tutti questi strumenti musicali, Braddock acquista un’altra anima, un’altra voce, riemerge dal passato e fa parlare di sé come se fosse un libro scritto dal suono degli strumenti. Un vero gioiello che coniuga tradizione e sperimentazione e che ci ha fatto veramente venire voglia di aprire un libro per leggere le vicende e i personaggi legati a questo piccolo spaccato di storia.

Carlo Cammarella

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Salvatore Russo featuring Stochelo Rosenberg – La Touche Manouche – una recensione

Suona Gipsy, un abito gitano per questo disco, puro per i puristi, sfizioso per i profani. Nella foto di copertina un uomo stringe un’arma pericolosa quanto affabile: è una chitarra gitana dalla larga cassa e dal suono concentrato nella sua ampia pancia. Intorno granaglie e sassi, immersi in una luce che non appartiene a nessuna stagione. Salvatore Russo e la terra da cui sembra cercare richiamo e ispirazione ci schiudono l’immaginario. Diamo il benvenuto ad uno dei migliori dischi ascoltati fino ad ora “La Touche Manouche” di Salvatore Russo in collaborazione a Stochelo Rosenberg, chitarrista olandese e colonna dello stile Gipsy sulle orme del buon vecchio e saggio – zingaro Django Reinhardt. Abbiamo avuto il piacere di porgere orecchio ad un lavoro che a parer nostro lascerà il segno. Due chitarristi che ripercorrono le orme del Genio sinti, alternando proprie composizioni in linea con la tradizione gitana.

Esemplare la scelta di Salvatore Russo, chitarrista pugliese dal talento caldo e caloroso, che duetta con Rosenberg ( cultore e gigantesco interprete dello stile Reinhardtiano ) in un gipsy jazz che rincorre un tempo secco ed inflessibile. Pubblicato dalla Saint Louis Jazz Collection, questo meraviglioso sodalizio mette in luce due eccellenti chitarristi in una performance di memorabile esecuzione. Russo con la sua esperienza ventennale ed un tocco rispettosamente spavaldo si affianca ad una colonna del genere come Rosenberg, seguendo una linea melodica che dal padre indiscusso del Mood gitano arriva sino ad oggi e la conduce, “uguale a sé stessa” , incontaminata. Un’ esecuzione complessa, un approccio tecnico inflessibile che lascia poco spazio all’errore, una perfezione stilistica che l’intenzione stessa impone. Insomma, “La Touche Manouche” fiorisce tra due Lead Guitar che non perdonano nessun orecchio profano.

Buona la ritmica data dalla chitarra di Franco Speciale nelle tracce in cui prende voce “Made in Italy”, “Bossa Med’’ e la dolce “Anouman” di Reinhardt. Indispensabile  il sostegno del contrabbasso di Marco Bardoscia e della batteria di Alessandro Napolitano in “Minor Swing” e “Made for Isaac”. Semplicemente suggestivo e sublime il tocco del Cajon di Ovidio Venturoso in “Bossa Med”. Ascoltando cogliamo passaggi di tempo e variazioni che vanno dal Gipsy Jazz al Blues alla sanguigna Musica Popolare. E ritrovare tutto questo mondo di voci storiche profuse in un solo disco, è qualcosa che ci fa rendere conto di quanto ci si possa ancora meravigliare con la Musica, che le cose Belle davvero restano quasi sempre le stesse e che, se molto è stato già detto, tutto sta nel “Come” è ancora possibile dirlo; che il linguaggio usato è un’appendice e allo stesso tempo l’orizzonte di comprensione che scegliamo di dare alle nostre emozioni;  che il senso, infine, della nostra vita possiamo chiuderlo in un semplice palmo come fa Russo e regalarlo a voi a noi, nel silenzio che ognuno deve fare dentro di sé per coglierlo. Buona Strada a Russo, a Rosenberg e a tutti i musicisti che hanno scelto di percorrere questo viaggio nella Storia e nella Vita.

Veronica Paniccia

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Laura Lala – Sade Mangiaracina: Pure Songs – una recensione

Il Fender Rodhes di Salvatore Bonafede che ammorbidisce e pettina l’orecchio già dal primo pezzo “In The Night” segna l’ingresso nel patois sonoro languido e sostenuto di “Pure Songs” diLaura Lala eSade Mangiaracinaper l’etichetta indipendente Saint Louis. Disco sorto dalla collaborazione simposiale di due donne, unite ad intenti e tocchi diversi: da quello di Diego Tarantino al basso e contrabbasso, a quello di Claudio Mastraccialla batteria, in comunione con due splendidi sax, il tenore di Piero delle Monache e il soprano diMarco Spedaliere. La “Musica è filosoficamente inconoscibile” sostiene Salvatore Bonafede. E’ vero, filosoficamente si ragiona, ma la Musicalità di questo disco è tutta chiusa nella freschezza e nella spontaneità dei pezzi. Ascoltarlo vuol dire abbandonarsi ad un jazz che si macchia di soul e di cultura popolare siciliana. Un disco ”meticcio” e gustoso.

Laura Lala alla voce è brillante. In “Make us one” la voce fronteggia il registro del sax in maniera sublime. Sade Mangiaracina scorre sul piano con leggerezza e sostegno, ricorda il tocco di Rachel Ferrell, passando incide. Un lavoro che profuma molto di intuizioni femminili. La batteria di Mastracci, che non valica mai il limite dell’equilibrio armonico, lieve e rigorosa sa amalgamarsi alla melodia della voce e sa lasciarle spazio. Diego Tarantino al basso in “The Right Key” sa stargli dietro in un dialogo serrato. I sax di Marco Spedaliere e Piero delle Monache, fraseggiano declinando un registro tipico dei delicati standard imbossanovati alla Getz e dei corposi slanci alla Mulligan. Delle Monache è tondo e corposo.

Interessante l’incontro di tradizione musicale popolare siciliana, jazz classico e tecnica scat che, tra l’altro, richiede una capacità d’improvvisazione non indifferente. Due donne, due bambine (ci permettiamo di apostrofarle per la purezza delle loro intenzioni) da ascoltare nella prospettiva di una passione per la Musica, coltivate con senno e con un “senso” ritmico particolare. Queste ragazze hanno Stile, i loro pezzi sono concepiti nel segno dell’originalità e dell’introspezione: storie d’amore, storie di vita, storie che sanno di mare e di maliconica luna. Consigliamo l’acquisto di questo disco, che si mantiene nella convenzione del genere e si fregia di tocchi virtuosistici senza esagerazioni. Una composizione musicale da “degustare” in un sorso e da assaporare nel ritmo e nelle pause del suo tempo. Siamo curiosi di seguirle in un live per rivisitare il calore che sprigiona dalla voce di Laura in pezzi come “S’iddu moru” con testo ricomposto e tratto da Cavalleria Rusticana di Mascagni. Alla Sicilia e alla Musica dedichiamo questa recensione e lasciamo il passo alle note di Pure Songs e alla sua intrinseca saudade.

Veronica Paniccia

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Antonella Vitale: saggiamente Random – una recensione

Le note molleggiano acustiche e rigorosamente pulite, voce corposa e plasmabile, suoni che sanno diventare spazio. Il disco di cui vogliamo scrivere questa settimana è  “Random” diAntonella Vitale (prodotto dall’etichettaNewMediaPro), artista caleidoscopica ed interprete poliedrica che ha insegnato, tra le altre cose, canto jazz presso il New Mississipi Jazz School e all’Università della Musica di Roma e che si ripropone come voce femminile dai toni accattivanti ripercorrendo in questa sua nuova avventura vecchi classici italiani in chiave inedita.
Interessante già la scelta del titolo Random, un’apparente scelta casuale nel “calderone” cantautoriale del Bel Paese di brani ironici, significativi e leggeri con una verve interpretativa sorprendente: da Scrivimi di Buonocore, passando attraverso le passionali e indimenticabili Anima e Voglio di Più di Pino Daniele, arrivando all’originale riproposizione di Tienimi Dentro Te di Concato.

Uno sguardo d’insieme al disco: la voce della Vitale si affianca al pianoforte dell’emergente e promettenteDomenico Sanna, al contrabbasso di Francesco Puglisi e alla batteria di Alessandro Marzi. Un quartetto ben fornito a cui si sono uniti, ora in un brano, ora in un altro le delicate chitarre di Enrico Bracco e di Roberto Genovesi, la tromba di Aldo Bassi e l’ indimenticabile ritmica delle percussioni di Bruno Marcozzi. Una voce duttile, così è stata definita quella della Vitale che nel disco modella la sua timbrica su ogni brano in modo diverso plasmandosi sul senso di ognuno di essi. Un’ artista matura dal punto di vista tecnico e decisamente creativa, ‘colorata’ potremmo dire noi.

“Un disco nato in stanze vive” sostiene il fonico Stefano Isola che ha curato l’intero lavoro. Compagno nella vita e ‘terapeuta’ del suono come lo definisce la stessa Vitale, ha inseguito e ottenuto con la sua esperienza un suono davvero originale in maniera originale, elaborato in studio, ma con tecniche di ripresa che mantengono lo spirito della performance live. Le sovraincisioni di voci, di percussioni, di doppie chitarre non turbano affatto la naturale organicità dell’insieme che rimane la tendenza alla base dell’idea che sottende il disco. Tra i nomi che l’hanno accompagnata ricordiamo: Nicola Stilo, Fabrizio Bosso, Andrea Beneventano che si alterna al pianoforte di Sanna nel disco e Jerry Popolo, solo per menzionare qualcuno. Da ricordare anche la formazione in duo “Jazz in Tandem” a fianco del chitarrista e arrangiatore Andrea Memeo.

La Vitale costituisce un modello di riferimento negli ambienti jazzistici più vissuti e inossidabili portando sul palco e nel pubblico un’intramontabile piacevolezza dell’ascolto. La ringraziamo per il suo impegno, imprescindibile punto di partenza, la elogiamo meritatamente per la competenza vocalica raffinatamente e sapientemente gestita, la sosteniamo empaticamente nella sua ricerca di una dimensione musicale leggera attraverso elaborazioni sonore e armoniche sempre nuove ed eccellenti.

Veronica Paniccia

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Roma – Tokyo di Red Pellini & Co – una recensione

Da Roma a Tokyo il sax baritono di Red Pelliniammalia e restituisce l’incanto del newyorkese Cotton Club, di quel jazz che si serviva e riveriva durante l’era del Proibizionismo, che sa di ambra e perle ed anche di gangster leggendariamente gentiluomini. Il suo ultimo lavoro “Roma – Tokyo”, che ha preso forma durante gli spostamenti frequenti del musicista tra i jazz club di Roma e quelli della Capitale nipponica, ci ha colpiti ed incuriositi. Fabiano Pellini, conosciuto nel jazz romano come “Red”, ha alle spalle una salda esperienza da direttore d’orchestra e arrangiatore. Si è diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia in clarinetto e, conclusi gli studi classici, ha deciso di dedicarsi al jazz da appassionato virtuoso di uno degli strumenti più complessi (e i cui cultori sono assai rari), il sax baritono.

Con il suo ultimo lavoro prodotto dalla Nuccia Records, Pellini ha riproposto indimenticabili standard come “It’s all Right” e “You do something to me”, nella parentesi Porter Medley e Moonlight Serenade di Miller, in cui la melodiosa voce di Aidy Manas si accompagna allo scuro e malinconico sax di Pellini, nonché all’ottimo tocco al pianoforte di Giorgio Cuscito, ineffabile collaborazione che si unisce a quella dell’alto eccellente pianista Adriano Urso. Ancora un medley ad incorniciare le tracce del disco, quello “simpaticamente” dedicato ad una Roma che ci piace immaginare notturna e più statunitense che mai: “Roma nun fa la stupida stasera” e “Arrivederci Roma”, in cui un Sound languido e delicato si unisce ad un vivace soffio Dixie.

Imprescindibile l’altro dei due brani vocali del disco: “Blow Again Francesco”, scritta dallo stesso Pellini e interpretata dalla seconda voce (non certo in ordine di qualità o importanza) di Sebastiano Forti. La batteria è lasciata ad Alfredo Romeo e alle sue bacchette rodate ed affinate da numerose collaborazioni, tra cui ricordiamo quelle con Lino Paturno e George Masso. Spazio ritmico con l’estro jazzistico di uno dei più richiesti e attivi contrabbassisti Guido Giacomini.

Un disco “Roma – Tokyo” che vi invitiamo ad ascoltare, frutto di un lavoro che non vuole essere incomprensibilmente di nicchia e pretenzioso, ma piuttosto musicale, e che potrebbe essere un buon ponte sonoro, nelle convenzioni del jazz classico, per un genere in sé complesso e troppo spesso assai rarefatto. Ciò che ci ha colpiti maggiormente, infatti, è quella semplicità che viene sostenuta da una sensibilità musicale eccellente e da una naturalezza molto vivace, che di certo non appesantiscono gli stili musicali che confluiscono in questo progetto. Insomma, un buon disco che abbiamo notevolmente apprezzato per la bravura degli interpreti e soprattutto per il piacere che ci ha suscitato nell’ascoltarlo.

Veronica Paniccia

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