Jazz Agenda

Carlo Cammarella

Carlo Cammarella

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Fabio Zeppetella racconta Wordless Song: “La ricerca melodica è un valore al quale siamo fedeli”

Pubblicato da Emme Record Label, Wordless Song è l’ultimo disco che porta la firma dei due maestri Fabio Zeppetella ed Umberto Fiorentino. A 12 anni di distanza dal primo disco in duo, intitolato Temi Variazioni e Metamorfosi, un progetto interamente composto da composizioni originali. Un lavoro caratterizzato da una spiccata ricerca armonica, da grande senso melodico con un’apertura al jazz contemporaneo e all’elettronica. Fabio Zeppetella ha raccontato a Jazz Agenda questo ultimo disco.

Fabio, per cominciare l'intervista parliamo subito del disco “Wordless Song”: quali sono le differenze innanzitutto rispetto al precedente “Temi Variazioni E Metamorfosi”?

La differenza fondamentale è che il primo cd era un album basato su 4 classici del jazz; ognuno di questi 4 brani aveva una variazione, che molto spesso era tematica, ed una metamorfosi, che si allontanava completamente dal brano originale. Mentre in Wordless Song abbiamo solo scritto brani originali e anche provato ad improvvisare e sperimentare in studio. Alcuni brani sono nati proprio cosi.

Un disco in cui sono presenti diversi linguaggi, dove non manca l’utilizzo dell’elettronica e dove tradizione e sperimentazione si fondono: Vuoi descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Come dicevo prima ci siamo lanciati in una zona dove abbiamo sperimentato. Sì, anche l’uso degli effetti e dei loop ci ha aiutato ma è stato un lavoro in divenire. 

Possiamo dire che la ricerca melodica è uno dei tratti distintivi del vostro personale percorso musicale e anche di quello che avete svolto insieme?

Sicuramente la ricerca melodica è un valore al quale siamo molto fedeli. A mio avviso è un valore assoluto ed è qualcosa che in qualche modo restituisce alla musica il valore della poesia cosa che spesso viene poco considerata.

Sappiamo che la tua collaborazione con Umberto Fiorentino è nata diverso tempo fa: ci vuoi raccontare come è nata e poi come si è evoluta nel corso del tempo? 

Innanzitutto devo dire che conosco Umberto da fine anni 70 quindi da una vita. Ci scambiavamo dischi, anzi era più lui che mi prestava i suoi dischi perché era molto curioso di conoscere nuovi jazzisti mentre io avevo solo dei classici Coltrane, Davis, Rollins etc. Inoltre suonavamo spesso insieme. Poi dopo tanti anni abbiamo deciso di fare un disco in duo e così è nato “Temi variazioni e metamorfosi”.  Poi abbiamo detto che avremmo fatto anche il secondo è dopo 12 anni, abbiamo dei tempi molto dilatati, è nato Wordless Song.

Un disco è per voi un punto di partenza o rappresenta invece un punto di arrivo?

Che domanda... (ride) Il disco è un punto. È qualcosa che lasciamo agli altri in un determinato periodo storico. Come si fa a pensare che possa essere un punto di arrivo o di partenza. È una fotografia che riprende l’artista in un momento del suo percorso un po’ come un quadro per un pittore.

Facciamo un paragone fra voi due: cosa vi contraddistingue principalmente, quali sono le vostre affinità artistiche e soprattutto le peculiarità che contraddistinguono ognuno di voi?

Amiamo la musica entrambi e abbiamo dei gusti musicali che si incontrano spesso ma poi subentra la personalità, anzi direi la struttura di ognuno. Umberto ha una struttura che per sua natura è molto scientifica e razionale ed io più istintiva e intuitiva. Ovviamente ognuno di noi due conoscendo se stesso, cosa fondamentale per un musicista e non solo, e ha il compito di lavorare su quello che gli viene meno naturale per avere un’evoluzione più completa.

Anche se è un periodo piuttosto difficile ci piace chiudere sempre le nostre interviste con una proiezione verso il futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

In verità avremmo dovuto presentare il nuovo cd alla Casa del Jazz e non solo ma per ora è tutto in standby. Abbiamo diverse richieste per l’estate ma speriamo che la situazione che stiamo vivendo in questo periodo possa finire al più presto e ci possa far tornare tutti alla normalità.

Giulia Salsone racconta il disco Hand Luggage: esordio di Ajugada Quartet

Una band che fonde il jazz con la musica latino americana, creando un linguaggio unico ed originale. Hand Luggage è il disco d’esordio di Ajugada Quartet, formazione tutta al femminile composta da Antonella Vitale alla voce, Gaia Possenti al pianoforte, Danielle di Maio al sax alto e soprano e Giulia Salsone alla chitarra. Quest’ultima ha raccontato a Jazz Agenda questo lavoro uscito recentemente per l’etichetta Filibusta Records:

“Ajugada Quartet nasce circa tre anni fa, Gaia e Danielle stavano suonando in duo con un progetto su brani prevalentemente originali, mentre Giulia ed Antonella condividevano spesso palchi e musicisti con i quali collaboravano ma ancora senza realmente incontrarsi. Dopo qualche iniziale esperimento improvvisativo abbiamo appurato che l'alchimia che si creava fra di noi era particolare e unica, abbiamo così organizzato una serie di sessioni di prove e registrazioni che hanno portato in breve alla realizzazione di brani come “Kind folk”, “Palhaço” e “Yo vengo a ofrecer mi corazon” con una nostra personale interpretazione alla musica di grandi autori. In ogni composizione c’è un’attenzione e cura dell’arrangiamento, la parte più stimolante del lavoro di gruppo. Abbiamo tutte dei riferimenti musicali ampi e diversificati, non solo verso il jazz, che comunque rimane la nostra base principale per quanto riguarda l’interplay e l’improvvisazione, ma anche con sonorità prive di riferimenti specifici, anzi la scelta di non includere nel progetto la batteria ed il contrabbasso ci ha fortemente spinto alla ricerca di un suono che fosse il nostro punto di forza e che rappresentasse lo stile di Ajugada Quartet.” 

Giulia Salsone ci racconta anche il percorso che ha portato alla nascita del disco:

“Il senso del viaggio viene dalla musica nella quale ci siamo immerse, inizialmente era “Il giro del mondo in 10 canzoni”, tra Brasile, Argentina, Giappone e Armenia. In seguito abbiamo cominciato ad inserire composizioni originali di tutti i componenti del gruppo dando al quartetto una maggiore identità senza perdere il senso del viaggio. Nasce così “Hand Luggage”il primo CD del gruppo, il cui titolo richiama quello del brano di Danielle di Maio. Con un bagaglio a mano, un modo di viaggiare in leggerezza con la sensazione particolare che si ha durante i viaggi di grande libertà e di conoscenza quando ascoltiamo di più, osserviamo di più, sentiamo odori e vediamo colori con maggiore intensità. Per questo, oltre al quartetto con Antonella Vitale alla voce, Danielle di Maio ai sassofoni, Giulia Salsone alle chitarre e Gaia Possenti al pianoforte, troviamo ospiti in due brani lo straordinario Juan Carlos Albelo Zamora all’armonica da Cuba e l’altrettanto eccellente Neney Santos alle percussioni dal Brasile.”

Una tappa fondamentale, dunque, di un percorso musicale in cui si raccontano anche esperienze vissute. A proposito Giulia Salsone conclude dicendo che:

“Questo disco è per noi una tappa dove ci incontriamo e raccontiamo le esperienze vissute trovando l’ispirazione per proseguire il percorso musicale con la curiosità del viaggiatore.”

Fabio Castaldi racconta la nascita dei Pink Floyd Legend

Saranno di scena presso l'Auditorium Conciliazione il 21 novembre dove porteranno in scena lo spettacolo “Atom Heart Mother”. I Pink Floyd Legend sono infatti la più importante tribute italiana della celebre band britannica che ha lasciato ai posteri alcuni dei più grandi capolavori del rock. Fabio Castaldi, bassista e vocalist della band, ci ha raccontato la genesi di questo progetto che li ha portati a calcare alcuni dei palcoscenici più importanti del territorio nazionale.

"Ognuno di noi - spiega Fabio Castaldi - ha maturato questa passione personalmente, ognuno di noi esegue i brani di questa band perché innamorati della musica dei Pink Floyd. Dal 1999, anno nel quale decisi di fondare un tributo ai Pink Floyd, ho avuto sempre la piccola ossessione di trovare degli emuli estremamente fedeli agli originali che rispettassero l’esecuzione dei Pink in tutte le sue parti, cantate e suonate senza nessun tipo di deroga …oggi posso dire di aver trovato la mia All Star Band floydiana. Andrea Fillo, che è il nostro David Gilmour, è stato il primo a sposare il progetto PFL portando con se un “bagaglio” di fedeltà di suono davvero impressionante , poi si è aggiunto Alberto Maiozzi, Nick Mason, il “piccolo grande” del gruppo con il suo indiscutibile tocco floydiano,  ed infine Simone Temporali pianista a tutto tondo: da Mozart al nostro Rock preferito. Le nostre “special guest” sono: Michele Leiss sassofonista poliedrico di grande precisione, Martina Pelosi, Giorgia Zaccagni e Sonia Russino le voci femminili e Paolo Angioi polistrumentista d’eccellenza. Non posso però non citare Andrea Arnese anima “esterna” del gruppo con le sue videoproiezioni e gli inserti audio e le sue incursioni sul palco."  

Come nasce invece questo spettacolo? Che tipo di lavoro c'è dietro a questa ricostruzione di questo progetto. A proposito Fabio castaldi prosegue dicendo che: 

"Questo tipo di spettacolo è il frutto di una ricerca maniacale di strumenti originali, partiture e soprattutto dello studio fatto sui live della band negli anni. Per farvi un esempio, ci sono voluti 2 anni per arrivare ad avere un Farfisa Compact Duo (anno 1965), organo che Richard Wright ha usato fin dagli inizi. E non solo, abbiamo impiegato quasi un anno per trovare un Binson Echorec 2, altra perla che veniva usata da David Gilmour nei suoi show. Lo spettacolo che vedrete ricalca lo stile Floyd in ogni scelta, dalla disposizione sul palco dei musicisti alla scenografia fino al disegno luci a  agli effetti speciali, marchio di fabbrica dei Pink Floyd negli anni."

Carlo Cammarella

Live Report: La reunion degli Area alla Casa del Jazz

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Una fresca giornata estiva con un cielo stellato che avvolge il palcoscenico della Casa del Jazz. E’ questa la cornice in cui hanno suonato gli Area, storico gruppo degli anni 70’, che abbiamo avuto il privilegio di ascoltare proprio ieri nel parco all’aperto di questa splendida struttura. Ad aprire il concerto, ci ha pensato il Luigi Cinque Opera Quartet. E appena il Sole è tramontato, dopo una breve presentazione del gruppo, la parola è passata subito alla musica. Questa formazione, dalle forti tinte sperimentali, è composta da Alexander Balanescu al violino, Salvatore Bonafede al pianoforte,Luigi Cinque ai clarinetti ed elettronica e Patrizio Fariselli (membro degli Area) al pianoforte e tastiere. E cominciamo col dire che la musica di questo quartetto è qualcosa che esce fuori da qualsiasi identificazione o etichetta. La partenza viene affidata ad un tappeto di note dissonanti che generano uno stato di tensione, o se preferite una specie di disordine primordiale con una logica ben precisa. Una musica lasciata in sospeso, che nella seconda track si trasforma in qualcosa di più concreto, in una melodia più nitida ed orecchiabile, che con un po’ di fantasia ci trasporta, perché no, nei paesi balcanici al centro di una piazza in festa. Il concerto prosegue e poi, quasi a spiazzarti, trova la sua conclusione in “Tangeri Cafè”, brano che comincia con una base dance e che si conclude sotto le note di una inaspettata cornamusa. E dopo questa breve parentesi arriva il momento tanto atteso. Senza che nessuno se ne accorga, dopo un breve periodo di pausa dovuto al cambio di palco, Paolo Tofani si siede sul palco a gambe incrociate con uno strano strumento in mano.

Ora, se avete presente almeno un po’ come si presentava un po’ di anni fa, forse penserete che di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta. E infatti, lasciati gli Area nel 1977, Tofani intraprese, un cammino spirituale che lo portò a diventare monaco, cosa che non gli impedì di continuare a sperimentare con l’elettronica, con strumenti tradizionali e con la fusione fra essi. E dopo quasi 35 anni dalla sua ultima apparizione con gli Area eccolo qui, con un look (passateci il termine) molto diverso, ma con la stessa voglia di suonare e con la stessa ironia di sempre. Lo strumento che ha in mano, costruito apposta a Cremona in una forma elettrificata, si chiama “Trikanta Veena a tre voci” e proviene dalla tradizione indiana. E che ci crediate o no con l’ausilio dell’elettronica fa delle cose davvero incredibili. Dunque, questo musicista geniale, serafico nel suo modo di stare sul palcoscenico e perfettamente a suo agio davanti al pubblico, comincia ad improvvisare su melodie orientaleggianti che ci trasportano in luoghi dal sapore mistico ed esotico. E mentre esplora universi paralleli per noi incontaminati, utilizzando al meglio tutte le potenzialità del suo strumento, il volume in uscita comincia a gracchiare un po’. Lui, immerso nella sua calma, non si perde d’animo e ci scherza su: “Forse agli angeli non piace la mia musica” commenta rivolgendosi al pubblico presente e in pochi minuti tutto torna alla normalità. A questo punto subentra la parte elettronica e si cambia registro.

Le melodie cantate dalla Trikanta Veena, strumento che ci ha davvero sorpreso, si mescolano con i suoni sintetizzati e ne fuoriesce una musica che sembra provenire da un altro pianeta. La tradizione si fonde con la sperimentazione, con il futuro, con delle sonorità che, giusto per darvi un’idea, potrebbero essere uscite da un film come 2001 Odissea nello Spazio. E a questo punto il momento tanto atteso è arrivato. Tofani, che durante il concerto non si è mai alzato in piedi, presenta Ares Tavolazzi al basso, Patrizio Fariselli al pianoforte e tastiere e il batterista Walter Paoli, questa sera ospite dei tre membri degli Area. E con l’entrata di tutti i componenti di questa formazione, la reunion vera e propria comincia con un groove incalzante e con tutta la potenza che da sempre li ha contraddistinti. Dopo un’introduzione della band, Fariselli presenta al pubblico il brano “Sedimentazioni” che non è altro che una sintesi di tutti i brani più rappresentativi del gruppo. L’unico problema è che tutte le composizioni vengono riproposte tutte insieme in una sorta di Big Bang apocalittico e sorprendente. Quindi, dopo un momento lasciato all’ironia, comincia il concerto vero e proprio, fatto di nuove composizioni, tratte dai singoli progetti di ognuno, e dai pezzi più classici del repertorio della band. Ad arricchire la performance ci pensa anche Maria Pia de Vito che sale sul palcoscenico per unirsi al quartetto. Il secondo brano a cui prende parte, secondo quanto ha detto Fariselli sul momento: “Racconta la storia una cometa”. Ora, queste parole, dette in una calda notte ricoperta di stelle, ci hanno fatto pensare, chissà poi perché, a tre re che seguono la loro pista tracciata nel cielo. E il brano, in cui si distingue il suono nitido del sintetizzatore, si risolve in una melodia arabeggiante che ci fa pensare a qualcosa di sacro ed ancestrale. La voce potente di Maria Pia de Vito disegna geometrie perfette e quando la musica diventa più minimale esce fuori con tutta la sua potenza.

C’è anche lo spazio per conoscere qualcosa di nuovo. Il brano successivo, infatti, si intitola “Epitaffio di Seikilos” e si tratta di un omaggio, o se preferite una reinterpretazione, del più antico esempio sopravvissuto di composizione musicale, ritrovato su una lapide in Turchia. Fariselli spiega al pubblico che questa melodia, la più antica a noi pervenuta, è stata dedicata da Seikilos alla moglie defunta. E lui la reinterpreta con leggerezza regalandoci un attimo di intimità e rilassatezza. La fase successiva del concerto è dedicata ai brani del repertorio più conosciuto e non mancano brani come l’Elefante Bianco e in ultimo Gioia e Rivoluzione, che riscalda un pubblico più che mai in estasi. E poi loro sono sempre gli stessi, sembra che il tempo, anche se c’è qualche capello bianco in più, non sia mai passato e l’energia sprigionata dalle loro note è sempre coinvolgente. Per noi, che non abbiamo vissuto quell’epoca, è una fortuna poter vedere una formazione così eclettica capace di mescolare generi, stili e tendenze. Ascoltare dal vivo un brano come Gioia e Rivoluzione non ha potuto che farci sentire dei privilegiati proprio perché ci ha fatto intravedere lo spirito di un’epoca passata, che ha segnato in maniera indelebile le rotte musicali delle generazioni future. E forse era proprio vero che a quell’epoca: “Combattere una battaglia con il suono delle dita” era una cosa possibile.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

Live Report: alla centrale Montemartini il MAT trio

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Straordinario esempio di come vecchio e nuovo possono convivere insieme in armonia, la Centrale Montemartini, situata a via Ostiense nei pressi di piramide, oltre ad essere una location ricca di fascino, è anche un luogo dove spesso e volentieri si può ascoltare del buon jazz. Parliamo di una centrale termoelettrica inaugurata nel 1912 che da un lato ci fa pensare a come eravamo un po’ di tempo fa, dall’altro ci offre la possibilità di guardare degli esempi più che degni di arte antica. E se il posto che abbiamo avuto modo di visitare lo scorso venerdì ci ha dato modo di fare dei paragoni, se non altro fra due mondi agli antipodi, anche la musica che abbiamo ascoltato ci ha dato modo di arricchirci attraverso un gioco di contrasti, si suoni, di luci e colori. La formazione che è salita su questo palcoscenico è ilMAT trio, acronimo del trio di Marcello Allulli, sax tenore, direttore artistico, compositore e arrangiatore, di cui fanno parte anche il chitarrista Francesco Diodati e il batterista Ermanno Baron

E allora, giusto per darvi un’idea di quello che abbiamo avuto modo di ascoltare (e vedere…) venerdì, possiamo cominciare col dire che la musica, soprattutto quando si parla di jazz, forse è l’unica arte che ha la capacità di deliziare l’udito con delle vibrazioni capaci di addolcire i nostri timpani. Se a questo aggiungiamo che anche i nostri occhi sono rimasti piacevolmente sorpresi da quello che abbiamo visto, forse ben comprenderete che in quella sera, a quella data ora, c’era anche un’alchimia in più rispetto ad un normale concerto. La musica, infatti, è stata sempre accompagnata da immagini video che scorrevano sotto i nostri occhi. Ma non parliamo di semplici riprese, come potrebbero esserlo quelle che guardiamo ogni giorno in Tv, ma di qualcosa che era ben studiato, costruito e a volte creato sul momento. In altre parole una forma d’arte che ne incontra un’altra e la completa dandole una sorta di potere narrativo che forse avrebbe anche da sola, ma non con la stessa potenza e introspezione.

E veniamo alla serata vera e propria. Il brano con cui il MAT trio esordisce è Time, una rivisitazione dell’omonima composizione fuoriuscita dal genio di Tom Waits. E’ un inizio in sordina, malinconico, una maniera dolce per alzare un sipario immaginario superato il quale si è immersi nell’oblio della poesia e della musica. Questo trio inoltre è una formazione atipica, un po’ fuori dagli schemi, che premia il timbro degli strumenti piuttosto che il virtuosismo portato all’eccesso. E mentre il concerto prosegue, le immagini scorrono dandoci a volte una diversa prospettiva di quello che sta accadendo sul palcoscenico. L’ultimo sogno, terzo brano di questa splendida serata, composto dallo stesso Marcello Allulli, è una sorta di crescendo in cui il sassofono a tratti dà sfogo a tutta la sua potenza, a tratti mostra tutta la sua dolcezza. E mentre la musica cresce producendo colori del tutto originali, il video la accompagna riproponendo, attraverso un’altra prospettiva, quello che succede sul palco. Come se fosse una narrazione vista da un’altra angolatura, o una storia che sembra svolgersi in parallelo. Sono immagini distorte della realtà, immagini che sembrano catturate da qualcuno che spia attraverso il buco di una serratura. Non importa se questo avvenga attraverso la ripresa del sax di Marcello, attraverso un piede che batte sulla gran cassa o attraverso delle dita che pizzicano una chitarra. Quello che è importante è, infatti, la visione che ne esce fuori. Come se guardando la stessa cosa da diverse prospettive si riuscissero ad estrapolare un altro racconto, un’altra storia, un’altra parentesi. E il concerto scorre velocemente coinvolgendo anche il pubblico in prima persona.

Altro brano di cui ci piace parlare è senza dubbio Hermanos, title track dell’ultimo lavoro del trio, che Marcello Allulli introduce al pubblico con una spiegazione. Gli “Hermanos” sono i nostri fratelli, quelli che durante un periodo difficile, ovvero l’unità d’Italia, per fame e miseria si sono dati alla macchia diventando i famosi briganti. Sono tutti quelli che per sopravvivere hanno cercato un’altra via e che sono stati accusati di andare contro uno stato che semplicemente li ha resi quelli che sono. E la musica a questo punto diventa una storia, la storia dei nostri bis nonni, la storia di un popolo che ha patito soprusi e miseria, narrata attraverso una melodia semplice, malinconica e popolare. Una storia che magari ci porta con la mente a quei focolari accesi in una foresta, dove si radunano tutti quei fuorilegge che per scacciare la nostalgia di una casa, di una donna, di tutto quello che hanno perduto in una volta sola, cantano insieme in un canto accorato. Insomma, un concerto dai mille volti, arricchito da diverse sfaccettature e visto da diversi punti vista. C’è tempo per una rivisitazione del famoso brano di Fabrizio de André, la canzone di Marinella, c’è tempo anche per ascoltare una piacevole rivisitazione del famosissimo brano Besame Mucho e c’è tempo per coinvolgere il pubblico in un coro a tu per tu con i musicisti. E quello che possiamo dire è che è stata una serata veramente molto intensa, intrisa di musica e contenuti, che forse, da quello che vi abbiamo appena raccontato, vi sembrerà che si sia svolta in una giornata intera, quando invece è durata per poco più di un attimo.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

Live Report: Stewart Copeland alla Casa del Jazz

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Ci sono musicisti che anche con il passare del tempo rimangono sempre gli stessi, magari con qualche capello bianco di troppo, ma con la stessa grinta e voglia di esibirsi che sembra quasi appartenere agli adolescenti. Tra questi c’è Stewart Coplend, storico batterista dei Police, che venerdì scorso abbiamo avuto modo di vedere alla Casa del Jazz, in questa splendida cornice che per una notte ha messo da parte il Jazz per “ospitare” un evento molto particolare. E mentre il Sole sta per tramontare, in un venerdì ancora scandito dal traffico cittadino, mentre gli ultimi ritardatari cercano di trovare un improbabile parcheggio molto lontano dal luogo del concerto, davanti al botteghino c’è una fila che sembra non finire mai, tipica di quei concerti che richiamano un gran numero di fan. Entriamo, allora, nel vivo di questo racconto; la pima cosa che possiamo dire è che quello di venerdì non è stato un vero e proprio concerto, ma forse la celebrazione di un personaggio affascinante ed intelligente che ha suonato nelle arene più grandi del mondo, con uno dei gruppi più famosi al mondo, davanti a centinaia di migliaia di persone. 

Usiamo la parola “celebrazione” non a sproposito, perché il concerto di Stewart Copeland non comincia proprio subito. Dopo una breve esibizione del “Copeland Junior”, con i suoi Hot Head Show, infatti, la serata entra nel vivo ed il batterista dei Police, che dopo tanti anni sembra ancora agile come una gazzella, sale sul palcoscenico della Casa del Jazz presentato da Gino Castaldo e Vittorio Cosma. E la prima parte di questa serata ha inizio con la presentazione, fatta tramite intervista, della biografia di Stewart Copeland, “Strange Things Happen”, libro pubblicato da Minimum Fax in cui questo musicista, in maniera forse estemporanea, ripercorre la sua vita e alcune delle sue tappe fondamentali. Da qui vi raccontiamo un aneddoto divertente della serata. La presentazione del libro viene, infatti, accompagnata da alcuni video e in uno di questi Stewart Copeland, probabilmente per girare uno spot pubblicitario, si trova in sella ad un cavallo in mezzo a delle giraffe: “Ci sono voluti tre giorni per girare quei 20 secondi” confessa ridendo davanti al pubblico e raccontando che il cavallo aveva una paura folle degli animali selvatici… Giraffe comprese. Insomma, questa prima parte della serata se ne vola via così, con un batterista che scopriamo essere un intrattenitore anche seduto su di una poltrona piuttosto che su di uno sgabello con il sedile rotondo.

Quindi, al termine di questa breve intervista Stewart saluta per un momento il pubblico, che per la verità stava anche cominciando a sbuffare un po’ per la lunga attesa, ed esce dalla scena per prepararsi a suonare. Pochi minuti ed il concerto vero e proprio comincia. La line-up è composta da  Vittorio Cosma (purtroppo per lui un braccio ingessato), Armand Sabel Lecco, Cesare “Mac” Petricich e Giovanni Imparato; il sound da loro proposto è un misto di rock, reggae, musica popolare, forse salentina, condito da una chiara matrice mediterranea. Sonorità che forse Copeland ha interiorizzato nei suoi lunghi periodi di permanenza in Italia e che ora ripropone attraverso questa nuova formazione. Come special guest della serata si sono alternati sul palcoscenico John de Leo, ex cantante dei Quintorigo, Max Gazzè che per l’occasione ha cantato Don’t box me in dei Police (in un modo che non possiamo di certo definire impeccabile) e Niccolò Fabi che si è cimentato con Does everyone stare. Una performance nel complesso piacevole che, tuttavia, è durata per circa tre quarti d’ora, lasciando gran parte dei fan, che si aspettavano di ascoltare i bani più famosi dei Police, con un po’ di amaro in bocca. Rimane sempre il fatto che la location in cui si è svolto l’evento è la Casa del Jazz, che per noi rimane sempre un luogo accogliente e affascinante, specie quando la bella stagione è ormai sopraggiunta.

Carlo Cammarella

Foto di marco Trombetta

Live Report: Vito Favara presenta Even If al Be Bop Jazz Club

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Di giovani talenti che meriterebbero di avere maggiore spazio nel panorama jazzistico capitolino ce ne sono davvero tanti. Fra questi abbiamo il piacere di segnalarvi un giovane musicista siciliano, ormai trapiantato a Roma da un bel po’ di tempo, dal nome Vito Favara. Un pianista originale e virtuoso che venerdì scorso abbiamo avuto modo di ascoltare nel rinnovato Be Bop, un luogo centrale per il jazz romano che dà anche molto spazio ai giovani talenti che forse meriterebbero più attenzione. Ad accompagnare questo ragazzo siciliano, che armato di tanta passione ha girato l’Europa per poi trapiantarsi nella nostra città, c’erano due veterani del Jazz romano: Francesco Puglisi al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria. Dunque, un trio, la formazione che per eccellenza mette in risalto le potenzialità del pianoforte e che attraverso l’essenzialità, secondo noi, raggiunge la perfezione e la giusta stabilità fra ritmo e melodia.

E il concerto comincia sotto le note di “Even If” title track di un album che un orgoglioso Vito Favara ha presentato la sera stessa al pubblico presente. In questo brano, che ha dato il via ad un concerto veramente molto piacevole, abbiamo avuto modo di ascoltare come un giovane musicista, che di talento ne ha da vendere, riesca a giocare con questo strumento, passando dalle costruzioni armoniche, fatte da accordi ascendenti e discendenti, ad assoli velocissimi e musicali. E forse sta proprio qui l’originalità di Vito Favara, nel saper giocare con questo strumento, nel non prendersi troppo sul serio e nel divertirsi a cambiare l’intensità del brano che viene suonato, in questo caso di chiara matrice Even 8. Ma se un concerto comincia in un modo, non è detto che non sia possibile cambiare registro. E così c’è anche il tempo per uno standard, ‘Il Fascio Blues’ che ci fa viaggiare per un po’ nelle atmosfere degli anni ‘50 a tempo di swing. Un ritmo incalzante, divertente, a tratti arrembante, che ci fa pensare alle pellicole in bianco e nero e al fascino di un’epoca che ci ha lasciato un retaggio musicale davvero importante.

Ma sono i pezzi originali quelli più intriganti della serata. Nella composizione Peace for Peace, il brano che senza dubbio ci ha colpito di più, esce fuori tutta l’originalità del Vito Favara compositore. Un brano malinconico, dal sapore (secondo noi) latineggiante in cui spicca la sensibilità di un musicista attento (e brillante allo stesso tempo) e in cui c’è anche il tempo per invertire un po’ le carte in tavola. Per un breve istante, infatti, mentre il contrabbasso esce fuori tenendo la linea melodica, il pianoforte fa da supporto armonico, generando una piacevole sensazione di intimità e rilassatezza. E prima che finisca il primo set c’è anche il tempo ascoltare un brano in ¾, White Flowers, in cui la pulsazione della batteria viene accompagnata da assoli velocissimi e da rapide armonizzazioni. A fotografare l’attimo ci pensa la luce del locale che piano piano si abbassa generando un’atmosfera calda e accogliente che ben accompagna il brano che conclude questa prima sessione del concerto.

Il secondo set prosegue sempre con la stessa filosofia, dando ai singoli lo spazio che meritano, e offendo al pubblico presente tutta la passionalità e la raffinatezza che, unite al giusto tocco musicale, trasmettono emozione e voglia di stupire. E il concerto scorre veloce, leggero e intimo, fino all’ultima immagine che il pianoforte di Vito Favara disegna davanti ai nostri occhi, rendendoci contenti di aver potuto osservare dal vivo un pianista che sicuramente troverà il giusto spazio nel panorama capitolino.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

Live Report: Lorenzo Tucci Trio – un esordio al Music Inn

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Seguire un concerto in un jazz club è sempre un’esperienza particolare. C’è sempre una forte intimità (o empatia se preferite) fra pubblico e musicisti e c’è sempre l’occasione di osservare tante cose che in un altro tipo di locale sarebbe più difficile notare. Dai semplici sguardi di intesa che potrebbero scambiarsi un bassista e un pianista prima di passare da un assolo al tema principale, dai sussurri con cui alcuni musicisti accompagnano il suono dello strumento, dalle contrazioni dei muscoli che avvengono quando un batterista percuote il suo strumento. Questa atmosfera l’abbiamo percepita in pieno sabato scorso alMusic Inn, storico locale di Roma che, con nostra grande gioia, ha da poco riaperto i battenti.

E nella serata di cui vi stiamo per parlare, in questa splendida cornice situata nel centro di Roma, hanno suonato dei giovani musicisti che, armati di tanto talento e voglia di fare, hanno voluto cimentarsi con uno dei mostri sacri del Jazz, John Coltrane. Il progetto si chiama per l’appunto Tranety, un gioco di parole che deriva proprio da Trane, soprannome che gli amici davano a questo sassofonista geniale. E i musicisti di cui vi stiamo per parlare, invece, sono tre: Lorenzo Tucci, batterista e leader di questa formazione, Claudio Filippini al pianoforte e Luca Bulgarelli al contrabbasso, tutti giovanissimi, affiatati e ansiosi di cimentarsi in un progetto così coraggioso affidandosi proprio ad un trio, formazione essenziale, ma perfetta ed autosufficiente.

Insomma, un tuffo nell’universo di Coltrane! Così possiamo descrivere un concerto che fin dai primi brani ci ha fatto capire lo stile deciso con cui Lorenzo Tucci e il suo trio hanno affrontato la serata. Un’empatia perfetta che abbiamo compreso fin da subito grazie al ritmo incalzante, alla velocità di esecuzione, alla sincronia perfetta con cui sono stati riproposti brani come Moment’s Notice, Lonnie’s Lament, oppure Afro Blue, scritto da Mongo Santamaria, suonato spesso da Coltrane e riprodotto in maniera eccellente con ampio spazio all’improvvisazione. C’è tempo anche per alcuni brani inediti di Lorenzo Tucci, come Hope e Soltice e per una struggente Ivre in Paris di Claudio Filippini; c’è tempo anche per ascoltare un gioiellino come Over The Rain e per raccontare la storia di John Coltrane con musica e parole.

Ascoltando Cousin Mary, infatti, brano che il sassofonista ha dedicato alla cugina e che Lorenzo Tucci ha presentato personalmente al pubblico, noi, con un po’ di fantasia, ci siamo immaginati un ragazzo tenace seduto su uno sgabello con davanti uno spartito aperto. Un ragazzo che studia fino a tarda sera e che vuole a tutti i costi suonare davanti ad un pubblico che prima o poi lo adorerà, proprio come il trio di Lorenzo Tucci che di voglia di stare su di un palcoscenico ne ha veramente tanta. E forse questa musica martellante che sembra non fermarsi mai, che sfocia nell’improvvisazione e che si risolve spesso in ritmi incalzanti e sincopati, per un momento ci ha trasportato con la mente da un’altra parte, in un’altra epoca, o in un altro continente… Magari quando John Coltrane suonava nei locali più in dell’epoca deliziando il pubblico con quello stile innovativo che tutti gli amanti del Jazz a posteriori ricorderanno per sempre.

Carlo Cammarella  

Foto di Valentino Lulli

Il Jazz fra due mondi – intervista a Lucio Ferrara

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E’ un progetto dal chiaro sapore internazionale quello che abbiamo avuto modo di ascoltare ieri alla Casa del Jazz, un disco che racchiude anni di viaggi e di lavoro ricchi di entusiasmo. Parliamo dell’ultimo lavoro del chitarrista Lucio Ferrara, “It’s all right with me”, presentato ieri in una delle location più belle della capitale. Insieme a lui c’erano Nicola Angelucci (batteria) e Luca Mannutza(hammond) due musicisti che Lucio conosce bene, con i quali ha condiviso molte esperienze e che hanno preso parte ad un progetto cominciato dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti. Dunque, un disco a cui hanno partecipato, oltre ai nomi appena citati, artisti come Lee Konitz, Antonio Ciacca, Ulysses Owens, Kengo Nakamura e Yasushi Nakamura. Lucio Ferrara ci ha raccontato in prima persona questa esperienza.

Lucio, per cominciare volevo parlare dalla genesi di questo progetto: “It’s All Roght with me”. Come mai è stato registrato luoghi diversi, tra Sorrento, Roma e lo stato del New Jersey?

“Diciamo che non c’è un motivo preciso. Quello che ho scelto sono state le formazioni con cui preferisco sonare come il quartetto con pianoforte, il trio con lo hammond e il quintetto con il sassofono. La scelta vera e propria è stata l’idea di registrare un disco a New York, ma alla fine ho preferito aggiungere due brani con due musicisti, Nicola Angelucci e Luca Mannutza, con cui sono tutto l’anno. Con loro c’è un vero e proprio rapporto di amicizia perché ci vediamo continuamente, mentre le esperienze con i musicisti americani sono momenti occasionali in cui ci si incontra una volta all’anno a New York”.

Quindi, potremmo dire che in questo progetto c’è un’anima internazionale?
Esattamente, diciamo che in questo progetto viene fuori questa mia internazionalità legata ai rapporti di lavoro e ai viaggi continui. E’ un aspetto che effettivamente rappresenta gli ultimi anni della mia carriera.

E il titolo di questo tuo progetto è forse legato ad un tuo stato d’animo particolare?
“Sicuramente è legato a quella positività che incontro quando lavoro con gli american negli Stati Uniti e a quell’incoraggiamento che loro hanno verso la vita. Questo progetto rappresenta tutta quella positività che sento quando vado in questo paese. E’ un momento in cui sento un’altra aria e in cui respiro in un altro ambiente. Con questo titolo ho cercato di descrivere apertamente questo stato d’animo”.

Il fatto di non avere una formazione stabile è forse legato al fatto di considerare la musica come qualcosa in continuo cambiamento?
“Si, sicuramente c’è il vantaggio di suonare con diversi musicisti e di scoprire come la musica viene fuori in maniera sempre differente. Ovviamente la cosa ideale sarebbe quella di suonare con una band fissa con cui lavorare per tutta la vita perché soltanto in questo modo raggiungi un Interplay unico, però ci sono anche gli aspetti legati alle novità. Suonando con diverse persone Impari da tutti e collezioni esperienze che ti aiutano a crescere”.

Quindi, potremmo dire che l’approccio con i musicisti con cui suoni è legato proprio al concetto di Interplay?
“Credo di si, io lo vivo così. Il mio modo di suonare dipende anche dagli altri musicisti, dagli imput continui che mi trasmettono e dal continuo sviluppo del l’idea di Interplay”.

E il fatto di aver viaggiato tanto quanto può avere influito sulla tua musica?
“Sicuramente ha influito tantissimo. Viaggiare è fondamentale perché a un certo punto, quando pensi di sapere tutto, scopri che ci sono delle novità. Per crescere hai bisogno di cercare sempre nuove esperienze”.

E se dovessimo fare un parallelismo fra un’esperienza dal vivo in America ed una in Italia…
“Diciamo che il pubblico americano in generale è molto entusiasta e senti la sua presenza continuamente. E’ un pubblico attento che conosce bene la storia del jazz e al quale non hai bisogno di spiegare la musica che suoni. Quando ti esprimi con un bambino usi un determinato linguaggio e quando ti trovi in America è come se parlassi ad un adulto che ti capisce bene”.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

Enrico Rava & the PMJL al Roma Jazz Festival

Provate a immaginare qualcosa che si avvicini alla potenza delle forze della natura, qualcosa di simile ad un uragano oppure ad una tempesta che coglie un’imbarcazione in pieno oceano. Provate a immaginare questo e facciamo un attimo mente locale. Forse la sensazione potrebbe fuorviarvi, o mettervi un po’ di inquietudine, ma se tutto questo viene tramutato in musica e se queste energie vengono incanalate nella maniera giusta, allora cambia tutto. E in positivo. Come è accaduto a noi all’inizio del concerto che abbiamo avuto il piacere di ascoltare venerdì scorso all’Auditorium, in cui sono saliti sul palco della sala Sinopoli Enrico Rava & PMJL (Parco della Musica Jazz Lab) nell’ambito del Roma Jazz Festival. Una musica che ci ha trasmesso la stessa sensazione di un fiume in piena che al suo passaggio, invece di distruggere tutto, ti lascia ascoltare il fruscio dell’acqua in movimento.

Immaginate, quindi, che, mentre siete seduti ad aspettare l’inizio di uno spettacolo, si chiudano le luci, dei musicisti salgano su palco velocemente e subito, senza lasciarti il tempo di focalizzare, comincino a suonare con un’energia indescrivibile, con un ritmo potente, senza perdere troppo tempo in chiacchiere…  Ma fermiamoci per un secondo alle presentazioni. Se siete degli amanti del genere, sicuramente conoscerete Enrico Rava e saprete bene che un maestro come lui non ha bisogno di parole inutili. Il PMJL, invece, è un ensemble dei giovani più rappresentativi delle ultime leve, diretto in questo caso dallo stesso Enrico Rava e composto da Mauro Ottolini al trombone, Dan Kinzelman al sax tenore,Daniele Tittarelli al sax contralto, Marcello Giannini alla chitarra elettrica, Giovanni Guidi al pianoforte, Stefano Senni al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria, che non ha niente da invidiare ai big della musica internazionale.

E torniamo alla nostra serata. Come dicevamo tutto comincia con un ritmo arrembante ed aggressivo che ben si adatta all’apertura di uno spettacolo di questo tipo. In prima linea ci sono i fiati che a tratti suonano in modo accorato, a tratti danno spazio all’intervento dei singoli. E poi ci sono gli altri strumenti, come la chitarra elettrica di Marcello Giannini che di certo non se ne sta in un angolino ad aspettare il suo turno, specie quando fraseggia con il trombone di Mauro Ottolini o quando si distorce in alcuni fantastici soli sotto un avvolgente tappeto di fiati. Dunque, un inizio spumeggiante che subito dopo lascia spazio ad un momento più rilassato in cui emerge anche il pianoforte di Giovanni Guidi e dove c’è anche lo spazio per una formazione minimale in cui spiccano proprio il pianoforte, il contrabbasso e la batteria, con gli altri musicisti momentaneamente in disparte come se fossero dei bambini che per la prima volta ascoltano un concerto del genere.

E di capovolgimenti di fronte in questo concerto ce ne sono stati davvero tanti. Per esempio è bello sentire un solo di basso o di batteria sotto un tappeto di fiati, un’inversione fra ritmo e melodia che offre delle piacevoli vibrazioni e che ti fa capire come un gruppo del genere sia dinamico, ricco di potenzialità e come sia divertente cambiare le carte in tavola quando se ne ha la possibilità. E poi di nuovo con un ritmo impetuoso che non dà tregua, che neanche ti fa capire quale sia il passaggio tra un brano ed un altro, che lascia a tutti lo spazio di emergere. E al di là di Enrico Rava, di cui ben conosciamo il valore, tutti i musicisti hanno prima o poi un momento per emergere e per comunicare a suon di note, dai sax, alla chitarra, al trombone e così via. Non c’è qualcuno che primeggia o che emerge rispetto ad un altro perché è l’insieme dei musicisti, unito allo studio degli interventi, che crea quella completezza necessaria ad un organico del genere. Ed è veramente difficile poter ricordare tutte le varie sezioni che hanno composto questo spettacolo così ricco e di momenti differenti, è difficile perché i cambiamenti sono troppo veloci e concitati per essere elencati dal primo all’ultimo.

Inoltre Enrico Rava, che è anche un grande scopritore di talenti, oltre che musicista di fama internazionale, ci ha dato l’impressione di divertirsi veramente tanto all’interno di questo gruppo di giovani musicisti che lo segue come un direttore d’orchestra immerso nel palcoscenico. Il pubblico questo lo capisce e dopo un bis c’è anche tempo per un tris, prima che le luci si riaccendano per dirci che purtroppo è giunto il momento di tornarcene a casa.

Carlo Cammarella

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