A Concert of Sacred Music di Duke Ellington all’Auditorium
- Scritto da Carlo Cammarella
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Quando parliamo di Duke Ellington, pensiamo ad uno dei mostri sacri della Musica del 900, pensiamo alle atmosfere newyorkesi degli anni 30, degli anni 40, degli anni 50; pensiamo alle big band, alle trasmissioni televisive in bianco e nero, alle vecchie registrazioni in vinile, ad un Jazz orchestrale che sfugge alle etichette ed alle classificazioni di genere. Tuttavia, pochi sanno che nell’ultima parte della sua vita, tra il 1965 ed il 1974, Duke compose 3 “Concerti di Musica Sacra” per big band, coro e voce solista che rappresentano una sorta di testamento spirituale di uno dei più grandi musicisti del 900.
Questi concerti gli vennero commissionati in ordine di tempo dall’episcopato della California (per la Grace Cathedral di San Francisco), dall’episcopato di New York (per la Cattedrale di San John the Divine di New York) e dal Presidente Sir Colin Crow (per l’Abbazia di Westminster di Londra in occasione del 25° anno delle Nazioni Uniti). Duke Ellington, che ha sempre considerato questa musica come la più importante della sua vita, amava presentare una scelta fra questi tre concerti dal titolo “A Concert for Sacred Music”. E quella che abbiamo ascoltato ieri sera alla Cavea dell’Auditorium è stata un’esecuzione più che fedele alla musica originale e ai manoscritti di Duke Ellington, oggi conservati allo Smithsonian Institute di Washington. Petra Magoni, versatile e brillante come sempre, ha interpretato le parti di Alice Babs, la cantante svedese che ispirò a Duke Ellington molte melodie del secondo e terzo concerto, ed è stata accompagnata dal PMJO (Parco della Musica Jazz Orchestra) e dal Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Dopo che i musicisti sono saliti sul palco della Cavea, la musica ha preso subito il sopravvento e ci ha trasportato da un’alta parte, in un’altra città, magari nei luoghi dove suonava Duke Ellington o magari in qualche Chiesa americana dove spesso il rito viene accompagnato dal canto e dalla musica. Quella di Duke Ellington è una musica originale, ma con un forte senso di appartenenza ad una cultura, quella afro-americana, trapiantata negli Stati Uniti. E’ qualcosa che ti ispira serenità, che ti fa venire voglia di chiudere gli occhi per immaginare di passeggiare lungo le strade newyorkesi, magari quando cade la neve e i tetti dei grattacieli sono ricoperti da un soffice manto bianco. La fusione fra la musica classica ed il Jazz ci sembra l’elemento preponderante di questa musica, quello che forse la rende unica ed inconfondibile. Ed è difficile sezionare i vari momenti in cui un genere o un linguaggio ne sostituiscono un altro, perché l’insieme di canto, orchestra e coro, si amalgama in maniera perfetta, come solo i grandi direttori d’orchestra sanno fare.
Petra Magoni dialoga con il coro in un botta e risposta, a volte recitano insieme come se pronunciassero una preghiera, poi c’è un assolo di pianoforte, poi subentrano i fiati del PMJO che fraseggiano fra loro alternandosi l’uno con l’altro, poi la musica approda in uno swing incalzante. E tutto questo confluisce in un unico discorso, senza che uno abbia l’impressione che siano stati usati linguaggi diversi. E forse è proprio così, forse Duke non pensava di certo ai generi musicali quando componeva questa musica, magari aveva in mente delle immagini ben precise che lo trasportavano in luoghi sconosciuti o più semplicemente aveva la capacità di astrarsi da tutto il resto del mondo. Ma diciamo la verità, queste cose appartengono soltanto ai grandi geni, appartengono a quelli che riescono a distaccarsi dal presente per immergersi totalmente nella musica. E questo lo diciamo perché tutti questi linguaggi, a metà fra il classico, il jazz ed il sacro, confluiscono in un unico discorso senza che il tutto venga reso artificioso. E quello che abbiamo ascoltato ieri sera all’Auditorium, è stato un omaggio più che degno ad uno degli artisti più originali di tutti i tempi.
Carlo Cammarella
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