Jazz Agenda

Al Roma Jazz Festival Portal, Sclavis, Marguet, Texier, Le Querrec – tra musica e fotografia

Ecco l’occhio dell’elefante che in ogni momento osserva intensamente i fatti della vita come se li vedesse per la prima ed ultima volta”. Non è un frase di circostanza inventata dal nulla, ma un proverbio africano che nel nostro caso sintetizza la filosofia che si cela dietro il concerto/rappresentazione che abbiamo avuto il piacere di osservare ieri sera all’Auditorium. E non è un caso che il verbo da noi utilizzato sia per l’appunto “osservare” e non ascoltare, come forse sarebbe più consono per la musica. Non è un caso perché nel concerto di ieri, dal titolo “L’œil de l’elephant”, la musica di Michel Portal(clarinetto e sassofono), Louis Sclavis (clarinetto e sassofono soprano), Christophe Marguet(batteria) e HenriTexier (contrabbasso) si è fusa con il linguaggio visivo di Guy di Le Querrec, fotografo d’eccezione dall’esperienza pluridecennale.

Due linguaggi espressivi, due forme d’arte sublimi, due modi di comunicare emozioni che attivano due percezioni differenti e che possono dialogare fra loro senza generare niente di artificioso. La fotografia che guida la nostra immaginazione verso l’esplorazione, verso l’ignoto, verso quell’istante che viene bloccato per sempre dallo scatto di una macchina che ha il potere di farci rivivere emozioni ormai passate. La musica, perfezione del suono e delizia dell’udito. Un’arte dentro un’altra arte, un mix fra due linguaggi così diversi e così simili, una forma espressiva che guida l’altra trascinandoti verso mondi lontani, periodi passati, attimi immortalati, il tutto accompagnato da una musica ricercata per l’occasione che si tinge di Jazz e che stringe la mano alla tradizione francese.

E veniamo al concerto. Come i musicisti si sistemano sul palco, il silenzio viene rotto dal ritmo incalzante della batteria, poi davanti ai nostri occhi iniziano a scorrere le immagini e a mano a mano intervengono anche gli altri strumenti. La prima sessione si chiama “Baci Rubati”, un susseguirsi di immagini, di mondi inesplorati (spesso eterogenei fra loro), attimi immortalati che prendono vita nuovamente accompagnati dalla musica del quartetto. Un bacio fra due innamorati, fra due clandestini, fra due mucche, fra madre e figlio, tutto a tema con una melodia che si sposa perfettamente con quello che vediamo. Poi, si passa ad un’altra sessione intitolata “Qui l’ombra”, in cui spiccano giochi di luce grotteschi alternati a fasi più inquietanti, ad un’altra ancora chiamata “Più veloce del vento” dove, invece, al centro dell’attenzione c’è il movimento. Insomma, di sessioni ce ne sono state davvero tante e ne citiamo soltanto qualcuna, anche perché altrimenti rischieremmo di ridurre il tutto ad un freddo elenco di numeri ed immagini.

Quindi, nella serata di ieri ciò che veramente ci ha colpito è stata la pulsazione. Pulsazione che viene resa attraverso uno scatto, attraverso un attimo rubato, pulsazione che viene scandita dalla musica, filo conduttore di una rappresentazione originale, linfa vitale di un mondo che nuovamente prende forma. Le Querrec è un viaggiatore, nella sua produzione ci sono foto divertenti, foto comiche, foto ironiche, foto del passato, foto di grandi jazzisti, foto dei suoi viaggi in Africa e in continenti sconosciuti dove la povertà è ancora il protagonista ineccepibile. La parte che spicca fra tutte, secondo noi, è quella finale, in cui viene esposto, sempre a suon di musica, un reportage dal titolo “Sulle tracce di Big Foot”, effettuato nel 1990 negli Stati Uniti, proprio nelle terre ancora popolate dai nativi. Un viaggio in condizioni estreme, in terre inospitali, dove ancora le tribù, pur avendo accettato una parte di progresso, vivono secondo le loro leggi.

Insomma, quello di ieri è stato uno spettacolo diverso, un concerto/rappresentazione in cui possiamo dire di aver imparato, o se non altro osservato e ascoltato, qualcosa di diverso, che ci ha fatto riflettere non soltanto sul mondo visto dal libero occhio di Guy Le Querrec, ma anche sulla fusione di arti e linguaggi e perché no, anche sull’abbattimento dei confini culturali.

Carlo Cammarella

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