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Chocolate Genius alla Casa del Jazz

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Completo grigio, camicia bianca e scoppola stile “C’era una volta in America”. Si presenta così, nella sala Auditorium della Casa del Jazz, Marc Anthony Thompson, nome d’arte “collettivo” Chocolate Genius Incorporated. Il songwriter nativo di Panama, cresciuto in California e trapiantato nella scena musicale newyorchese, è in Italia per la prima volta, per presentare la sua quarta fatica: “Swansongs”, 11 pezzi uno più intenso dell’altro, a cui l’artista statunitense ha intervallato sapientemente, durante tutto il concerto di sabato, vecchi brani e raffinate cover (“Shipbuilding” di E.Costello ad esempio: pura poesia contro la guerra). 

La voce suadente di Thompson ci guida con invidiabile naturalezza da un brano al pianoforte ad uno alla chitarra acustica per la prima parte del concerto, deliziando l’udito, o sarebbe meglio dire il palato in questo caso, trattandosi di “cioccolato”, con gocce di purezza lirica tratte dagli altri album della trilogia firmata Chocolate Genius, di cui quest’album rappresenta il capitolo finale. Da “Half a man” alla struggente “Like a nurse” al piano, è un susseguirsi di emozioni solitarie, fino all’entrata in scena del sodale Sébastien Martel che lo accompagnerà per il resto della serata alla chitarra elettrica. Il chitarrista francese, che ha alle spalle collaborazioni pregiate col sassofonista Femi Kuti e con i Morcheeba, non ruba la scena al nostro, distillando appunti soul e assoli blues con parsimonia, come nell’ironica e agrodolce “Enough for you”. Si ritorna alle ballate (influenza folk dissimulata dal boss Springsteen con cui collaborò nel 2006?), “She smiles” e “Polanski” su tutte, e qui la voce di Thompson scende calda come un cognac che scalda e riempie l’anima. Soulful appunto.

Sorprendente la rivisitazione, ancora più blues se possibile, di “Blue Sky Blues” del giovane Ryan Adams, che non fa che aumentare la nostra stima verso un cantautore che sa riconoscere ed apprezzare gli artisti delle nuove generazioni, addirittura omaggiandoli con una cover in un proprio concerto. “Vorrei aver scritto io questa canzone”, confessa senza problemi Marc. A parte qualche sperimentazione con inserti synth e parlato (“Lump”) che ha lasciato un po’ perplessa la platea, il concerto è volato via con piacevole scorrevolezza. In ogni caso, musica fuori da ogni costrizione di genere quella dell’artista nero, a dispetto dell’etichetta “neo-soul” che già gli era stata attribuita. Artista nero e vero, d’altronde chi merita di essere chiamato artista se non colui che riesce a trasmettere emozioni attraverso le sue opere? L’atmosfera creata dalle sue canzoni, ad un orecchio poco allenato, potrebbe sembrare affettata, ma attenendoci al principio di Occam la risposta è sempre quella più semplice: si tratta di puro romanticismo, nulla di più, nulla di meno. Un perfetto canto del cigno.

Massimiliano Rossi

 

foto di Mauro Romano

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