Jazz Agenda

Live Report: Stewart Copeland alla Casa del Jazz

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Ci sono musicisti che anche con il passare del tempo rimangono sempre gli stessi, magari con qualche capello bianco di troppo, ma con la stessa grinta e voglia di esibirsi che sembra quasi appartenere agli adolescenti. Tra questi c’è Stewart Coplend, storico batterista dei Police, che venerdì scorso abbiamo avuto modo di vedere alla Casa del Jazz, in questa splendida cornice che per una notte ha messo da parte il Jazz per “ospitare” un evento molto particolare. E mentre il Sole sta per tramontare, in un venerdì ancora scandito dal traffico cittadino, mentre gli ultimi ritardatari cercano di trovare un improbabile parcheggio molto lontano dal luogo del concerto, davanti al botteghino c’è una fila che sembra non finire mai, tipica di quei concerti che richiamano un gran numero di fan. Entriamo, allora, nel vivo di questo racconto; la pima cosa che possiamo dire è che quello di venerdì non è stato un vero e proprio concerto, ma forse la celebrazione di un personaggio affascinante ed intelligente che ha suonato nelle arene più grandi del mondo, con uno dei gruppi più famosi al mondo, davanti a centinaia di migliaia di persone. 

Usiamo la parola “celebrazione” non a sproposito, perché il concerto di Stewart Copeland non comincia proprio subito. Dopo una breve esibizione del “Copeland Junior”, con i suoi Hot Head Show, infatti, la serata entra nel vivo ed il batterista dei Police, che dopo tanti anni sembra ancora agile come una gazzella, sale sul palcoscenico della Casa del Jazz presentato da Gino Castaldo e Vittorio Cosma. E la prima parte di questa serata ha inizio con la presentazione, fatta tramite intervista, della biografia di Stewart Copeland, “Strange Things Happen”, libro pubblicato da Minimum Fax in cui questo musicista, in maniera forse estemporanea, ripercorre la sua vita e alcune delle sue tappe fondamentali. Da qui vi raccontiamo un aneddoto divertente della serata. La presentazione del libro viene, infatti, accompagnata da alcuni video e in uno di questi Stewart Copeland, probabilmente per girare uno spot pubblicitario, si trova in sella ad un cavallo in mezzo a delle giraffe: “Ci sono voluti tre giorni per girare quei 20 secondi” confessa ridendo davanti al pubblico e raccontando che il cavallo aveva una paura folle degli animali selvatici… Giraffe comprese. Insomma, questa prima parte della serata se ne vola via così, con un batterista che scopriamo essere un intrattenitore anche seduto su di una poltrona piuttosto che su di uno sgabello con il sedile rotondo.

Quindi, al termine di questa breve intervista Stewart saluta per un momento il pubblico, che per la verità stava anche cominciando a sbuffare un po’ per la lunga attesa, ed esce dalla scena per prepararsi a suonare. Pochi minuti ed il concerto vero e proprio comincia. La line-up è composta da  Vittorio Cosma (purtroppo per lui un braccio ingessato), Armand Sabel Lecco, Cesare “Mac” Petricich e Giovanni Imparato; il sound da loro proposto è un misto di rock, reggae, musica popolare, forse salentina, condito da una chiara matrice mediterranea. Sonorità che forse Copeland ha interiorizzato nei suoi lunghi periodi di permanenza in Italia e che ora ripropone attraverso questa nuova formazione. Come special guest della serata si sono alternati sul palcoscenico John de Leo, ex cantante dei Quintorigo, Max Gazzè che per l’occasione ha cantato Don’t box me in dei Police (in un modo che non possiamo di certo definire impeccabile) e Niccolò Fabi che si è cimentato con Does everyone stare. Una performance nel complesso piacevole che, tuttavia, è durata per circa tre quarti d’ora, lasciando gran parte dei fan, che si aspettavano di ascoltare i bani più famosi dei Police, con un po’ di amaro in bocca. Rimane sempre il fatto che la location in cui si è svolto l’evento è la Casa del Jazz, che per noi rimane sempre un luogo accogliente e affascinante, specie quando la bella stagione è ormai sopraggiunta.

Carlo Cammarella

Foto di marco Trombetta

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Live Report: “Body & Soul”, si apre il festival della Casa del Jazz

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L’apertura, martedì 21, del “Casa del Jazz Festival”, porta sul palco un evento davvero speciale: a ridosso dell’uscita nelle sale cinematografiche del film documentario di Michael Radford, Michel Petrucciani “Body & Soul”, un omaggio a questo eclettico artista da parte di alcuni musicisti che l’hanno accompagnato durante la sua carriera. Giampiero Rubei, direttore del festival, è riuscito a cogliere nell’organizzazione, ciò che avrebbe fatto sentire a proprio agio tutti i tipi di cultori del jazz; dai “classicisti” alle nuove generazioni, usufruendo del prato antistante con il palco come anello di congiunzione. È proprio da questo particolare che si può già intuire la varietà di pubblico che l’evento è riuscito ad attirare: c’è chi è arrivato molto presto per accaparrarsi i posti più vicini ai musicisti, chi aspetta seduto ai tavoli del bar sorseggiando un aperitivo, chi cena sulla terrazza del ristorante, chi fa la fila per mangiare un kebab (Già, un kebab! Ottimo e di poco intralcio rispetto al vassoio della tavola calda, se ad un certo punto fossero finiti i tavoli e bisognasse sedersi dove capita), e chi chiacchiera direttamente sdraiato sul prato in attesa che comincino a suonare. Questa è, a grandi linee, l’istantanea che abbiamo “scattato” appena varcato il cancello d’ingresso. Non che prima non fossimo riusciti ad intuire che rilevanza avesse l’avvenimento, data la fila di macchine e scooter parcheggiati lungo tutte le mura Aureliane. Però è nel momento in cui li vedi tutti insieme, lì sul quel prato e non più chiusi e “smistati” nei vari jazz club, che ti accorgi di quanto questo genere sia diventato popolare. Ed è solo pescando dal background di ognuno che si riesce a creare un’atmosfera piacevole per tutti come quella di martedì.

L’arrivo, alle 21, ti permette di godere del giardino ancora illuminato e di passeggiare liberamente alla ricerca del posto migliore. L’allestimento ci risulta semplice ed elegante: gran parte dei posti a sedere partono quasi dal cancello d’ingresso, arrivando fin sotto al palco. Tuttavia si ha la possibilità di camminare ed eventualmente sedersi (sull’erba) sia di lato che dietro ad esso. Più giù sono stati sistemati due gazebo con una tavola calda e gli spiedi dei kebab (dove la fila è nettamente maggiore!), mentre la zona bar è subito di fronte l’entrata dell’edificio; i tavolini già pieni da parecchio. Si fa la fila per mangiare o bere qualcosa di modo da non rimanere vincolati a concerto iniziato, si chiacchiera o ci si ferma a guardare il trailer del film (rigorosamente sottotitolato e senza audio per non disturbare il concerto) proiettato in loop su un muro del complesso. Alle 22 il palco si anima ed apre con una breve intervista ad Alexandre Petrucciani, figlio di Michael presente per l’occasione; e con la proiezione di due spezzoni tratti dal film. A breve ecco salire sul palco la prima formazione: al piano Eric Legnini, accompagnato da Manhu Roche alla batteria, Flavio Boltro alla tromba, Pippo Matino al basso, Francesco Cafiso e, a sorpresa, Stefano Di Battista ai sax. Il pubblico è ormai magnetizzato, fa piacere notare che chi continua a chiacchierare lo fa in un bisbiglio; l’aria è per lo più in silenzio e continua ad esserlo fino alla fine del primo set. Durante l’intervallo Silvia Barba, che ha organizzato questo evento in particolare, legge una lettera inviata da Petrucciani a Manhu Roche dagli Stati Uniti. Un’altra clip; questa volta è il trailer. Poi subito pronti a ripartire con la seconda formazione, che vede al piano l’unica artista donna ad esibirsi in questo omaggio, Rita Marcotulli, assieme ad Aldo Romano alla batteria, Furio Di Castri al contrabbasso e nuovamente Flavio Boltro alla tromba. Qualcuno più impavido del pubblico si alza per scivolare fin sotto al palco e guardare la restante parte del concerto lì in piedi. C’è una coppia che balla. L’attenzione è sempre alta. Giunti a fine concerto la gente sembra quasi interdetta, non si alza, come fosse ancora incantata, Silvia Barba sul palco con gli altri sorride e propone un finale improvvisato con tutti gli artisti agli strumenti. La Marcotulli e Legnini suonano a quattro mani, alla batteria Roche e Romano si alternano, ne vien fuori qualcosa di strepitoso, meritevole di tutti gli applausi presi. Tanto che la gente alla fine (questa volta per davvero) sciama verso le auto a rilento.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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“Live Report: Il battesimo” del Daniele Pozzovio Trio alla Casa del Jazz

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Tra i giovani talenti dell’attuale scena jazzistica capitolina Daniele Pozzovio, che martedì 10 maggio ha presentato il suo nuovo progetto in trio alla Casa del Jazz, emerge per la sua “gavetta”. Romano classe ’77, si diploma presso la Saint Louis Jazz academy di Roma nel 1996 e al conservatorio di Frosinone nel 2000 con il massimo dei voti. Nello stesso anno frequenta i seminari del Berklee College of music di Boston; conseguendo un riconoscimento alla carriera ed una borsa di studio per la Berklee university, per poi suonare in diverse edizioni di Umbria Jazz. Compone ed esegue al pianoforte le colonne sonore di film appartenenti alla storia del cinema muto, tra i quali: MetropolisL’Inferno del dott. Mabuse di Fritz Lang, il Gabinetto del dott. Caligaridi R.Wiene, l’Uomo con la macchina da presa di D.Vertov, alcuni cortometraggi dei fratelli Lumiere, il viaggio sulla luna di G.Melies, commissionate dall’istituto di cultura tedesca a Roma. Nel 2001realizza un omaggio a Man Ray: una performance di arte realizzata insieme a delle installazioni di pittura elettronica e musica, in collaborazione con Alfredo Anzellini. Nella sua carriera ha collaborato con musicisti come Bruno TommasoGiovanni TommasoStefano TagliettiStefano BollaniRamberto Ciammarughi,Massimo ManziAldo Bassi Gabriele Coen. Nel 2003fonda insieme ad Alvise Seggi l’Arteval TrioScrive nel 2003 quattro colonne sonore realizzate per la rubrica di Rai-educational Il mosaico su delle animazioni per bambini tratte da 4 favole di Alberto Moravia, oltre a diverse collaborazioni con Rai 3. Collabora con l’Istituto superiore di fotografia (2004) per la realizzazione di un seminario di tre appuntamenti sul cinema espressionista tedesco, realizzando tre colonne sonore per il FaustMetropolis ed il Gabinetto del dott. Caligari. Fonda insieme a Leonardo Cesari Max Ottaviani l’Organic Trio, con il quale suona subito al Circolo del Ministero degli esteri. Nasce da qui il progetto Tenco 2005 con Raffaela Siniscalchi cantante di Nicola Piovani. 

Trampolino di lancio per il Trio di Daniele Pozzovio (Daniele Pozzovio al piano, Giorgio Rosciglione al contrabbasso e Andrea Nunzi alla batteria) è, come dicevamo, l’importante “vetrina” della Casa del Jazz, che porta a battesimo questa nuova formazione, come lo stesso Daniele ci racconta: “Con Giorgio suoniamo insieme da una decina di anni. Tra le diverse esperienze fatte assieme c’è anche la creazione di un festival. È un rapporto più duraturo e continuo. Anche Andrea lo conosco da 10 anni, ma sono state minori le opportunità per suonare con lui. Era tanto che volevo farlo però, quindi questa è stata l’occasione… Ed eccoci qua! In pratica il trio nasce stasera. Questo concerto è inoltre il preambolo al disco che pubblicherà la Casa del Jazz e che registreremo a luglio durante l’evento di Villa Celimontana”. Il repertorio esplora un po’ tutte le sfaccettature del jazz classico: “Più vado avanti più mi lego alla tradizione. Sto facendo un back molto forte verso il materiale degli anni ’40-’50”; purtroppo con l’assenza, per questioni tecniche, dei brani originali: “L’esigenza di portare avanti brani originali è forte. Oltre che dal mio background classico, traggo ispirazione molto dai i musicisti con cui lavoro, che mi consigliano anche”. La sua (giusta) “arroganza musicale” contrasta con un’estrema timidezza, che lo porta a sedere di spalle al piano quasi a voler sfuggire agli sguardi e alle lodi del pubblico. Eppure lo si riscopre scenografico e fiero nell’esibizione finale al piano solo, in cui dà un’alta dimostrazione della sua bravura. Rosciglione, come sempre maestrale, fa un po’ da guida e un po’ da tramite tra il pubblico e Pozzovio. Il concerto risulta fitto e incalzante, nel susseguirsi dei brani come nei gesti dei musicisti stessi, tenendo tutti col “fiato sospeso” fino alla fine. Decisamente meritevole la formazione e l’intera serata, immeritata la sala semivuota!

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Il Jazz fra due mondi – intervista a Lucio Ferrara

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E’ un progetto dal chiaro sapore internazionale quello che abbiamo avuto modo di ascoltare ieri alla Casa del Jazz, un disco che racchiude anni di viaggi e di lavoro ricchi di entusiasmo. Parliamo dell’ultimo lavoro del chitarrista Lucio Ferrara, “It’s all right with me”, presentato ieri in una delle location più belle della capitale. Insieme a lui c’erano Nicola Angelucci (batteria) e Luca Mannutza(hammond) due musicisti che Lucio conosce bene, con i quali ha condiviso molte esperienze e che hanno preso parte ad un progetto cominciato dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti. Dunque, un disco a cui hanno partecipato, oltre ai nomi appena citati, artisti come Lee Konitz, Antonio Ciacca, Ulysses Owens, Kengo Nakamura e Yasushi Nakamura. Lucio Ferrara ci ha raccontato in prima persona questa esperienza.

Lucio, per cominciare volevo parlare dalla genesi di questo progetto: “It’s All Roght with me”. Come mai è stato registrato luoghi diversi, tra Sorrento, Roma e lo stato del New Jersey?

“Diciamo che non c’è un motivo preciso. Quello che ho scelto sono state le formazioni con cui preferisco sonare come il quartetto con pianoforte, il trio con lo hammond e il quintetto con il sassofono. La scelta vera e propria è stata l’idea di registrare un disco a New York, ma alla fine ho preferito aggiungere due brani con due musicisti, Nicola Angelucci e Luca Mannutza, con cui sono tutto l’anno. Con loro c’è un vero e proprio rapporto di amicizia perché ci vediamo continuamente, mentre le esperienze con i musicisti americani sono momenti occasionali in cui ci si incontra una volta all’anno a New York”.

Quindi, potremmo dire che in questo progetto c’è un’anima internazionale?
Esattamente, diciamo che in questo progetto viene fuori questa mia internazionalità legata ai rapporti di lavoro e ai viaggi continui. E’ un aspetto che effettivamente rappresenta gli ultimi anni della mia carriera.

E il titolo di questo tuo progetto è forse legato ad un tuo stato d’animo particolare?
“Sicuramente è legato a quella positività che incontro quando lavoro con gli american negli Stati Uniti e a quell’incoraggiamento che loro hanno verso la vita. Questo progetto rappresenta tutta quella positività che sento quando vado in questo paese. E’ un momento in cui sento un’altra aria e in cui respiro in un altro ambiente. Con questo titolo ho cercato di descrivere apertamente questo stato d’animo”.

Il fatto di non avere una formazione stabile è forse legato al fatto di considerare la musica come qualcosa in continuo cambiamento?
“Si, sicuramente c’è il vantaggio di suonare con diversi musicisti e di scoprire come la musica viene fuori in maniera sempre differente. Ovviamente la cosa ideale sarebbe quella di suonare con una band fissa con cui lavorare per tutta la vita perché soltanto in questo modo raggiungi un Interplay unico, però ci sono anche gli aspetti legati alle novità. Suonando con diverse persone Impari da tutti e collezioni esperienze che ti aiutano a crescere”.

Quindi, potremmo dire che l’approccio con i musicisti con cui suoni è legato proprio al concetto di Interplay?
“Credo di si, io lo vivo così. Il mio modo di suonare dipende anche dagli altri musicisti, dagli imput continui che mi trasmettono e dal continuo sviluppo del l’idea di Interplay”.

E il fatto di aver viaggiato tanto quanto può avere influito sulla tua musica?
“Sicuramente ha influito tantissimo. Viaggiare è fondamentale perché a un certo punto, quando pensi di sapere tutto, scopri che ci sono delle novità. Per crescere hai bisogno di cercare sempre nuove esperienze”.

E se dovessimo fare un parallelismo fra un’esperienza dal vivo in America ed una in Italia…
“Diciamo che il pubblico americano in generale è molto entusiasta e senti la sua presenza continuamente. E’ un pubblico attento che conosce bene la storia del jazz e al quale non hai bisogno di spiegare la musica che suoni. Quando ti esprimi con un bambino usi un determinato linguaggio e quando ti trovi in America è come se parlassi ad un adulto che ti capisce bene”.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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Chocolate Genius alla Casa del Jazz

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Completo grigio, camicia bianca e scoppola stile “C’era una volta in America”. Si presenta così, nella sala Auditorium della Casa del Jazz, Marc Anthony Thompson, nome d’arte “collettivo” Chocolate Genius Incorporated. Il songwriter nativo di Panama, cresciuto in California e trapiantato nella scena musicale newyorchese, è in Italia per la prima volta, per presentare la sua quarta fatica: “Swansongs”, 11 pezzi uno più intenso dell’altro, a cui l’artista statunitense ha intervallato sapientemente, durante tutto il concerto di sabato, vecchi brani e raffinate cover (“Shipbuilding” di E.Costello ad esempio: pura poesia contro la guerra). 

La voce suadente di Thompson ci guida con invidiabile naturalezza da un brano al pianoforte ad uno alla chitarra acustica per la prima parte del concerto, deliziando l’udito, o sarebbe meglio dire il palato in questo caso, trattandosi di “cioccolato”, con gocce di purezza lirica tratte dagli altri album della trilogia firmata Chocolate Genius, di cui quest’album rappresenta il capitolo finale. Da “Half a man” alla struggente “Like a nurse” al piano, è un susseguirsi di emozioni solitarie, fino all’entrata in scena del sodale Sébastien Martel che lo accompagnerà per il resto della serata alla chitarra elettrica. Il chitarrista francese, che ha alle spalle collaborazioni pregiate col sassofonista Femi Kuti e con i Morcheeba, non ruba la scena al nostro, distillando appunti soul e assoli blues con parsimonia, come nell’ironica e agrodolce “Enough for you”. Si ritorna alle ballate (influenza folk dissimulata dal boss Springsteen con cui collaborò nel 2006?), “She smiles” e “Polanski” su tutte, e qui la voce di Thompson scende calda come un cognac che scalda e riempie l’anima. Soulful appunto.

Sorprendente la rivisitazione, ancora più blues se possibile, di “Blue Sky Blues” del giovane Ryan Adams, che non fa che aumentare la nostra stima verso un cantautore che sa riconoscere ed apprezzare gli artisti delle nuove generazioni, addirittura omaggiandoli con una cover in un proprio concerto. “Vorrei aver scritto io questa canzone”, confessa senza problemi Marc. A parte qualche sperimentazione con inserti synth e parlato (“Lump”) che ha lasciato un po’ perplessa la platea, il concerto è volato via con piacevole scorrevolezza. In ogni caso, musica fuori da ogni costrizione di genere quella dell’artista nero, a dispetto dell’etichetta “neo-soul” che già gli era stata attribuita. Artista nero e vero, d’altronde chi merita di essere chiamato artista se non colui che riesce a trasmettere emozioni attraverso le sue opere? L’atmosfera creata dalle sue canzoni, ad un orecchio poco allenato, potrebbe sembrare affettata, ma attenendoci al principio di Occam la risposta è sempre quella più semplice: si tratta di puro romanticismo, nulla di più, nulla di meno. Un perfetto canto del cigno.

Massimiliano Rossi

 

foto di Mauro Romano

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CASA DEL JAZZ LIVE DIARY: Il tempio delle clessidre e La locanda delle fate

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Se pensiamo gli anni ’70 ci vengono in mente molte cose. Pensiamo ai grandi Festival sparsi in tutto il mondo, alla musica come fenomeno sociale, alle grandi masse che scendono in piazza, ad un’atmosfera che purtroppo, per quanto riguarda noi, abbiamo conosciuto soltanto per sentito dire. Ora, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e anche se probabilmente è impossibile comprendere quello stato d’animo, se non altro mercoledì scorso, 8 settembre, la Casa del Jazz (nell’ambito del FestivalProgressivamente) ci ha dato modo di partecipare ad una serata che da un lato ci ha fatto fare un tuffo nel passato, dall’altro ci ha fatto capire che anche adesso ci sono dei giovani talenti che pur proponendo brani originali non disdegnano attingere dalla tradizione. La location è di certo fra le più suggestive, ma a rendere il tutto ancora più coinvolgente ci hanno pensato le due formazioni che sono salite su questo palcoscenico. Il primo gruppo è “Il tempio delle clessidre” ed è formato da 4 ragazzi genovesi, ovveroElisa Montaldo alle tastiere, Giulio Canepa alle chitarre, Fabio Gremo al basso, Paolo Tixi alla batteria e Stefano Lupo Galimi, storico cantante del Museo Rosembach, uno dei più influenti gruppi progressive della scena italiana. Il secondo è La Locanda delle fate, gruppo nato alla fine degli anni ’70, che purtroppo con la complicità del tempo non ha avuto il successo meritato.

Per chi non l’avesse ancora capito stiamo parlando di rock progressivo, una delle correnti che in quel periodo andava per la maggiore grazie a gruppi come Le Orme, Gli Area, il Banco del Mutuo Soccorso eccetera. Dunque, una serata che ha fatto incontrare vecchio e nuovo, che ci ha dato la possibilità di conoscere un gruppo di ragazzi vogliosi di sperimentare e un’altra formazione che è nata in un’altra epoca. Il concerto comincia con Il tempio delle clessidre, in un’atmosfera quasi surreale che a suon di note ci trasporta in un immaginario parallelo. I musicisti, infatti, prima di presentarsi, salgono sul palcoscenico con delle maschere, come se fossero usciti dal loro vero io per diventare un tutt’uno con la musica. E dopo pochi minuti ci trasportano con la loro personalità coinvolgente nel vivo del concerto. La caratteristica principale del gruppo è quella di alternare ritmi incalzanti, con un groove molto deciso e una batteria molto potente, con momenti più delicati in cui la parte melodica, composta da chitarra e tastiere, fraseggia più armoniosamente. C’è un momento per tutto, anche per riproporre un brano dal disco più famoso del Museo Rosembach, Zarathustra, cantato da Stefano Lupo Galimi, che il pubblico di appassionati presenti al concerto dimostra di apprezzare davvero.

Ma se è vero che tuffarsi nel passato può essere una bella esperienza, il brano che ci ha colpito di più e che forse ci ha fatto capire quale sia la vera filosofia del gruppo è Danza Esoterica di Datura. A presentarlo ci pensa Elisa Montaldo che per un momento si allontana dalle tastiere e spiega i retroscena che si nascondono dietro alla musica che stanno per suonare. La Datura, infatti, è la pianta che le streghe utilizzavano nei loro riti propiziatori per avvicinarsi alla natura e per diventare un tutt’uno con essa. Quindi, i componenti indossano nuovamente le maschere e cominciano a suonare nuovamente tornando ad essere un tutt’uno con la musica. Momenti più armoniosi, dove c’è lo spazio per melodie più calde, e momenti più dinamici in cui la batteria esplode in ritmi incalzanti e decisi. Poi, dopo questo tira e molla, arriva la sintesi, il momento in cui tutto diventa ordine e in cui ci immaginiamo che sia avvenuta una fusione con questa forza potente e trascinatrice. E alla fine di questo brano, quando la calma sembra tornata definitivamente, i musicisti si inginocchiano e rendono omaggio a qualcosa di più grande, forse ad una fonte ispiratrice che giunge da universi ben lontani dalla nostra realtà.

A questo punto il concerto si interrompe, Il Tempio delle clessidre saluta il pubblico e dopo un quarto d’ora di pausa salgono sul palcoscenico della Casa del Jazz La Locanda delle fate. Ora, se pensate che questo gruppo non suonava nella capitale da un bel po’ di anni, allora capirete bene come Leonardo Sasso, unico componente della band nato a Roma, si sia davvero commosso. Ed è un’emotività che si vede, che si sente dall’approccio caloroso verso il pubblico e verso tutti quegli appassionati del genere che in questa splendida serata hanno deciso di venire da ogni parte dell’Italia. Loro, sebbene siano passati molti anni, sono sempre gli stessi, possiedono quella innata capacità di far confluire in maniera naturale la poesia con il rock, la malinconia con l’allegria, la passione con l’energia. Rappresentano bene, secondo noi, l’atmosfera che hanno vissuto in quel periodo ed è un vero peccato che abbiano cominciato a suonare proprio quando quella scena musicale stava scemando. Detto questo, lasciando stare il passato, pensiamo a quello che si può fare con i buoni propositi e con un po’ di voglia di fare. Se pensate che qualche anno in più abbia fatto perdere alla Locanda delle fate l’energia che li contraddistingueva, allora avete sbagliato di grosso perché la voglia di suonare e di stare sul palcoscenico ce l’hanno ancora tutta.

Leonardo Sasso, oltre ad essere un grande paroliere, dialoga con i partecipanti, si sente a casa e condivide quello che canta, come se il pubblico fosse un vecchio amico conosciuto in bar tanto tempo fa. E questo calore, che anche noi abbiamo percepito in maniera molto forte, viene trasmesso da tutti i musicisti che in quel momento si trovano sul palcoscenico. Brani come Forse le Lucciole si amano ancora, Sogno di estunno, Profumo di colla bianca, oltre a raccontare dei momenti di vita, parlano in maniera molto efficace anche attraverso la musica. E a noi ci ha fatto davvero piacere poter assaporare attraverso questa musica, il ricordo di un’epoca che ci ha lasciato un retaggio così importante.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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CASA DEL JAZZ live diary – 6 settembre 2011 – Rita Marcotulli “racconta” i Pink Floyd

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La Casa del Jazz ci regala l’ultima rassegna in questa estate settembrina, abbandonando le sonorità che hanno contraddistinto il “Casa del Jazz Festival”, per 6 giorni di puro progressive. “Progressivamente”, questo il nome della rassegna, apre con un gruppo d’eccellenza guidato da una pianista d’altrettanta fama: Rita Marcotulli. “Us and them – Pink Floyd sounds” è un omaggio che attinge alle diverse realtà musicali dei componenti, dal risultato per nulla scontato! La folla alla biglietteria non tradisce le aspettative. Del resto i Pink Floyd rientrano in quella categoria di gruppi che uniscono generazioni, e forse anche la presenza sul palco del cantante Raiz, storico frontman degli Almamegretta, ha il suo peso. Fatto sta che ci ritroviamo tutti sul solito prato, frequentato un’estate intera (per chi è rimasto un vacanziero di città!), con le facce più abbronzate e rilassate a farci stupire ancora una volta. C’è meno rigore e più voglia di interagire con chi ci sta intorno. Ai tavoli le chiacchiere hanno il sapore dei viaggi che ciascuno racconta, ma tutti buttano un occhio al palco almeno una volta, in segno di attesa. Lo spiedo del kebab c’è ancora, ad impregnare l’aria, a ricordarci che in fondo può essere ancora estate. L’afa ha lasciato il posto ad un’aria più leggera, così si ha più piacere a stare all’aperto (ed anche a pensare di essere già tornati a Roma!).

Alla breve presentazione della serata e del festival in sé, tutti si ricompongono pronti all’ascolto. Sul palco salgono in sette: oltre alla Marcotulli al piano e Raiz alla voce, abbiamo Andy Sheppard al sax;Pippo Matino al basso elettrico; Fausto Mesolella alla chitarra elettrica; Michele Rabbia alle percussioni e Mark Mondesir alla batteria. Se l’impronta di Raiz si avverte distintamente nelle sonorità arabeggianti, Michele Rabbia le valorizza con la sua bravura nel manipolare i suoni degli oggetti più disparati (in questo caso in particolare, la capacità di ricreare suoni “elettronici” attraverso una lastra di metallo). Fiori all’occhiello i virtuosismi di Sheppard e della Marcotulli. Pur non volendo stravolgere la struttura originaria dei brani, essi si ripresentano nuovi, non sempre immediatamente riconoscibili, ma ugualmente affascinanti ed inebrianti. L’uso del riverbero li rende eterei, avvolgenti; lascia che diventino un ricordo, un sogno. Come se la loro presenza lì, in quel momento, non fosse del tutto scontata. Colpisce, tra i brani, il modo in cui “Shine on you crazy diamond” sia stata spogliata da qualsiasi orpello virtuosistico, lasciandone emergere la bellezza del testo ed accentuando il contrasto tra la voce graffiante di Raiz e quella più “pulita” di David Gilmour. Senza tentare di surclassare o dare un’interpretazione originale di un brano unico nel suo genere.

Il progetto è ambizioso e ben riuscito. Riesce a calamitare l’attenzione e a regalare un po’ di nostalgia a chi i Pink Floyd li ama dagli esordi.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Ludovica Manzo presenta Scraps alla Casa del Jazz

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Scraps è l’album d’esordio di Ludovica Manzo, in uscita il 25 maggio, che verrà presentato ufficialmente giovedì 28 maggio alla Casa del Jazz di Roma e venerdì 29 all’Ex Asilo Filangieri di Napoli. L’artista di origini campane fissa finalmente su disco un progetto in cantiere da molti anni assieme al suo quintetto composto da Marcello Giannini alla chitarra elettrica, Riccardo Gola al contrabbasso, Ermanno Baron alla batteria, Beppe Scardino al sax baritono e clarinetto basso e Gino Maria Boschi alla chitarra classica.

“Scraps” sono i frammenti, le istantanee di momenti, immagini e atmosfere che appartengono all’immaginario musicale di Ludovica, che ha attinto soprattutto all’universo letterario dal quale ha tratto gran parte delle proprie suggestioni. Un disco, quello della Manzo, che fa della propria eterogeneità un tratto distintivo, puntando a un eclettismo che ne rivela le doti di interprete raffinata e mai banale.

Ciascun brano è come finestra sul mondo musicale di Ludovica, ricco di riferimenti al pop nordeuropeo e al cantautorato d’avanguardia, passando dall’elettronica al jazz fino ad arrivare alla tradizione di musica improvvisata della scena europea contemporanea. Accanto a questo emerge con forza anche la personalità delle scelte armoniche insieme a una spiccata propensione per le sperimentazioni timbriche: tutti elementi che fanno del cantato della Manzo un interessante mix di audacia e amore per forma canzone più classica.

È il caso di brani come “Lisbona”, libero adattamento da “The Mad Fiddler”, poesia di Fernando Pessoa, nel quale la Manzo predilige le armonie semplici e una melodia molto cantabile. In “Sweet Volcano” la musica ha invece un ruolo preponderante: ispirata dal romanzo di Luigi Pirandello “Uno, nessuno e centomila”, ne riflette appieno la complessità attraverso scelte melodiche originali.

Decisamente più elettronico, nonché episodio tra i più sorprendenti del disco, è “Ayl”, brano che si avvale di diverse sovraincisioni di voci ed effetti e che sfocia in una seconda parte tutta dedicata all’improvvisazione.  In “Mesigi” ritornano le suggestioni letterarie, stavolta ispirate dai racconti di Raymond Carver. Dello scrittore statunitense Ludovica riesce a riprendere in musica la capacità di creare, attraverso immagini minime e spunti quotidiani, metafore potenti. Il brano ha un andamento morbido, sospeso, nel quale si sviluppa un testo che condensa in poche battute l’esatta proiezione di uno stato d’animo.

Sonorità più oblique si scorgono in composizioni come “Country Fair”, su liriche del poeta contemporaneo Charles Simić, mentre in “Con Fusione” Ludovica abbandona per un momento la forma canzone e sceglie di utilizzare la propria voce come un vero e proprio strumento musicale cantando in sezione con gli altri musicisti. Completa il disco una splendida versione di “Any Old Wind That Blows”, brano ripreso nella versione di Johnny Cash qui reinterpretata alterandone l’andamento ritmico e variandone l’armonia.

 

Ludovica Manzo

Pubblica album debutto SCRAPS

In concerto giovedì 28 maggio a Roma, Casa del Jazz e venerdì 29 a Napoli, Ex Asilo Filangieri

In uscita il 25 maggio per la Jerec Records/Jazz Engine

 

 

Formazione:

Ludovica Manzo, voce

Beppe Scardino, sax baritono / clarinetto basso

Marcello Giannini, chitarra elettrica

Riccardo Gola, contrabbasso

Ermanno Baron, batteria

Gino Maria Boschi, chitarra classica su “Lisbona”

 

Tracklist:

01 Grace Undersea

02 Sometimes

03 Conutry Fair

04 Intro

05 Mesigi

06 Ayl

07 Any Old Wind That Blows

08 Fitz

09 Sweet Volcano

10 Con Fusione

11 Lisbona (To G)

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Alfonso Deidda presenta il disco “Lucky Man” alla Casa del Jazz

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Sabato 14 febbraio, alla Casa del Jazz Alfonso Deidda presenterà in concerto il suo nuovo lavoro discografico “Lucky Man”, realizzato con Jando Music e Via Veneto Jazz. Il disco esce a febbraio 2015 per Jando Music e Via Veneto Jazz ed è il primo album da leader di Alfonso Deidda, sassofonista, polistrumentista e compositore-arrangiatore salernitano. Il repertorio è improntato su brani originali di chiara matrice jazz con varie influenze contemporanee (latin, jazz europeo, free, funk), dove l’interplay tra i musicisti è assoluto protagonista. I brani in questione hanno una verve molto spiccata, con melodie semplici ed efficaci, con armonie talvolta complesse dove l’emozione è palpabile. La band fornisce al solista di turno un sostegno di grande finezza e profondità, ed è composto da musicisti di eccezionale bravura ognuno dei quali leader nel proprio strumento. Spicca, infatti, la presenza di un interprete maturo e affermato come il pianista anglo-italiano Julian O. Mazzariello, nonché quella di uno fra i grandi virtuosi del basso elettrico e contrabbasso contemporaneo, Dario Deidda, e quella di un batterista straordinario quanto originalissimo come Alessandro Paternesi. Nel cd, infine l’ eccezionale presenza di un grande solista come Fabrizio Bosso, trombettista ormai consacrato sulle scene nazionali ed internazionali, virtuoso e lirico come pochi, di grande impatto e carica emotiva che riesce a dare al sound generale un imprinting assolutamente determinante.

 

Casa del Jazz: viale di Porta Ardeatina, 55

Info: 06/704731

Ingresso 10 euro

 

Sabato 14 febbraio 2015 ore 21 (sala concerti)

 

ALFONSO DEIDDA

“Lucky Man”

Alfonso Deidda sax e clarinetto basso

Julian O. Mazzariello pianoforte

Dario Deidda contrabbasso e basso elettrico

Alessandro Paternesi batteria

Ingresso euro 10

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Rita Marcotulli e Antonio Zambrini presentano il Cd “La conversazione” alla Casa del Jazz

Giovedì 13 marzo alla Casa del Jazz sarà di scena un duo d’eccezione composto da due pianisti: parliamo di Rita Marcotulli e Antonio Zambrini che presenteranno il cd “La conversazione”. Un incontro magico tra due maestri italiani che per diverse ragioni rappresentano un vanto nazionale nel mondo. Il materiale si basa sul repertorio di Antonio Zambrini, considerato compositore di livello assoluto, tanto che sempre più spesso viene ripreso anche. Rita Marcotulli, invece, è musicista compositrice poliedrica vincitrice negli ultimi anni di una messe incredibile di premi: con la colonna sonora del film Basilicata Coast to Coast di Rocco Papaleo ha, infatti, ricevuto il Ciak d’oro, il Nastro d’argento, il David di Donatello e dalla rivista Musica Jazz il premio Top Jazz come miglior musicista nel 2011 (prima donna in assoluto a ricevere questo riconoscimento). Dunque, un disco che per certi versi rappresenta un evento poiché si celebra il talento compositivo italiano unitamente a due espressioni pianistiche tra le più originali oggi del panorama europeo.



Info: 06/704731

Ingresso 10 euro

Giovedì 13 marzo ore 21:00 (sala concerti)

RITA MARCOTULLI/ ANTONIO ZAMBRINI

La Conversazione

Rita Marcotulli pianoforte

Antonio Zambrini pianoforte

Ingresso euro 10

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