Jazz Agenda

Bobby McFerrin live – Auditorium Parco della Musica, 20 maggio 2010

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Il grande pubblico lo conosce per via di quel motivetto che grazie a MTV e derivati prese a fischiettare mezzo mondo. Si chiamava ‘Don’t worry be happy.’ Pochi sapevano che invece Bobby di strada ne aveva fatta parecchia, tra i grandissimi del jazz ma anche da solo, chè pareva suonare come un’orchestra, con quella voce. Una tecnica stranissima, fatta di emissioni interrotte attraverso uno schiaffetto sullo sterno, che funziona come una percussione, e serve anche a tenere il tempo.

In giro si dice che abbia un orecchio assoluto, ovvero che sia in grado di riconoscere l’altezza e di tradurla in note, per qualsiasi suono raggiunga i suoi padiglioni auricolari. Un dono di pochissimi, chi dice Beethoven, chi dice Mozart, chi dice Paganini, chi dice Parker. Bobby comunque a 60 anni suonati ha vinto 10 Grammy Awards, che per un musicista di jazz non sono bruscolini. Il suo ultimo disco si chiama Vocabularies ed è fortemente virato sulla musica etnica, sui canti tribali della madre Africa, velo di colori che prevediamo di ascoltare anche all’Auditorium, dove arriva munito di band, ballerini e coristi.

Adelchi Battista

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Live Report: al Roma Jazz Festival la Musica è Nuda

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Basterebbe dire Musica Nuda per lasciare almeno intendere la variante di emozioni ed esperienze sensoriali che un concerto, come quello di sabato 19 all’Auditorium, può riservare. E non sarebbe comunque abbastanza. Ferruccio Spinetti (contrabbasso) e Petra Magoni (voce) sono quello che non ti aspetti. Lei, algida musa nella sua giacca di pelliccia appena sale sul palco, si rivela nel corso del concerto una donna ironica (ed autoironica) dall’estro imponente. Lui si nasconde timido dietro il suo contrabbasso, ma una volta rimasto solo in scena non perde occasione di interagire col suo pubblico, o di imbracciare scherzosamente lo strumento a mo’ di chitarra. Insieme formano una coppia completa ed eccentrica. Si definiscono un gruppo pur essendo un duo, e di questo gliene diamo atto. Dal 2004 a marzo di quest’anno si esibisco in cover dalla rivisitazione del tutto personale, pubblicando 5 dischi di successo. Il loro ultimo lavoro, invece, vede la prevalenza di pezzi originali e varie collaborazioni; da Max Casacci (chitarrista dei Subsonica) a Sylvie Lewis, ad Alessio Bonomo e Pacifico. La “nudità” della loro musica lascia spazio all’immaginazione ed allo spettacolo, che entrambi intessono con il proprio strumento. Spogliati di ogni eccesso ed orpello stilistico, i brani si rivestono di abiti nuovi. 

 

Prendiamo il caso di Bocca di Rosa: frenetica, soffocante, ben descrive musicalmente il testo della canzone. Petra Magoni abbandona la malinconia originaria data da De Andrè, per dare un corpo alla storia e alla donna, al suo tormento. Immancabili Came Together, Eleanor Rigby e Dear Prudence, omaggio beatlesiano dovuto ed acclamato. Un po’ jazz, un po’ canzone d’autore, un po’ rock e infine anche musica classica. Il suono originalissimo di Petra e Ferruccio si insinua in ogni composizione e le restituisce vita nuova. Ciò che ci ha affascinati maggiormente è la capacità di questo gruppo/duo di prendersi in giro, raccontare aneddoti di vita vissuta e, perchè no, di metterli in musica. Come inProfessionalità; scherzoso battibecco di una coppia alle prese con la poca serietà di alcuni manovali. I bis, a fine serata, sono tre, tra cui la più richiesta,  Il cammello e il dromedario, e la prima canzone suonata assieme, una romantica e coinvolgente Guarda che luna…che ben sostituisce la mancanza de La canzone dei vecchi amanti.

 

Serena Marincolo

 

foto di Valentino Lulli

 

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Live Report: The same korean girl – Youn Sun Nah al Roma Jazz Festival

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Youn Sun Nah sale sul palco del Teatro Studio all’Auditorium evidentemente emozionata, dopo un omaggio a Morricone da parte del chitarrista che l’accompagna, Ulf Wakenius (già chitarrista di Oscar Peterson. Capace di riprodurre linee di basso e percussioni e di ottenere grandi effetti dal suo strumento senza l’ausilio dei pedali). In un italiano zoppicante (ma sorprendente) ci spiega che è la prima volta che si esibisce in Italia, e a Roma poi! Insomma, una ragazza dalla voce sottile e i modi gentili che alla fine di ogni brano ringrazia sempre per ogni applauso ricevuto e per la nostra presenza. Ride spesso, e questo la rende ancora più simile ad una bambina un po’ impacciata. Eppure la carica del suo fascino aleggia nell’aria ancor prima che cominci a cantare. Nessuno tra il pubblico si aspetterebbe di assistere ad una metamorfosi tale. Wakenius intona i primi accordi dell’inconfondibile Message in a Bottle, e la timida ragazza coreana in casacca blu davanti a noi si trasforma in una donna ammaliante dalla voce possente. Il duo, atipico già dalla presentazione (una coreana che canta in francese ed un chitarrista norvegese), dimostra di avere un tipo di affiatamento che sposa il gioco, l’intesa immediata e quel tipo di complicità da coppia di lunga data. Youn Sun Nah plasma la sua voce sul suono della chitarra, completandola.

I suoi vocalizzi non sono per nulla scontati o ridondanti. Accompagnandosi con gesti delle mani sembra suonarsi come un theremin; sembra disegnare la musica nel vuoto o scuotersi come una percussione. Gli omaggi sono tanti: da Nat King Cole, Egberto Gismonti, Randy Newman, a Tom Waits, Leo Ferré, Carla Bley, Sergio Mendes e addirittura una piccola perla come Enter Sandman dei Metallica. Inoltre, il legame con le sue radici viene enfatizzato nel riarrangiamento di Gwangondo Arirang, brano del folklore coreano. L’annuncio poi di un pezzo tutto italiano: Estate di Bruno Martino. Youn Sun Nah ritorna impacciata nel presentarla, sperando ci piaccia. La risposta non tarda ad arrivarle, assieme al lungo scroscio di applausi, fischi e “brava”. Lei si commuove intimidita. Fa tenerezza vederla con le mani alla bocca, stupita del successo riscosso. C’è spazio anche per lo standard My favourite things in cui è lei stessa a suonare una kalimba, antico strumento africano a percussione. Che non è certo l’unico strumento singolare utilizzato durante la serata! In Moondog spunta un kazoo, ed in Same Girl un carillon; mentre Ulf Wakenius utilizza la sua bottiglia d’acqua per suonare la chitarra. Il pubblico è entusiasta al punto di non volerla lasciar andare. Il bis è doppio ed il tempo che passa alla fine degli applausi finali è lungo!

Serena Marincolo

Foto di Valentino Lulli

 

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Live Report – Gli Chat Noir al Music Inn

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L’elegante atmosfera del Music Inn diventa la cornice perfetta ad accogliere l’arte di questo trio romano, che per l’occasione si accompagna ad una contrabbassista d’eccellenza, Caterina Palazzi, al posto di Luca Fogagnolo. Dopo il successo del live di presentazione del nuovo album – Weather Forecasting Stone – all’Auditorium Parco della Musica, gli Chat Noir (oltre a Luca Fogagnolo al contrabbasso, Michele Cavallari al piano ed elettronica e Giuliano Ferrari alla batteria) hanno proseguito il loro tour con la data di venerdì 28, proprio in uno dei locali cardine della scena jazz capitolina. L’ampia gamma di contaminazioni del trio trova spazio fin dal primo brano, lasciando il jazz come punto d’arrivo e di partenza in un percorso che offre diverse chiavi di lettura e che segna uno stacco netto rispetto a qualsiasi altro progetto attuale nell’ambito. Risulta così difficile, se non addirittura riduttivo, inquadrarli in un genere preciso; anche se loro stessi si sono dichiarati molto vicini alle sonorità nordeuropee dell’etichetta ECM. Quello che ci offrono è un viaggio introspettivo alla ricerca del suono “giusto”. Cosa che accade, per esempio, in Stone is dry o in Swinging stone, in cui le sonorità jazz danno maggiormente spazio ad un’impronta post-rock.

Al contrario, in brani come White on top o Can’t see stone è il “jazz elettronico” a farla da padrone. Fondamentale sembra però risultare l’abolizione del tradizionale concetto di leader e sideman, favorendo l’agire dei singoli membri in modo completamente equiparato. Caterina Palazzi accompagna l’eleganza sonora a quella visiva attraverso il suo fascino e la leggerezza dei suoi gesti. Tutti e tre incarnano alla perfezione il trasporto emozionale alla base di ogni brano, tessendo atmosfere di estremo lirismo. Un concerto che ti culla, dandoti la certezza che ci sia ancora qualcosa di interessante ed innovativo in un Paese ormai dedito alla canzonetta.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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CASA DEL JAZZ live diary – 6 settembre 2011 – Rita Marcotulli “racconta” i Pink Floyd

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La Casa del Jazz ci regala l’ultima rassegna in questa estate settembrina, abbandonando le sonorità che hanno contraddistinto il “Casa del Jazz Festival”, per 6 giorni di puro progressive. “Progressivamente”, questo il nome della rassegna, apre con un gruppo d’eccellenza guidato da una pianista d’altrettanta fama: Rita Marcotulli. “Us and them – Pink Floyd sounds” è un omaggio che attinge alle diverse realtà musicali dei componenti, dal risultato per nulla scontato! La folla alla biglietteria non tradisce le aspettative. Del resto i Pink Floyd rientrano in quella categoria di gruppi che uniscono generazioni, e forse anche la presenza sul palco del cantante Raiz, storico frontman degli Almamegretta, ha il suo peso. Fatto sta che ci ritroviamo tutti sul solito prato, frequentato un’estate intera (per chi è rimasto un vacanziero di città!), con le facce più abbronzate e rilassate a farci stupire ancora una volta. C’è meno rigore e più voglia di interagire con chi ci sta intorno. Ai tavoli le chiacchiere hanno il sapore dei viaggi che ciascuno racconta, ma tutti buttano un occhio al palco almeno una volta, in segno di attesa. Lo spiedo del kebab c’è ancora, ad impregnare l’aria, a ricordarci che in fondo può essere ancora estate. L’afa ha lasciato il posto ad un’aria più leggera, così si ha più piacere a stare all’aperto (ed anche a pensare di essere già tornati a Roma!). 

Alla breve presentazione della serata e del festival in sé, tutti si ricompongono pronti all’ascolto. Sul palco salgono in sette: oltre alla Marcotulli al piano e Raiz alla voce, abbiamo Andy Sheppard al sax;Pippo Matino al basso elettrico; Fausto Mesolella alla chitarra elettrica; Michele Rabbia alle percussioni e Mark Mondesir alla batteria. Se l’impronta di Raiz si avverte distintamente nelle sonorità arabeggianti, Michele Rabbia le valorizza con la sua bravura nel manipolare i suoni degli oggetti più disparati (in questo caso in particolare, la capacità di ricreare suoni “elettronici” attraverso una lastra di metallo). Fiori all’occhiello i virtuosismi di Sheppard e della Marcotulli. Pur non volendo stravolgere la struttura originaria dei brani, essi si ripresentano nuovi, non sempre immediatamente riconoscibili, ma ugualmente affascinanti ed inebrianti. L’uso del riverbero li rende eterei, avvolgenti; lascia che diventino un ricordo, un sogno. Come se la loro presenza lì, in quel momento, non fosse del tutto scontata. Colpisce, tra i brani, il modo in cui “Shine on you crazy diamond” sia stata spogliata da qualsiasi orpello virtuosistico, lasciandone emergere la bellezza del testo ed accentuando il contrasto tra la voce graffiante di Raiz e quella più “pulita” di David Gilmour. Senza tentare di surclassare o dare un’interpretazione originale di un brano unico nel suo genere.

Il progetto è ambizioso e ben riuscito. Riesce a calamitare l’attenzione e a regalare un po’ di nostalgia a chi i Pink Floyd li ama dagli esordi.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Live report: Shake the jazz a Villa Celimontana

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Shakespeare non l’ha mai fatto, ma Stefania Tallini assieme ad Angela Antonini e Paola Traversoci ha provato, con gran successo. Uno spettacolo interamente declinato al femminile quello di Shake the jazz del 12 luglio a Villa Celimontana; rivisitazione dell’opera shakespiriana Antonio e Cleopatra, abbinata al piano della Tallini, che gli ha conferito un forte carattere jazz. Le note seguono gli umori altalenanti di Cleopatra, l’amore tormentato con Antonio e il turbinio straziante della battaglia. Un adattamento, quello di Paola Traverso e Angela Antonini, che non segue in maniera lineare e cronologica la storia dei due amanti, ma che vuole mettere in risalto, con l’ausilio del piano, l’aspetto più viscerale dei pensieri, delle riflessioni e dei sentimenti dei due protagonisti. La cornice poi è più che suggestiva, e quasi evocativa; un’immersione nel verde di Villa Celimontana, rispecchiato nelle luci soffuse del festival e nel canto delle cicale un po’ ovunque. 

Una raffinatezza che ben si confà alla musicista Stefania Tallini, la quale vanta una brillante carriera artistica nell’ambito del jazz italiano ed europeo. Vincitrice di concorsi importanti sia come pianista che come compositrice-arrangiatrice, ha all’attivo 6 dischi a suo nome, presentati anche in Francia e in Germania: Etoile(Yvp – 2002); New Life (Yvp –2003); Dreams (Alfamusic / Raitrade, 2005); Pasodoble (Sbrocca, 2007); Maresìa(Alfamusic, 2008) e il nuovo The Illusionist (Alfamusic, 2010), in Piano Solo. Tutti i CD presentano musiche interamente scritte e arrangiate dalla pianista. Deutschlandradio Berlin, Radio France e Radio Bremen hanno trasmesso suoi concerti; Radio Tre – in contemporanea con il circuito radiofonico europeo EBU – ha trasmesso in diretta i suoi due concerti (nel 2006 e nel 2008) inseriti nell’ambito dei Concerti Del Quirinale. Sempre al Quirinale è stata ospite per la “Celebrazione Internazionale della Festa della Donna 2008”, alla presenza del Presidente della Repubblica Napolitano. Alcuni suoi brani sono stati registrati da Enrico Pieranunzi: “December Waltz” e “When All Was Chet” e da John Taylor e Diana Torto “Deseo”. Inoltre, un suo brano, “New Life”, è stato inserito nel REAL BOOK ITALIANO.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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BARI IN JAZZ live diary – 28 giugno 2011

Una mezz’ora appena, e anche per quest’anno Bari suonerà jazz. Giugno. Caldo, ma non troppo. Piazza Ferrarese è tutta uno struscio, come si dice dalle nostre parti. Trepida. C’è la fila dei bimbi al camioncino dei gelati. Prove di luci. I ragazzi al muretto si raccontano i primi sorrisi della vacanza. Soundcheck. Granita al limone. «Ma c’è un concerto?» Chiede una donna anziana al suo uomo d’una vita. Lui la guarda, con la stessa espressione di disapprovazione che magari le riserva quando il piatto è sciapo. «C’è il jazz!». Lui che ha letto i giornali, lo sa. Stasera, a Bari, c’è il jazz. Lo sanno tutti. L’entusiasmo di Ottaviano ha vinto ancora. E lo spettacolo è pronto. Anche quest’anno, nonostante i tagli alla cultura. «La vera forza di questi festival è la partecipazione del pubblico, il confronto tra vecchie e nuove generazioni, la progettualità degli artisti del nostro territorio in dialogo con quelli di altri contesti internazionali» (R. Ottaviano). E il BIJ prende le mosse proprio da qui, dal nostro territorio, dalla Puglia. Auditorium diocesano della Vallisa, la chiesa della purificazione, meglio nota come la “Raveddise”. «Il momento è taumaturgico».

Ottaviano consegna all’ascolto del pubblico il Gianni Lenoci Hocus Pocus Quartet. Un ingresso a schiaffo. Improvvisazione. Composizione. Chironomia. Una cartografia di emozioni (scrive Lenoci, citando Deleuze). È un polimorfismo dinamico. È un laboratorio timbrico permanente. «Dobbiamo accettare l’idea che non possiamo possedere la musica, possiamo solo esserne vittime felici» (G. Lenoci). I suoni piramidizzano. I drums di Mongelli sono liberatori. È una trance. Lenoci riempie, fitto. È una febbre. Il sax di Gallo diventa uno strumento nuovo, dove il soffio diventa voce, e la voce grido, e il grido di nuovo suono. Tutto è calibrato. L’effetto è destabilizzante, ma così ricco da sostenere. Feroce. Attacca e spaventa. Non accenna la sosta. È un moto perpetuo. Decomprime e, sfiancato, desiste. Stride. È Mongelli, che vibra il ride con l’archetto, mentre Lenoci pizzica le corde del suo piano. Ritorna il tema. Litanico. Indossa una maschera taurina. È drammaticamente buffo, e fa spavento. Un attimo e si cambia scena. È un melodismo caldo che evapora lento. Belli i contrasti tra gli spazi ampi del sax di Gallo e quelli angusti del pianismo di Lenoci. Si incontrano, in un unisono che armonizza e rompe, d’improvviso, le resistenze. Tutto è così spontaneo e così maniacalmente previsto. Cromatizza un’ascesa. Carica. Contrabbasso e batteria sostengono. È una processione. Sale ancora, mentre cascano, in uno stato quasi di trance, le sequenze di Lenoci. E l’arrivo non deflagra. Resta lì, nell’ovvietà di qualcosa che non può sorprendere, tant’è naturale. Ritorna l’elemento ostinato, quasi marziale. Registri gravi. Il basso di Gadaleta è lamentoso, è un latrato che stringe e riconsegna ad atmosfere tetre tutto il resto. Si gioca ancora col polimorfismo, ed è quasi un rāga. Straordinario effetto visivo, oltre che acustico. Calma e si ritorna alle sonorità dell’inizio, resta il ricordo dell’Oriente. Ipnotico. Il coinvolgimento è totale. È un viaggio della mente. Smorza. Cupo, di tuono lontano. Splendido il terzo intervento, che apre con l’assolo di Gadaleta. Lenoci è ricchissimo, debordante. È un virtuosismo che scorre, ramifica e si scompone, raggiungendo altitudini e direzioni imprevedibili e dannatamente perfette. Bel swing. Il sincopato diverte e crea il giusto spazio al protagonismo di Gallo. Avvincente il disegno. Si sperimenta ancora. Si gioca con gli armonici. L’intro è geniale. Surreale. Libere dagli smorzi, le corde del piano di Lenoci simpatizzano coi richiami di Gallo. È un gioco di voci. È una corrispondenza lontana. C’è qualcuno che risponde, di là. C’è un universo dentro. Bellissimo. Cambio.

Qualche centinaio di metri e si apre un nuovo set. Teatro Piccinni. Tomasz Stanko e il suo Nordic Quintet sono pronti, ad un passo dalla scena. Intensa presentazione di Ottaviano, e si comincia. Il suono della tromba di Stanko è irrimediabilmente caratterizzato. Lirico. Morbido. Carezzevole. Le atmosfere dell’intro disperdono, si disperdono. Eco. É un minimal che solca e percorre. Silenzioso. Pulsante, quasi nervoso il basso elettrico di Christensen. Quello che si avverte, subito, è un’attenzione ossessiva alla linea. Distesa. Morbidamente adagiata. Il piano di Tuomarila è lì, sempre presente, discreto, statico. Non c’è protagonismo. Solo la linea del maestro. Luminosa. Il resto viaggia di sfondo, in sordina. Non c’è esasperazione, non c’è picco. Non c’è trasporto. Soffoca. Tutto è un racconto a mezza voce. Louhivuori crea spazi percussivi prismatici che restano vuoti. S’abbassano le luci, e ora è il basso di Christensen a narrare. L’ascolto si fa muto. Buio. I ribattuti tentano una tensione che non arriva. Innocuo. C’è una campana di vetro. Ovatta. Spegne. Un sound quasi annoiato e stanco. O forse c’è dell’altro. Mi viene da pensare. Tenta la breccia la chitarra di Bro, lavora di profondità. È una lama sottile. Fende. Un attimo, e intravedo la risposta. Dietro quel jazz di velluto, che scorre liscio e morbido al tatto, quasi soporifero, si avverte l’attesa. È come se tutto si svolgesse sotto la mano di qualcosa di più forte, di più grande. Visionario. Si crea un nuovo ambiente, un campo emozionale che tenta la fuga. Ha gli occhi sgranati, rivolti al cielo. Ma è ad un passo da quel cielo che, razionale, torna la tromba di Stanko. Raccoglie e riconsegna al sottocute il tentativo di fuga. La risposta. È come se tutto avvenisse in secondo piano. A voler celebrare una presenza, quella di Miles. Miles lives, impera il sottotitolo dell’edizione 2011 del BIJ. Ecco. Forse il momento taumaturgico si sta svolgendo ora. Celebrativo. È nel pensiero celebrativo si alza, devota, una preghiera. Intensa. Viva. Nuova. Ci riesce il piano di Toumarila, sostenuto con fede dal basso e dai drums. Ci riesce Stanko che raccoglie, ancora coerente, a mani giunte. Commemora la chitarra di Christenson. Semplice. Dolce. Calda. Vagamente blues. È un ricordo sfilacciato, ricucito di swing dalla magistrale tromba di Stanko. Piano, e quasi dei timpani. Chiude funereo. È un’altra dimensione quella che creano basso e chitarra. È fortissima la sollecitazione. Spettrale. Miles vive. Risveglio.

Mentre di là nel Piccinni si commemora e le atmosfere sono nostalgiche e intimiste, in piazza Ferrarese si scatena la festa. Hammond fronte al pubblico. Non ci sono trucchi. Tutto si crea sotto gli occhi trepidanti di un pubblico che vuole divertirsi. Taylor sa come fare. È immediato, e il suo stile è quello d’un trascinatore. Un animale da palcoscenico. Un attimo e riesce ad animare una piazza intera che lo cerca, lo aspetta e lo incontra in uno «Yessss!!» lunghissimo. Tutti sono pronti. «Are you ready for this?». È il richiamo. Ed è un battito di mani che corre dalla prima fila ai corridoi dei locali e accoglie in un abbraccio le migliaia di persone che tra ombrelloni rossi e bicchieri di birra vivono lo spettacolo di piazza Ferrarese. Lei è splendida, la black lady del James Taylor Quartet. Infiamma e consola. Taylor è divertente e trascinante, anche quando riesce a far intonare ad una piazza intera un inaspettato Happy Birthday. È un gioco che non stanca. È un tripudio di colori. Incandescente. È acid. È rock. Detona. Il pubblico va in visibilio. Il «corto circuito» (R. Ottaviano) è innescato. Definitivo. Chissà se era questo il jazz che aveva in mente il vecchietto di qualche ora fa. Mezz’ora a mezzanotte. E la festa continua.

Eliana Augusti

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Live Report: “Body & Soul”, si apre il festival della Casa del Jazz

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L’apertura, martedì 21, del “Casa del Jazz Festival”, porta sul palco un evento davvero speciale: a ridosso dell’uscita nelle sale cinematografiche del film documentario di Michael Radford, Michel Petrucciani “Body & Soul”, un omaggio a questo eclettico artista da parte di alcuni musicisti che l’hanno accompagnato durante la sua carriera. Giampiero Rubei, direttore del festival, è riuscito a cogliere nell’organizzazione, ciò che avrebbe fatto sentire a proprio agio tutti i tipi di cultori del jazz; dai “classicisti” alle nuove generazioni, usufruendo del prato antistante con il palco come anello di congiunzione. È proprio da questo particolare che si può già intuire la varietà di pubblico che l’evento è riuscito ad attirare: c’è chi è arrivato molto presto per accaparrarsi i posti più vicini ai musicisti, chi aspetta seduto ai tavoli del bar sorseggiando un aperitivo, chi cena sulla terrazza del ristorante, chi fa la fila per mangiare un kebab (Già, un kebab! Ottimo e di poco intralcio rispetto al vassoio della tavola calda, se ad un certo punto fossero finiti i tavoli e bisognasse sedersi dove capita), e chi chiacchiera direttamente sdraiato sul prato in attesa che comincino a suonare. Questa è, a grandi linee, l’istantanea che abbiamo “scattato” appena varcato il cancello d’ingresso. Non che prima non fossimo riusciti ad intuire che rilevanza avesse l’avvenimento, data la fila di macchine e scooter parcheggiati lungo tutte le mura Aureliane. Però è nel momento in cui li vedi tutti insieme, lì sul quel prato e non più chiusi e “smistati” nei vari jazz club, che ti accorgi di quanto questo genere sia diventato popolare. Ed è solo pescando dal background di ognuno che si riesce a creare un’atmosfera piacevole per tutti come quella di martedì.

L’arrivo, alle 21, ti permette di godere del giardino ancora illuminato e di passeggiare liberamente alla ricerca del posto migliore. L’allestimento ci risulta semplice ed elegante: gran parte dei posti a sedere partono quasi dal cancello d’ingresso, arrivando fin sotto al palco. Tuttavia si ha la possibilità di camminare ed eventualmente sedersi (sull’erba) sia di lato che dietro ad esso. Più giù sono stati sistemati due gazebo con una tavola calda e gli spiedi dei kebab (dove la fila è nettamente maggiore!), mentre la zona bar è subito di fronte l’entrata dell’edificio; i tavolini già pieni da parecchio. Si fa la fila per mangiare o bere qualcosa di modo da non rimanere vincolati a concerto iniziato, si chiacchiera o ci si ferma a guardare il trailer del film (rigorosamente sottotitolato e senza audio per non disturbare il concerto) proiettato in loop su un muro del complesso. Alle 22 il palco si anima ed apre con una breve intervista ad Alexandre Petrucciani, figlio di Michael presente per l’occasione; e con la proiezione di due spezzoni tratti dal film. A breve ecco salire sul palco la prima formazione: al piano Eric Legnini, accompagnato da Manhu Roche alla batteria, Flavio Boltro alla tromba, Pippo Matino al basso, Francesco Cafiso e, a sorpresa, Stefano Di Battista ai sax. Il pubblico è ormai magnetizzato, fa piacere notare che chi continua a chiacchierare lo fa in un bisbiglio; l’aria è per lo più in silenzio e continua ad esserlo fino alla fine del primo set. Durante l’intervallo Silvia Barba, che ha organizzato questo evento in particolare, legge una lettera inviata da Petrucciani a Manhu Roche dagli Stati Uniti. Un’altra clip; questa volta è il trailer. Poi subito pronti a ripartire con la seconda formazione, che vede al piano l’unica artista donna ad esibirsi in questo omaggio, Rita Marcotulli, assieme ad Aldo Romano alla batteria, Furio Di Castri al contrabbasso e nuovamente Flavio Boltro alla tromba. Qualcuno più impavido del pubblico si alza per scivolare fin sotto al palco e guardare la restante parte del concerto lì in piedi. C’è una coppia che balla. L’attenzione è sempre alta. Giunti a fine concerto la gente sembra quasi interdetta, non si alza, come fosse ancora incantata, Silvia Barba sul palco con gli altri sorride e propone un finale improvvisato con tutti gli artisti agli strumenti. La Marcotulli e Legnini suonano a quattro mani, alla batteria Roche e Romano si alternano, ne vien fuori qualcosa di strepitoso, meritevole di tutti gli applausi presi. Tanto che la gente alla fine (questa volta per davvero) sciama verso le auto a rilento.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Il jazz italiano a Shanghai

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L’Esposizione Universale 2010 tenutasi a Shanghai dal 1° maggio al 31 ottobre aveva scelto il tema “Città migliore, vita migliore”; una grande occasione per esplorare il potenziale delle città nel 21° secolo, per scoprire l’evoluzione dei centri urbani e del concetto di civilizzazione del nostro Pianeta. Sono state coinvolte 200 nazioni e organizzazioni internazionali, con oltre 70 milioni di visitatori. Nonostante il regolamento dell’Expo prevedesse che i diversi Padiglioni venissero smantellati alla fine della manifestazione, quello italiano ha ricevuto ben 23 offerte di acquisizione da parte delle principali istituzioni cinesi e municipalità – tra cui Shanghai, Pechino e Hong Kong – diventando così permanente! Inoltre, il Museo Permanente dell’Expo di Shanghai ha acquisito oltre la metà delle opere esposte all’interno dell’edificio. Ma ciò che più interessa noi cultori del jazz, è la rassegna (giunta alla terza edizione) che celebra il ritorno del genere nella capitale economica della Cina e che ha visto salire sul palco i migliori musicisti jazz per 20 concerti e numerosi incroci e jam sessions. 

A questi enormi successi è stato dedicato un fascicolo, L’Italia all’esposizione universale di Shanghai 2010, presentato giovedì 16 all‘Auditorium. A chiudere le testimonianze dei volti più importanti dell’Expò, un piccolo concerto di Danilo Rea, Enzo Pietropaoli ed Amedeo Ariano. Il trio ha portato a Shanghai, e all’Auditorium, una parte di quella che è l’italianità musicale, proponendo alcuni dei più bei brani del cantautorato “nostrano”. È “Bocca di rosa”, col suo ritmo frenetico, ad aprire e chiudere l’esibizione, seguta da “Nessun dorma” e “Senza Fine”, prima di ritornare nuovamente a De Andrè con la splendida esecuzione de “La canzone di Marinella”. C’è anche lo spazio per la celebre canzone degli spazzacamini di Mary Poppins, camuffata da un’improvvisazione sul tema, parentesi giocosa che apre ad una nostalgica “Resta cu mme”, brano che va ad intrecciarsi, sul finire, con “Nel blu dipinto di blu” di Modugno, quasi immancabile per l’importante pezzo d’Italia che porta a bandiera. Altra sorpresa che ci attende all’uscita, assieme al fascicolo in omaggio, è un disco: Il meglio del Jazz Italiano a Shanghai, che al suo interno annovera i nomi di Cafiso, Pierannunzi, Bollani, Gatto, Salis, Bosso, Rea, Fresu, Rava, Telesforo e altri ancora.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Lasciatevi incantare dal Sign Of Sound

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La parola chiave per la serata dello scorso martedì 7 all’Alexander Platz, potrebbe essere “rincorrersi”. Ad accompagnare il progetto di interazione pittorico-musicale Sign Of Sound, sono due insigni personaggi della scena jazz romana: Daniele Pozzovio e Davide Pentassuglia, che abbiamo già avuto modo di conoscere, assieme al produttore, chitarrista, compositore e video maker Alex Marenga. “Madre” di Sign Of Sound è Fabiana Yvonne, a cui abbiamo dedicato una breve intervista. 

Come nasce il progetto Sign Of Sound?

Nasce da una serie di incontri che hanno poi dato l’input all’idea. Io parto dalla danza classica e contemporanea, per poi affacciarmi alla pittura. È per quest’ultima che mi trasferisco a New York, dove entro molto a contatto con la scena jazz locale. Seguire molti concerti ed interagire con i musicisti mi ha portata a visualizzare queste dinamiche musicali. Man mano la visualizzazione è diventata più complessa e assieme all’improvvisazione musicale io improvvisavo visivamente, a mia interpretazione ovviamente, i suoni degli strumenti. Il processo si è sviluppato poi in maniera piuttosto incognita, nel momento in cui vi si è unita la danza. La tela per me troppo piccola e il forte rapporto che avevo col movimento e il corpo mi hanno portata sempre ad essere a cavallo tra questi due mondi, che si negavano a vicenda. La musica, in un certo senso, li ha fatti incontrare. Il primo musicista ad accogliere questo progetto è stato Gregoire Maret. È stato invece più difficile portarlo in Italia, nonostante ora abbia preso molto piede.

Ed invece questa formazione come si è creata?

Anch’essa dal risultato di un percorso. L’ultimo membro con cui sono entrata in contatto è Alex Marenga. Anche lui come me “manipolatore”! Mentre con Davide Pentassuglia ci lavoro già da circa un anno. Ci siamo trovati subito bene a lavorare insieme. Lui è un grande improvvisatore, oltre che effettista e rumorista. La cosa molto bella è che spesso sono io a “suonarlo”. Infatti spesso è il paint performer a creare un ritmo con le spatole (uno degli strumenti utilizzati), che il musicista segue.

Come è avvenuta la scelta dei materiali?

Avendo lavorato anche come scenografa, ho avuto modo di sperimentare diversi materiali; potendo studiare anche diverse cose come il taglio delle luci, l’intensità, le superfici… In base alla loro variazione, ovviamente, si hanno diversi effetti. La cosa nuova è che si lavora in sottrazione del colore, e non in addizione!

Oggi sei stata accompagnata da altre ragazze, chi sono?

Sono Carmen Nicoletti, Laura Fantuzzo (paint performer della serata) e Pamela Guerrini. Tre ragazze che hanno partecipato al seminario che ho tenuto alla Casa del Jazz e che stanno facendo formazione presso l’Accademia di belle arti.

Dicevamo quindi “rincorrersi” come parola chiave. Come il rincorrersi delle improvvisazioni, che non si fermano nemmeno per un minuto; il rincorrersi delle note allora, delle mani svelte di Pozzovio sul piano (o direttamente sulle sue corde), e quelle di Laura sul pannello; dei segni “dipinti” che vengono subito trasformati in nuovi. È indubbio l’affiatamento tra i musicisti, che creano netti contrasti tra i due principali strumenti, piano e batteria, che sembrano scontrarsi, lottare, per primeggiare. Di valenza significativa, soprattutto nel trasformarsi del pannello-scenografia, è la componente elettronica, con l’inserimento successivo di una chitarra, che apporta continuità e fluidità ai diversi momenti musicali e ai movimenti della performer. La divisione in due ambienti diversi delle componenti musicale e pittorica, purtroppo non rende a pieno la bellezza e il fascino creati dalla performance nella sua interezza. Sicuramente da vedere e rivedere ancora; perché, si sa, l’improvvisazione non dà mai gli stessi risultati!

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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