Jazz Agenda

Live Report: Hard Chords Trio… e dintorni

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L’inusuale location di Q e dintorni fa da palco, sabato 28 maggio, ad un’altrettanto inusuale performance degli Hard Chords Trio, freschi vincitori del premio Elsa Morante per la musica. Avevamo già avuto modo di conoscerli ed apprezzarli durante un’intervista (che potete trovarequi), ma in “veste” live li riscopriamo sempre più entusiasmanti. La formazione, composta da Paolo Grillo al contrabbasso, Davide Pentassuglia alla batteria e Lorenzo Ditta al piano, propone i più celebri successi della musica rock internazionale riarrangiati in chiave jazzistica. L’album Ram Colours, presentato ufficialmente a marzo, che raccoglie questi affascinanti esperimenti, contiene inoltre composizioni originali del gruppo. 

L’apertura è affidata ad una pietra miliare per eccellenza, una Grace che spazia nei suoni della batteria, perdendo il suo aspetto più graffiante, ma con un’enfasi maggiore sull’intensità. Principalmente è il piano a far emergere il tema distintivo di questo e degli altri brani, mentre contrabbasso e batteria vi “costruiscono” intorno. Da subito risalta la differenza di caratteri dei tre musicisti, che si completano a vicenda riuscendo a creare un unico “soggetto” ben in equilibrio tra le parti. Paolo, molto più timido, si fa scudo con lo strumento, diventando un tutt’uno con esso. È Lorenzo a risultare il più scenografico, con il suo muoversi frenetico e l’espressività del suo volto. Mentre Davide, sempre molto concentrato, sembra perdersi nella musica stessa. Ognuno trasmette al pubblico una parte del proprio sentire; tutti insieme ce ne danno una visione completa. Si prosegue con i netti contrasti di Come as you are, arrivando alla bellissima Teardrop, decisamente meno “delicata” dell’originale ma proprio per questo di forte impatto; è un peccato che non sia presente nel disco! Ugualmente per Material Girl, dalla divertente rivisitazione. Quasi a voler essere un gioco che spezza proprio a metà concerto. Si conclude con i Police, i Metallica ed i Pearl Jam. Un bel crescendo, insomma, che tiene desta l’attenzione, con la grande capacità di coinvolgere ed unire un po’ tutti; nei ricordi che ognuno lega ad una canzone piuttosto che all’altra e nello stupore dell’inaspettato.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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“Live Report: Il battesimo” del Daniele Pozzovio Trio alla Casa del Jazz

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Tra i giovani talenti dell’attuale scena jazzistica capitolina Daniele Pozzovio, che martedì 10 maggio ha presentato il suo nuovo progetto in trio alla Casa del Jazz, emerge per la sua “gavetta”. Romano classe ’77, si diploma presso la Saint Louis Jazz academy di Roma nel 1996 e al conservatorio di Frosinone nel 2000 con il massimo dei voti. Nello stesso anno frequenta i seminari del Berklee College of music di Boston; conseguendo un riconoscimento alla carriera ed una borsa di studio per la Berklee university, per poi suonare in diverse edizioni di Umbria Jazz. Compone ed esegue al pianoforte le colonne sonore di film appartenenti alla storia del cinema muto, tra i quali: MetropolisL’Inferno del dott. Mabuse di Fritz Lang, il Gabinetto del dott. Caligaridi R.Wiene, l’Uomo con la macchina da presa di D.Vertov, alcuni cortometraggi dei fratelli Lumiere, il viaggio sulla luna di G.Melies, commissionate dall’istituto di cultura tedesca a Roma. Nel 2001realizza un omaggio a Man Ray: una performance di arte realizzata insieme a delle installazioni di pittura elettronica e musica, in collaborazione con Alfredo Anzellini. Nella sua carriera ha collaborato con musicisti come Bruno TommasoGiovanni TommasoStefano TagliettiStefano BollaniRamberto Ciammarughi,Massimo ManziAldo Bassi Gabriele Coen. Nel 2003fonda insieme ad Alvise Seggi l’Arteval TrioScrive nel 2003 quattro colonne sonore realizzate per la rubrica di Rai-educational Il mosaico su delle animazioni per bambini tratte da 4 favole di Alberto Moravia, oltre a diverse collaborazioni con Rai 3. Collabora con l’Istituto superiore di fotografia (2004) per la realizzazione di un seminario di tre appuntamenti sul cinema espressionista tedesco, realizzando tre colonne sonore per il FaustMetropolis ed il Gabinetto del dott. Caligari. Fonda insieme a Leonardo Cesari Max Ottaviani l’Organic Trio, con il quale suona subito al Circolo del Ministero degli esteri. Nasce da qui il progetto Tenco 2005 con Raffaela Siniscalchi cantante di Nicola Piovani. 

Trampolino di lancio per il Trio di Daniele Pozzovio (Daniele Pozzovio al piano, Giorgio Rosciglione al contrabbasso e Andrea Nunzi alla batteria) è, come dicevamo, l’importante “vetrina” della Casa del Jazz, che porta a battesimo questa nuova formazione, come lo stesso Daniele ci racconta: “Con Giorgio suoniamo insieme da una decina di anni. Tra le diverse esperienze fatte assieme c’è anche la creazione di un festival. È un rapporto più duraturo e continuo. Anche Andrea lo conosco da 10 anni, ma sono state minori le opportunità per suonare con lui. Era tanto che volevo farlo però, quindi questa è stata l’occasione… Ed eccoci qua! In pratica il trio nasce stasera. Questo concerto è inoltre il preambolo al disco che pubblicherà la Casa del Jazz e che registreremo a luglio durante l’evento di Villa Celimontana”. Il repertorio esplora un po’ tutte le sfaccettature del jazz classico: “Più vado avanti più mi lego alla tradizione. Sto facendo un back molto forte verso il materiale degli anni ’40-’50”; purtroppo con l’assenza, per questioni tecniche, dei brani originali: “L’esigenza di portare avanti brani originali è forte. Oltre che dal mio background classico, traggo ispirazione molto dai i musicisti con cui lavoro, che mi consigliano anche”. La sua (giusta) “arroganza musicale” contrasta con un’estrema timidezza, che lo porta a sedere di spalle al piano quasi a voler sfuggire agli sguardi e alle lodi del pubblico. Eppure lo si riscopre scenografico e fiero nell’esibizione finale al piano solo, in cui dà un’alta dimostrazione della sua bravura. Rosciglione, come sempre maestrale, fa un po’ da guida e un po’ da tramite tra il pubblico e Pozzovio. Il concerto risulta fitto e incalzante, nel susseguirsi dei brani come nei gesti dei musicisti stessi, tenendo tutti col “fiato sospeso” fino alla fine. Decisamente meritevole la formazione e l’intera serata, immeritata la sala semivuota!

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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A New Thing live al 28divino

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E’ sempre interessante scoprire l’incrocio casuale – o non casuale – di percorsi diversi che un bel giorno decidono di mettersi in gioco e di fondere la propria con l’altrui esperienza, in ogni campo, in quello musicale soprattutto. L’unica forma che permette la completa espressione di tutto questo è naturalmente il jazz, e non ci stancheremo mai di ripeterlo.

Ieri sera al 28divino di via Mirandola questo New Thing Quartet, formato da Michele Villari, Raffaele Ferrari, Andrea Maria Bonioli e Guerino Rondolone, ha provato proprio qualcosa del genere. La dicitura ‘New Thing” – letteralmente ‘la cosa nuova’, venne usata per descrivere il lavoro di alcuni avanguardisti del jazz, particolarmente Ornette Coleman e Cecil Taylor, nel momento in cui questi inventavano il cosiddetto free jazz, ovvero abbandonavano le costrizioni della struttura armonica, della struttura ritmica e della tonalità per avventurarsi in strade sconosciute.

Villari, Ferrari, Rondolone e Bonioli sono tutti leader di altri progetti, vengono da scuole diverse, da ritmi, generi, sonorità diverse, e sono tutti compositori. Come ci ha raccontato Villari, altosassofonista e clarinettista del gruppo, ognuno di loro scrive e arrangia, porta in sala il proprio materiale ad uno stadio di lavorazione piuttosto avanzato e poi insieme agli altri ne costruisce lo scheletro che poi verrà arricchito live dai soli dei singoli musicisti. Perché in effetti questi ragazzi sono molto ben costruiti tecnicamente, e il loro lavoro non è né banale né semplice: le composizioni del batterista Bonioli, ad esempio.

Bonioli, tanto per capirci, è uno che ha suonato in mezzo mondo con un certo Morricone Ennio, oppure con Roger Waters, o anche più semplicemente (?) con l’Orchestra Jazz di Santa Cecilia. Ecco, Bonioli scrive dei brani dai titoli insoliti, tipo Ipod, con una bella apertura con pedalone alla ‘Caravan'; oppure ‘Facebook’, dal sapore funk, o ‘Low Cost’, una bella ballad all’italiana, quasi una colonna sonora alla maniera di quel vecchio film di Avati, ‘Jazz Band’, ve lo ricordate?

In ‘Low Cost’ c’è il clarino che Michele Villari muove in modo strano, circolare, come se mescolasse l’aria davanti a sè, come se volesse sporcarne un po’ il suono. Michele è un virtuoso del clarino, ma anche del sax, si capisce dopo tre o quattro note. E’ in grado di suonare senza vibrato, con il sax alto, ed è in grado di tenere una nota per tre quarti d’ora. Non si capisce dove prenda il fiato. Anche Michele scrive, che ne so, brani tipo ‘Fahrenheit 451′, che lui dice essere un omaggio a Truffaut. Truffaut aveva fatto il film traendolo dal famosissimo romanzo di Ray Bradbury. (451 gradi Fahrenheit è la temperatura con la quale la carta prende fuoco in modo spontaneo, e quel libro – e quel film – raccontano di una società fantascientifica in cui i libri sono illegali, e vengono bruciati. Che strano, vero?)

E’ un bel tema, quello di Fahrenheit 451, intendo il brano musicale: una cadenza di terzine discendenti che si incastrano nei quattro quarti in modo da spostarsi ogni volta – è una figura conosciuta proprio come il tre nel quattro – che Villari suona in unisono con il pianista Ferrari, altro magistrale tecnico del proprio strumento.

Raffaele Ferrari è uno di quelli che sembra starsene in fondo, col capo chino sul pianoforte, concentrato, salvo poi esplodere in degli assolo che ti spettinano. Ha scritto questo brano chiamato ‘Le vacanze di Bach’ che ci vuole un orologio digitale in testa, per suonarlo. Cinque quarti, poi 7, poi 14, poi boh, poi torna in quattro, dio solo sa come si ritrovano. E in tutto questo, lui, durante il solo, ci mette pure un bel po’ di citazioni del noto giovanni Sebastiano. (Se è per questo qui Villari ha messo pure ‘My favourite things’).  Anzi, a proposito di citazioni, Ferrari ha scritto un bellissimo arrangiamento di ‘Night in Tunisia’ nella quale Villari, durante il solo, è riuscito a citare non si sa come una sezioncina del tradizionale ‘Saint Thomas’.

Tutto questo viene sottolineato dalla potenza del contrabbasso di Rondolone, un sound solido, sobrio e distaccato, una certezza granitica sulla quale puoi appoggiarti per spiccare dei gran voli, anche nel free jazz. Insomma, musica per palati fini, cosa alla quale Marc del 28divino ci sta incominciando ad abituare, e ai New Thing non possiamo che augurare un radioso futuro nel segno delle cose nuove.

Adelchi Battista

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Man Trio (Spadoni – Galatro – Morello) al 28divino

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Si scrive Man Trio, ma secondo il suo fondatore –  Roberto Spadoni, chitarrista, compositore, arrangiatore e direttore, insegnante e divulgatore –  si legge Man-trah, come una preghiera indiana, come una declinazione musicale sobria e di qualità, come il piccolo gioiello al quale abbiamo assistito la sera di giovedì 27 maggio 2010 al 28divino.

Roberto è uno di quei musicisti eclettici che in silenzio e con pazienza lavorano costantemente per fare in modo di espandere il più possibile il linguaggio del jazz tra le giovani generazioni. Nella breve chiacchierata che facciamo prima del suo set parliamo di questo sistema Italia, delle difficoltà che attraversa, soprattutto nel campo culturalee musicale. Roberto mi spiega che in realtà c’è un movimento amplissimo di giovani ragazzi che non solo sono estremamente capaci e talentuosi, ma che credono fino in fondo alla possibilità di vivere e lavorare nel campo del jazz. La rete li aiuta molto, hanno a disposizione una tale quantità di materiale che gli permette di partire con delle basi molto più ampie di quelle che hanno avuto musicisti anche solo di dieci anni più ‘anziani’. Roberto insegna a Ferrara, a Rieti, a Chieti, e incontra ogni volta giovani di ogni età e classe sociale. Sono molto preparati, mi dice, e tante volte mettono in imbarazzo persino gli insegnanti, contestandoli senza paura, discutendo animatamente, interagendo ben più del ‘dovuto’ o del ‘normale’.

Grazie all’ospitalità di Marc e Natacha, (che il cielo ringrazi sempre chi gestisce un jazz club nel 2010), riusciamo a chiacchierare ancora un po’ davanti a un bicchiere di ottimo rosso anche con Francesco Galatro  ed Enrico Morello, contrabbasso e batteria. Sono loro, anche loro, i giovani di cui mi parlava Roberto. Francesco Galatro ha 26 anni e viene da Salerno, si è caricato il contrabbasso sulle spalle ed è arrivato nella capitale armato di un talento fuori del comune, talento che esprime in una intonazione perfetta, in un groove trascinante soprattutto nelle uscite dei soli e una tendenza alla ripetizione discendente e cromatica delle frasi, che era tanto cara a certi grandi, penso a Scott LaFaro, o al tardo Mingus.  Enrico Morello di anni ne ha 22 e la batteria non la suona, la muove lentamente dentro il brano, saltando gli accenti in un modo che ti fa perdere i battiti del cuore, rientrando e riuscendo dal tempo come fosse quella cabina telefonica dove entrava il dottor Who. Forse nessuno si ricorda il dottor Who, ma chi se ne frega. Era un complimento. Chiacchiero con questi ragazzi e ne scopro oltre al talento anche la voglia di mollare e andare via. Usare Roma solo come un trampolino, e poi fare come hanno già fatto in tanti, andarsene in America, a combattere davvero per la musica. Anche loro mi parlano di giovani. Giovani diciottenni americani che suonano in un modo pazzesco, che hanno voglia di emergere, energia per fare. Io, che ormai la musica la vivo solo di striscio, mi limito a rispondere che uno che ha voglia di suonare suona, suonerà sempre. Annuiscono. Non so fino a che punto mi credono.

Poi scendiamo. Il 28 divino ha questa bella anticamera dove puoi fermarti a bere un bicchiere senza scendere negli inferi della live music. C’è il bar, ci sono i tavoli, c’è il disco di Roberto che suona (a proposito, si chiama Panta Rei, e potete ascoltarne qualche estratto sul suo myspace (http://www.myspace.com/rspadoni ), ma se volete addentrarvi nella liveroom dovete scendere una scala stretta che sembra di entrare in un locale della 52a di New York, rosso fuoco, dominato da ‘numero5′, il robot che abbiamo ammirato in ‘Corto Circuito’, che Marc ha pazientemente e diligentemente ricostruito.

Il Man Trio suona i brani originali di Spadoni. Apre con ‘La sfera blu’, che è un blues dedicato al mitico ‘Sphere’ Monk, il tempo di introdurre il tema e fare un paio di chorus di solo e Roberto spacca il mi cantino della chitarra. In tanti anni di onorata carriera, sussurra ai suoi, non era mai successo al primo brano. Ma non c’è alcun problema. Francesco ed Enrico tengono il brano alla grande per tutto il tempo in cui lui deve cambiarla. Così si riprende con i salti di tempo e gli obbligati di ‘Mingus 5 e 6′, lo swing pesante e cadenzato di ‘Sofdudu’, la cadenza bluesy di ‘Girotondo’. Quello che vediamo (e ascoltiamo) è un gruppo composto, sobrio, intento a suonare parti anche piuttosto difficili, mai banali, a tratti sorprendenti. Il primo set finisce con una versione di ‘All the things you are’ rapidissima, enorme, con il suono della chitarra di Spadoni che non so per quale motivo mi fa venire in mente una specie di incrocio tra Metheny e Barney Kessel. In realtà è Roberto Spadoni, e il suo stile  non fa mai una piega, mai una concessione, è di un rigore clamoroso, mentre  l’ottimo vino di Marc sta facendo effetto su di me e sulla mia macchinetta fotografica.

Sì perché il jazz, quando ci metti vicino il buon vino, fa delle cose che neanche ti immagini. Me ne accorgo durante il secondo set, quando ad un certo momento, tra i bei brani di Roberto, ne parte uno, lento, che si intitola ‘Sulle spiagge”. Ora, dovete immaginarvi un ragazzo che con la batteria sappia farvi riscoprire il rumore del mare, utilizzando le spazzole, i piatti, una specie di collarino di cozze (sono cozze? scheletri di gambero? che diavolo sta usando?) e altri marchingegni fantastici e poveri, e che stia facendo tutto questo mentre legge su uno spartito. Roberto inserisce un tema romantico e struggente, Francesco accarezza i cordoni del contrabbasso e tutto il locale si trasforma. Vedi le coppie che si stringono, i festeggianti che ammutoliscono, e un velo, una patina di qualche cosa di magico che ci si posa addosso a tutti. La cosa più incredibile è che questa specie di magia la stanno leggendo su una partitura, dannazione, la curiosità mi rode: che diavolo c’è scritto su quella parte?

Si chiude con il magnifico blues ‘La pensione degli artisti’, titolo quanto mai appropriato di questi tempi, e alla fine il pubblico chiede insistentemente un bis. Il Man Trio concede una bella versione – molto metheniana per la verità – di ‘On green dolphin street’. Buonanotte a tutti. Saluto, salgo sulla mia bici, me ne vado a casa, me ne vado a dormire, con quel pedalone iniziale del brano di Kaper & Washington che mi martella nella testa. Allo stesso tempo non posso fare a meno di pensare a quel mare, quel rumore del mare, quell’atmosfera del mare che stava dentro ‘Sulle spiagge’, e a Roberto, Francesco, Enrico nel locale di Marc e Natacha. Ma che diavolo c’era scritto su quelle partiture?

Adelchi Battista

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CASA DEL JAZZ live diary – 6 settembre 2011 – Rita Marcotulli “racconta” i Pink Floyd

  • Pubblicato in Pagina Report
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La Casa del Jazz ci regala l’ultima rassegna in questa estate settembrina, abbandonando le sonorità che hanno contraddistinto il “Casa del Jazz Festival”, per 6 giorni di puro progressive. “Progressivamente”, questo il nome della rassegna, apre con un gruppo d’eccellenza guidato da una pianista d’altrettanta fama: Rita Marcotulli. “Us and them – Pink Floyd sounds” è un omaggio che attinge alle diverse realtà musicali dei componenti, dal risultato per nulla scontato! La folla alla biglietteria non tradisce le aspettative. Del resto i Pink Floyd rientrano in quella categoria di gruppi che uniscono generazioni, e forse anche la presenza sul palco del cantante Raiz, storico frontman degli Almamegretta, ha il suo peso. Fatto sta che ci ritroviamo tutti sul solito prato, frequentato un’estate intera (per chi è rimasto un vacanziero di città!), con le facce più abbronzate e rilassate a farci stupire ancora una volta. C’è meno rigore e più voglia di interagire con chi ci sta intorno. Ai tavoli le chiacchiere hanno il sapore dei viaggi che ciascuno racconta, ma tutti buttano un occhio al palco almeno una volta, in segno di attesa. Lo spiedo del kebab c’è ancora, ad impregnare l’aria, a ricordarci che in fondo può essere ancora estate. L’afa ha lasciato il posto ad un’aria più leggera, così si ha più piacere a stare all’aperto (ed anche a pensare di essere già tornati a Roma!).

Alla breve presentazione della serata e del festival in sé, tutti si ricompongono pronti all’ascolto. Sul palco salgono in sette: oltre alla Marcotulli al piano e Raiz alla voce, abbiamo Andy Sheppard al sax;Pippo Matino al basso elettrico; Fausto Mesolella alla chitarra elettrica; Michele Rabbia alle percussioni e Mark Mondesir alla batteria. Se l’impronta di Raiz si avverte distintamente nelle sonorità arabeggianti, Michele Rabbia le valorizza con la sua bravura nel manipolare i suoni degli oggetti più disparati (in questo caso in particolare, la capacità di ricreare suoni “elettronici” attraverso una lastra di metallo). Fiori all’occhiello i virtuosismi di Sheppard e della Marcotulli. Pur non volendo stravolgere la struttura originaria dei brani, essi si ripresentano nuovi, non sempre immediatamente riconoscibili, ma ugualmente affascinanti ed inebrianti. L’uso del riverbero li rende eterei, avvolgenti; lascia che diventino un ricordo, un sogno. Come se la loro presenza lì, in quel momento, non fosse del tutto scontata. Colpisce, tra i brani, il modo in cui “Shine on you crazy diamond” sia stata spogliata da qualsiasi orpello virtuosistico, lasciandone emergere la bellezza del testo ed accentuando il contrasto tra la voce graffiante di Raiz e quella più “pulita” di David Gilmour. Senza tentare di surclassare o dare un’interpretazione originale di un brano unico nel suo genere.

Il progetto è ambizioso e ben riuscito. Riesce a calamitare l’attenzione e a regalare un po’ di nostalgia a chi i Pink Floyd li ama dagli esordi.

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Benvenuti in “Contrada Casiello” – una recensione

Contrada Casiello” è l’incontro/scontro (così definito) trafolklore musicale italiano, ritmi e colori sudamericani, qualche malinconia da chansonnier e antiche passioni per il blues e il jazz. All’interno del disco si muove di brano in brano un particolare melting pot che abbraccia la realtà di provincia, completa del corollario di personaggi “tipici” ed accadimenti paradossali dal colore (o dal candore) popolare, con quella urbana e multiculturale della capitale. Tutti aspetti  fortemente caratterizzanti l’autore, Gerardo Casiello, nato a San Giorgio del Sannio, dove a otto anni comincia a studiare pianoforte classico e chitarra. È da qui che comincia il suo percorso musicale, esibendosi con varie formazioni locali. Sin da piccolo si interessa ad ogni genere di musica: dal pop dei Beatles al progressive rock, dal  blues al jazz, e non da ultimo alla canzone d’autore italiana: da Modugno a Paolo Conte, da De Andrè a Carosone, da Buscaglione fino a Rino Gaetano. Molti di questi artisti hanno inciso sulla sua maturazione artistica. Nel 1996 si trasferisce a Roma per studiare alla Facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza, stabilendo un saldo rapporto di collaborazione musicale con il suo relatore,  Francesco Giannattasio, docente di Etnomusicologia e, negli anni Settanta, musicista e membro fondatore de “Il Canzoniere del Lazio”.

Giannattasio segue da vicino la produzione musicale di Gerardo, che dal 2003 propone con successo le proprie canzoni nei locali del centro e sud dell’Italia con un gruppo e un progetto denominati “Contrada Casiello”, diventando il produttore del disco “Contrada Casiello”, uscito nel mese di ottobre del 2009 (finalista del Premio Tenco 2010 nella sezione “Opera Prima”). Gerardo è accompagnato dalla sua band composta da Antonio Ragosta alle chitarre, Emiliano Pallotti alla fisarmonica, Stefano Napoli al contrabbasso e Pasquale Angelini alla batteria. Il disco vive in bilico tra fantasia e ricordo, permeato da una poesia “caposselliana” meno malinconica, più incline alla ricerca del sorriso. È semplice il modo in cui Casiello racchiude tutto il suo mondo in una contrada, in cui nessuno manca all’appello; il presidente, il poeta pazzo, l’innamorato…e le donne! Un fermo immagine che rievoca pezzi di vita a chi è vissuto in provincia, e un modo vivido di farla sperimentare a chi non  conosce il gusto retrò eppure ancora attuale di “far balli ravvicinati di decimo tipo, tutti in pista acconciati con le donne appese al dito”.

Serena Marincolo

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Saxophobia, il DVD che ne raccoglie la storia

Saxophobia raccoglie, nei suoi 120′, un concerto/viaggio nella storia e nelle metamorfosi del saxofono. A dare “voce” a quello che nel ’19 Cocteau descrisse come “una grossa pipa di nichel” è Attilio Berni, uno dei più grandi collezionisti di saxofoni al mondo (è arrivato a possederne più di 6000!). Assieme all’ensemble che lo accompagna, composto da Alessandro Crispolti al piano, Riccardo Colasante alla batteria, Christian Antinozzi al contrabbasso, Nina Pedersen alla voce e Lorenzo Mercante “che dà voce” all’Adolphe Sax, si esibiscono come protagonisti indiscussi saxofoni di ogni foggia ed epoca. Ognuno con la sua storia da raccontare, ognuno con il suo brano (ormai appartenente alla storia del saxofono) da presentare. Il filo conduttore è tenuto dalle abili mani di Valentina Feula, voce narrante del concerto.

I cambiamenti di questo strumento negli anni sono a dir poco strabilianti, sia nelle forme che nel suono. Così possiamo ammirare il saxofono più piccolo del mondo: il Soprillo di soli 30cm; o il gigantesco sax contrabasso di oltre 2 metri. Dal Grafton Plastic di Charlie Parker, passando per il Goofus Sax diAdrian Rollini, o iMellosax di Snub Mosely, fino al sax tenore appartenuto all’inventore dello strumento Adolphe Sax. Il booklet all’interno del DVD raccoglie e descrive le storie dei saxofoni utilizzati (così come accade all’interno del concerto) aggiungendo all’evoluzione storica e culturale aneddoti riguardanti personaggi, famosi e non, alle prese con questo intrigante strumento. Anche il loro reperimento non è stato facile o al di fuori di circostanze improbabili, come lo stesso Berni racconta: dall’acquisto su una bancarella di Portobello, o su un taxi newyorkese in piena notte, ad un’enoteca perugina. C’è tutto questo e non solo all’interno di Saxophobia, uno spettacolo innovativo ed unico al mondo che si snoda in un percorso originalissimo e che sfida il tempo ridando vita alle passioni ed alle emozioni da sempre soffiate all’interno di questo tubo misterioso…

Perciò, se non vi è stato possibile assistere dal vivo all’evento, questo DVD vi darà modo di vivere le stesse emozioni comodamente seduti sul vostro divano!

Serena Marincolo

edizioni: CSMt

prezzo di copertina: 30,00

Per l’acquisto: www.centrostudimusicali.it 

oppure scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. )

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Il Tango da Napoli a Buenos Aires – una recensione

Quando uno pensa a Napoli e a Buenos Aires gli vengono in mente un sacco di cose che le due città hanno in comune. Che ne so, i quartieri in faccia al mare. E che quartieri. A Napoli ad esempio alcuni si chiamano ‘spagnoli’, a indicare una storia, una direzione (la direttrice est-ovest), una sottomissione. Sono strade strettissime, vicoletti, piene di minuscole costruzioni una sopra l’altra, che sembrano quasi toccarsi. A Buenos Aires si chiama ‘Villa 31′, ed è una baraccopoli pazzesca, a ridosso del porto. Come a Napoli, sotto le baracche e sopra i grattacieli di una capitale moderna. Questa roba qua, che ci crediate o no, suona. Suonano le contraddizioni e le tradizioni, e suona il mare, come a Napoli, mare verdastro, da cui arrivano influenze da mezzo mondo, attraverso le navi cargo, attraverso i marinai scavati dentro e fuori.

C’è qualcuno che è riuscito a mettere questi suoni dentro un disco. Giuliana Soscia, fisarmonicista, pianista, compositrice, studiosa attenta della musica popolare italiana e internazionale, insieme a Pino Jodice, pianista, compositore e arrangiatore, una delle figure chiave del jazz italiano. Queste due personalità si sono fuse insieme in un progetto che si chiama ‘Italian Tango Quartet’ e che comprende Aldo Vigorito al contrabbasso – che si alterna con Francesco Angiuli, ed Emanuele Smimmo alla batteria.

 
L’Italian Tango Quartet  suona jazz, prima di tutto. Certo, suona anche il tango, suona anche la musica napoletana, e suona anche le città e i loro quartieri e il loro mare, ma questo è un disco di jazz prima di ogni altra cosa, poiché improvvisamente molla gli ormeggi comodi delle strutture armoniche per prendere il volo e portarti in territori sconosciuti, pieni di sorprese ad ogni quarto, a ogni ottavo terzinato, fino a farti sbattere improvvisamente contro un muro di note. E’ la città che suona, la senti.

Soscia e Jodice hanno preso le composizioni di Roberto de Simone, quelle di Astor Piazzolla, quelle antiche di Bovio e Cannio (la Serenata di Pullecenella è di incerta datazione, comunque tra il 1912 e 1916) e le hanno aperte, sezionate, ci hanno scavato dentro, infarcendole di soli melodici ma anche spesso e volentieri completamente liberi, ai limiti del percorso free tracciato a suo tempo da Coleman, e tutto questo per parlarci di gente in movimento, movimento ritmico e movimento di migrazione, movimento di masse di uomini alla ricerca di un posto dove stare, di una città accogliente e tra le città più accoglienti al mondo non possono non esserci Napoli e Buenos Aires. Un disco consigliatissimo, impreziosito da uno scritto del caro Alfredo Saitto, questo edito da Alfamusic, che ricorda tra l’altro Alfama, che magari non c’entra niente, ma che è un quartiere antico di Lisbona, la patria del Fado. E magari è solo una mia impressione, ma io ci sento anche il Fado qui dentro. E un altro mare, un altro quartiere, un’altra città accogliente, un altro posto dove andare.

Adelchi Battista

 

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Wayne Shorter all’Auditorium: anteprima del Roma Jazz Festival

Il 17 ottobre all’Auditorium Parco della Musica di Roma, ultima tappa italiana del tour europeo del grande sassofonista americano Wayne Shorter in quartetto. L’anteprima della trentacinquesima edizione del Roma Jazz Festival (8-30 novembre 2011) è affidata alle note del talentuoso Shorter, una fra le più importanti personalità musicali dei nostri tempi. Il sassofonista ha suonato dal 1964 al 1970 nel quintetto di Miles Davis, contribuendo a capolavori come “ESP” e “Footprints”. Nel 1970, insieme a Joe Zawinul e Miroslav Vitous, forma i Weather Report, uno dei gruppi storici della fusion e del jazz-rock. Dopo l’uscita dai Weather Report nel 1985, la sua produzione da solista vanta collaborazioni importanti in campo pop-rock (Rolling Stones, Joni Mitchell) ed in ambito jazz, con Herbie Hancock (in “Gershwin’s world”, 1998, e e nei Future 2 Future). Nel 2002, dopo quasi cinquant’anni di attività e collaborazioni con i maggior musicisti della scena mondiale, Shorter riesce a formare un suo quartetto il Wayne Shorter Quartet.

17 Ottobre (anteprima)

Sala S.Cecilia ore 21,00

WAYNE SHORTER QUARTET

Wayne Shorter,  sassofoni

Danilo Perez, pianoforte

John Patitucci, contrabasso

Brian Blade, batteria

Ingresso Platea € 30 – Gallerie € 25 ed € 20

Info: 892982

060608

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Tringvall Trio al Roma Jazz Festival

Il Trio Tingvall presenta questa sera, 29 novembre all’Auditorium il suo nuovo album Vägen (“La via”), registrato in Italia nel maggio 2011. Martin Tingvall, Omar Rodriguez Calvo e Jürgen Spiegel vi hanno fatto confluire le esperienze degli ultimi anni, quasi a voler riunire appunti di viaggio presi qua e là. Il brano di apertura, “Sevilla”, è nato infatti durante il tour spagnolo del 2010, mentre “Shejk Schröder” rammenta una corsa sul dorso di un cammello. Ma le fonti di ispirazione sono anche altre: “Den Ensamme Mannen” (“L’uomo solo”), uno dei brani più delicati del CD, è scaturito dopo la lettura di un romanzo dello scrittore svedese Hakan Nesser. “Efter Livet” (“Dopo la vita”) è invece una riflessione su cosa aspetta ognuno di noi quando sta per arrivare il tempo della morte. Vägen presenta anche alcune novità: la già menzionata “Efter Livet” vede in campo anche una sezione di archi e fiati e “På Väg” è un pezzo per piano solo. Nell’insieme l’album consegna intatta la vitalità delle performance dal vivo, alternando momenti ritmicamente incalzanti ad altri in cui a prevalere è uno spiccato senso poetico. Il pianista, nonché leader del gruppo, è svedese, il bassista cubano, il batterista tedesco: già questo dona al Tingvall Trio un tocco di personalità. Nel 2006, l’album di esordio, Skagerrak, uscito per la Skip Records, è più che un semplice biglietto da visita: cantabilità tematica, freschezza ritmica, influssi provenienti dal pop più sofisticato ma anche dalla musica classica, piena consapevolezza storica del piano jazz trio sono elementi che sin dall’inizio contribuiscono alla definizione di una musica che combina limpide linee melodiche con una prorompente energia.

29 novembre Teatro Studio

Inizio concerto ore 21

Biglietto: posto unico 10 euro

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