Jazz Agenda

Paolo Palopoli, Road to Swingin’ Hop: ‘Un connubio tra lo swing e l'energia del Lindy Hop’

Road to Swingin’ Hop è il nono disco del chitarrista Paolo Palopoli pubblicato recentemente dall’etichetta Emme Record Label. Un lavoro che nasce dall’esigenza di coniugare lo swing e il Lindy Hop e che racconta il felice connubio tra il mondo dello swing e l’energia del Lindy Hop, ballo nato negli anni 30 in America. Un viaggio dunque che parte dal jazz europeo di Django Reinhardt che attraversa la tradizione balcanica, fino ad arrivare alle sonorità più moderne dell’elettroswing, passando per momenti più intimisti e sonorità jazz waltz e new musette francesi. Ne parliamo a tu per tu con Paolo Palopoli.

Ciao Paolo e bentrovato su Jazz Agenda, parliamo subito del concerto dove presenterai il tuo nuovo disco Road to Swingin’ Hop. Ci vuoi descrivere brevemente come si svilupperà la serata?

La presentazione ufficiale sarà il 27 Giugno presso la Fondazione Eduardo De Filippo, a Palazzo Scarpetta a Napoli, residenza storica del commediografo Eduardo Scarpetta e di un giovanissimo Eduardo De Filippo.  In questo luogo magico, si terrà un live showcase alla presenza di giornalisti di settore, e pubblico appassionato. L’evento è aperto a tutti e si terra dalle 17 in poi. Suoneranno con me alcuni dei protagonisti del disco. Alessandra Vitagliano e Federica Cardone alle voci, Massimo Mercogliano al contrabasso e Domenico Benvenuto alla batteria. Il tutto alla presenza di pubblico e giornalisti di settore.

A seguire terrò un live al Jazz Club Bourbon Street con il PAD trio, altra mia formazione dove suoneremo brani miei, ma anche di dischi precedenti. Inoltre in occasione della festa della musica il 21 Giugno, in anteprime e in formazione ridotta, suonerò al Blue Turtle, sempre di Napoli, il repertorio del disco.

Il disco rappresenta alla perfezione una sintesi dei tuoi percorsi musicali e probabilmente anche dei tuoi gusti. Ti andrebbe di parlarne brevemente ai nostro lettori?

Dico spesso che la musica è bella perché è varia!!! Non mi piace incasellare troppo nei generi o nelle categorie. In questo disco ci sono alcune tre le mie prime passioni che sono stati i dischi di Django, il Gypsy Jazz, ma anche il primo Pat Metheny, con le sonorità ECM. Poi ci sono le contaminazioni, che io adoro e tanta melodia. Oltre a questo c’è una passione recente che è lo swing, suonato, cantato, e persino ballato. Ho dedicato un brano al Lindy Hop che è il ballo dei anni 20/30 del secolo scorso, prima di me non lo aveva fatto nessuno in Italia e forse nemmeno in altre parti del mondo, da quello che so. Nel mio fraseggio si sente la mia passione per il Be Bop e l’hard bop, però mi piace anche il linguaggio più moderno, che probabilmente sarà oggetto di future registrazioni, con attenzione sempre alla musicalità.

Potremmo riassumere questo disco come un viaggio che parte dal jazz europeo di Django Reinhardt, il pioniere del jazz manouche, che attraversa la tradizione balcanica?

I miei dischi sono spesso un viaggio, questo non è da meno. Non a caso quasi tutta la musica è stata scritta principalmente dopo un viaggio a Parigi, la settimana prima del Lock Down. Lì acquistai anche una chitarra Manouche, che è proprio la chitarra suonata da Django, in uno degli atelier più famosi all’ombra della tour Eiffel, chitarra che ho poi utilizzato nel disco. Ho portato con me da quel viaggio tutta l’energia dei paesaggi, dei piccoli caffè in centro, dei quartieri più caratteristici e li ho messi in note. Poi c’è un altro viaggio ed è quello a Palermo dove sono stato docente di chitarra jazz al Conservatorio ed ho approfittato di questa opportunità per girare molto la Sicilia in genere e Palermo in particolare, li è nata l’idea di scrivere Balerm in 7, un brano con sonorità più contaminate come lo è la TRINACRIA!!! Balarm è il nome con cui veniva chiamata Palermo in passato. Nel brano c’è l’autorevole partecipazione di Giovanni Matalliano al clarinetto, musicista, scrittore, artista palermitano. Del Jazz europee ho scelto di mescolare il violino, suonato magistralmente da Mauro Carpi, altro Siciliano doc, con il suono funambolico della fisarmonica di Leonardo Ciraci, musicista pugliese che vanta collaborazioni con nomi come Roberto Gatto. Pugliese anche il giovanissimo talento del clarinetto Enrico Enrriquez. C’è anche un brano con sonorità più latin, dove il tema è suonato insieme alla tromba di Ciro Riccardi. Insomma tante collaborazioni per questo viaggio sonoro.

Sei giunto al tuo nono disco. Raccontaci adesso il percorso musicale che ha portato alla nascita di questo nuovo progetto.

Il disco, come dicevo, nasce dopo un viaggio a Parigi e racconta del connubio tra il mondo dello swing e l’energia del Lindy Hop, ballo nato negli anni 30 in America, in un viaggio musicale che parte dal jazz europeo di Django Reinhardt, il pioniere del jazz manouche, che attraversa la tradizione balcanica, fino ad arrivare alle sonorità più moderne dell’elettroswing, passando per momenti più intimisti e sonorità jazz waltz e new musette francesi. Ho scritto quasi tutto durante il lock down, ma poi essendo coinvolti musicisti di varie parti d’Italia, aiutato da Carlo Contocalakis, che ha curato gli arrangiamento con me, lo abbiamo realizzato un poco alla volta. Il prodotto finale è di 12 tracce, di cui 10 composte da me e 4 cantate.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Un poco tutti e tre: una fotografia sicuramente di un momento ben preciso. La gestazione dell’album è stata lunga e questo mi ha portato addirittura a disconoscere degli arrangiamenti dopo mesi, o al contrario di stupirmi piacevolmente nel riascoltarne altri. Ho fermato un momento ben preciso in cui volevo parlare di quello che stavo vivendo.

È anche un punto di arrivo, erano anni che volevo cimentarmi nella scrittura di testi per un mio disco, e spero di rifarlo, ed erano anni che volevo registrare quasi interamente con la chitarra manouche. Tuttavia la bellezza del jazz è proprio quella di poter suonare lo stesso repertorio ogni sera e non essere mai uguale alla sera prima, oggi i brani stanno prendendo altre sonorità, quindi sono un punto di partenza per esplorare altre sonorità.

Come vedete il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Le idee sono tante. Ho spesso registrato dischi dove c’erano molti musicisti, non sono un chitarrista autoreferenziale che deve emergere a tutti i costi. Ci tengo a scrivere musica che possa essere fruibile ad un pubblico non solo di esperti ascoltatori, mi piace comporre e arrangiare per più strumenti, tuttavia negli ultimi anni ho suonato spesso in trio con contrabasso e batteria. Abbiamo girato l’Italia oltre che per concerti, anche per dei concorsi; l’ultimo di questi mi ha fruttato la cattedra di Chitarra Jazz al Conservatorio di Lecce. Nel suonare tanti repertori differenti ci siamo sempre detti che sarebbe stato bello riarrangiare e registrare qualcosa di questi repertori e forse ora i tempi sono maturi per fare un disco in trio, magari con un ospite un fiato. Vedremo.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: oltre a questa data di presentazione vuoi lasciarci qualche altra coordinata?

Oltre l’anteprima del 21 Giugno al Blue Turtle di Napoli, piccolo jazz club, aperto da poco, ma già con una bella programmazione e un atmosfera molto internazionale. Il 12 Luglio all’ interno del Museo Pietrarsa e il 14 Luglio al Safarà di Benevento. A seguire ci sono una serie di live in arrivo estivi, in varie regione d’Italia e ci prepariamo per l’estero in autunno.

Sicuramente da segnalarvi il nostro concerto in quintetto il 18 Agosto all’interno del bellissimo cartellone di Fara Music Festival, sempre attenti alle produzioni jazz più interessanti, con nomi del calibro di Enrico Pieranunzi, Danilo Rea e tanti altri.

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Jack De Carolis racconta il nuovo disco Sparks of cosmic fire

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label Sparks of cosmic fire è il disco d’esordio del trio guidato dal chitarrista Jack De Carolis completato da Luigi Cataldi al basso e Pasquale Cataldi alla batteria. Un disco dall’innato senso melodico, dai tratti onirici in cui spicca una perfetta empatia tra i musicisti. Ecco il racconto del leader di questo progetto.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Il disco "Sparks of Cosmic Fire" è un lavoro che non è stato pensato e strutturato nel senso canonico del termine. Ormai da anni tengo in cantiere brani o idee anche stilisticamente lontane tra loro, accomunate però da un aspetto comune: l'idea intuitiva come punto di partenza. Si può immaginare che proprio questo sia il concept dell'album, infatti, nel titolo stesso mi riferisco a un aspetto particolare del "fuoco", la sua ottava alta, la spinta creatrice e generatrice. L'occasione di un concorso dell'etichetta Emme Record Label di Enrico Moccia mi ha dato modo di rendere organiche, ultimare e dare forma a queste idee, scintille, che successivamente si è concretizzata nell'uscita del disco a inizio gennaio di quest'anno.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il progetto è nato come un guitar trio jazz standard che ci ha guidato e insegnato tantissimo, una vera e propria palestra per poi poter cominciare a comporre brani originali. L'amicizia, l'appartenenza allo stesso territorio e i gusti musicali condivisi di tutti i membri del trio ci hanno dato modo di passare molto tempo a sperimentare e sviluppare le nostre idee e, di fatto, si è trasformato in un vero e proprio laboratorio compositivo. La logica collaborativa e aperta alla contaminazione di tutti i membri rappresenta un elemento essenziale per l'idea del trio che ho sempre avuto, e, allo stesso tempo, a mio parere, permette la sua naturale evoluzione.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

La risposta più completa sarebbe tutte e tre le cose, ma allo stesso tempo nessuna delle tre. Il momento dalla registrazione è chiaramente un fermo immagine della vita musicale del trio. In un certo senso è un punto di arrivo, inteso come raccontare e racchiudere nel disco tutto quello che musicalmente sono stato, tutto il mio bagaglio e le influenze fino a quel momento storico. Inevitabilmente punto di partenza proprio per la natura umana, in quanto esseri in continua evoluzione. Allo stesso tempo nessuna delle tre cose perché mi piace pensare alla musica, alla composizione come qualcosa di molto simile al lavoro dello scultore, cioè, tirare fuori da un blocco di marmo l'immagine che già c'è e che c'è sempre stata.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Tra le nostre influenze sicuramente rientra buona parte del panorama del jazz moderno, da Kurt Rosenwinkel a Brad Mehldau, fortemente affascinati dalla complessità armonica e ricerca ritmica, passando per il lirismo e l'armonia intricata di alcune correnti stilistiche provenienti dal Brasile, in particolare di Toninho Horta(al que dedico un brano nel disco), grandissimo chitarrista e Compositore. Non possiamo non annoverare tra le nostre influenze il potere della semplicità melodica della musica dei Beatles, e, infine, una band dei nostri giorni che un po' racchiude e sintettizza secondo la nostra opinione molti di questi elementi in maniera poetica: i Radiohead. In tutto ciò l'improvvisazione rappresenta un terreno comune, la modalità di espressione più soggettiva di ogni musicista.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Mi piace dare spazio all'imprevedibilità di ciò che può riservare il futuro, allo stesso tempo ci auguriamo di portare il più possibile dal vivo la nostra musica ovunque, che rimane sempre l'esperienza più diretta e appagante per un musicista. A livello evolutivo il progetto è nato sulla base del principio di flessibilità, sia dal punto di vista di genere e contaminazione ma anche della possibilità di ampliare l'organico se le composizioni ne richiedono l'esigenza. Quindi, personalmente, anche sulla base delle ultime idee compositive tirate giù vedo realizzarsi concretamente entrambe le cose descritte.

Quest'estate ci sarà la presentazione ufficiale del disco presso il "Fara Music Festival" e successivamente altri concerti di promozione in Provincia di Latina e nel Lazio in generale. In cantiere c'è l'idea di un nuovo album, magari con una formazione allargata e leggermente diversa rispetto al trio. Mi piace pensare che sicuramente sarà una continuazione del mio ultimo lavoro soprattutto come concept. Ma per il resto non voglio dare troppi spoiler, spero che ci aggiorneremo presto!

 

 

 

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Passaggi, un disco di Giovanni Palombo: quando il Mediterraneo incontra il jazz europeo

Si intitola Passaggi il nuovo disco di Giovanni Palombo uscito il 21 febbraio 2024 per l’etichetta Emme Record Label. Un lavoro in cui il jazz incontra la musica popolare, accostandosi alla tradizione mediterranea e tracciando una rotta piena di contaminazioni e miscele culturali. Brani intimi, dal grande senso melodico, maturati in alcuni anni grazie anche all’interazione sempre efficace e coesa tra i componenti del gruppo Camera Ensemble. La formazione vede il leader alla chitarra acustica o classica, Gabriele Coen al sax soprano e al clarinetto, Benny Penazzi al violoncello, ma ci sono brani anche in duo e in solo. Ecco il racconto di Giovanni Palombo a Jazz Agenda.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: Cosa è cambiato rispetto al disco precedente?

Il concetto musicale base del disco resta lo stesso, cioè gli elementi fondanti delle composizioni, l’amalgama di elementi musicali che spontaneamente arrivano dal mio vissuto musicale. Quindi le sonorità mediterranee e il jazz europeo, e poi il suono acustico. Tuttavia ho voluto dare più voce al mio strumento, alla chitarra, con la quale ho inciso in solo ben 4 brani su 10, più 2 duetti chitarra pianoforte. Questa è la differenza principale, che sposta un po' il baricentro sonoro di parte del lavoro. In generale direi che c’è più continuità che non differenza. Aggiungo che considero i musicisti con cui suono da anni, Gabriele Coen, Benny Penazzi, Francesco Savoretti, un riferimento continuo e importante, e fonte di ispirazione e sicurezza.

Un disco dove il jazz incontra la musica popolare. Ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Questo sarebbe un argomento ampio, ma in poche parole penso che in generale il jazz abbia una connotazione molto ampia. C’è il grande mare del jazz afro americano e americano, quello a cui in generale ci si riferisce quando si parla di jazz. Poi ci sono le forme che il jazz prende quando incontra altre culture, quando avviene un incontro prolifico tra i linguaggi e lo strato profondo di una cultura, quella che i musicisti si portano dentro anche inconsapevolmente. Per me è stato indicativo in questo senso il jazz prodotto dalla etichetta ECM dagli anni ’70 in poi, era evidente che nella musica prodotta dalla etichetta tedesca c’era il senso di altre musiche, pur rimanendo jazz. I musicisti che suonavano quella musica, anche quando erano americani, quasi sempre riflettevano anche linguaggi e culture europee, echi di la musica classica, di folk del nord Europa. Troviamo in alcuni casi anche l’incontro con sonorità più orientali e delle zone del mediterraneo. Piano piano questa onda è arrivata anche nel sud dell’Europa, fino a noi. La melodia, il cantare della musica inteso non necessariamente come canzone, è uno dei tratti principali della musica italiana e mediterranea, anche fuori dal contesto canzone. Noi ci portiamo dentro questa tradizione, ma anche ritmi e forme musicali, e offriamo questo all’incontro con il linguaggio nuovo (nuovo per noi, in una prospettiva storica), del jazz. Il termine popolare per me significa il senso musicale stratificato che abbiamo dentro, che ci appartiene anche inconsapevolmente.

Raccontaci adesso il tuo percorso musicale: come ti sei avvicinato al jazz e perché hai scelto di declinarti a una contaminazione con la musica popolare?

Musicalmente mi sono formato studiando chitarra classica e suonando parallelamente un po' di rock. Ma anche qui quello che mi piaceva e coinvolgeva di più erano i gruppi progressive, internazionali ma anche italiani, come Premiata Forneria Marconi e Banco del Mutuo Soccorso, che se ci pensi riflettevano comunque la contaminazione tra i generi. E poi mi piaceva il folk e il folk rock americano e anglosassone. Un gruppo come i Pentangle inglesi mi catturarono, forse anche perché la chitarra acustica in quel contesto era uno strumento dominante, con una sonorità naturale, ma usata in modo moderno e versatile. Ho iniziato ad approfondire la chitarra acustica, un periodo forse un po' confuso perché continuavo a studiare classica, iniziavo con l’acustica, suonavo anche la elettrica nelle classiche band da cantina. E intorno ai venti anni hanno iniziato a colpirmi le orchestre jazz, ascoltate casualmente in alcuni dischi e in qualche passaggio televisivo. La bellezza e la ricchezza degli arrangiamenti, la complessità di quella musica erano affascinanti. Così ho cominciato ad ascoltare jazz, Miles Davis, Weather Report, e quando è arrivata l’onda dei chitarristi jazz moderni, Pat Metheny in testa, poi Bill Frisell e John Scofield, mi si è aperto un ulteriore mondo. La frequentazione dei concerti di Umbria Jazz è stato a quel punto fondamentale per orientarmi verso una cultura più jazz e vivere grandi emozioni. Immagino che tutto questo pian piano si sia inserito nella mia formazione e crescita musicale. La chitarra acustica è divenuta il mio strumento, e ho iniziato a sperimentarla come strumento portante dei gruppi che formavo oltre che come strumento in solo.

Parlando invece del presente a che punto pensi sia arrivato il tuo percorso musicale?

Questa è una domanda difficile. Vedere il proprio percorso dall’interno può essere fuorviante, spesso non si ha il necessario distacco. Quello che ti accade musicalmente è coinvolgente e non sempre previsto, ti può aprire strade impreviste, nel bene e nel male. Penso di avere maturato una buona capacità compositiva, e soprattutto ancora piena di spontaneità, voglio dire soggetta a quello che genericamente viene chiamata ispirazione, senza essere troppo dipendente da schemi prefigurati. Dal punto di vista stilistico gli ultimi anni non hanno portato grandi cambiamenti, ma quello che ho maturato mi sembra sia originale e riconoscibile. Sono felice della musica e degli album prodotti, ci sono sempre cose che vorresti rifare meglio, ma quanto fatto continua a piacermi.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Direi molti, consapevolmente e no. Certi periodi di ascolti ostinati e ripetuti ossessivamente hanno certamente lasciato il segno. E qui andando proprio nel passato si va dalla West Coast americana (CSN&Y e Joni Mitchell per dire), ai Led Zeppelin e ai Genesis, per passare poi a Pat Metheny e Bill Frisell già citati, ai Weather Report e a Keith Jarrett, ma anche ai chitarristi acustici Michael Hedges e John Renbourn, al duo Tuck & Patti. Ho anche ascoltato molto e amo tuttora molto Astor Piazzolla. Anche la musica classica è stata e continua a essere un ascolto abbastanza frequente. Un nome che mi sento considerare come fondamentale e certamente influente è quello di Ralph Towner e del suo gruppo, gli Oregon, che facendo le debite differenze mi ha indicato una strada importante e decisiva.

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

In questo sono abbastanza conservatore, la cosa che mi stimola sempre è il dialogo con altri strumenti, ad esempio con quelli con i quali ho avuto poche occasioni di collaborare, come la tromba, oppure il violino, il pianoforte con cui ho suonato nel passato e che è ritornato ora in alcuni brani di questo disco e alcuni concerti. La fisarmonica, una mia vecchia passione, e anche suonare in duo con le percussioni. Scrivere sempre meglio (se possibile!) musica originale e arrangiarla ritengo sia in sé stessa una continua evoluzione, se si procede con l’intento di essere sinceri.

 

 

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Il Melting pot culturale degli Extra Sauce nel disco d’esordio Extravaganza

Extravaganza è il disco d’esordio del progetto Extra Sauce, recentemente uscito per l’etichetta Emme Record Label. Otto sono i membri che fanno parte di questo Ensemble, ovvero Alessio Lucaroni alla batteria e Simone Chiavini alle percussioni sono il motore del ritmo, accompagnati da Ruggero Bonucci al basso; Santiago Fernandez alle tastiere e Federico Papaianni alla chitarra sono gli artefici dell’armonia. L’album rappresenta il risultato dell’incontro tra influenze rock, jazz e funk. Ecco il racconto della band a Jazz Agenda.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Extravaganza è il nostro disco di esordio, il nostro primo vero lavoro come gruppo. L’album è stato così intitolato sia per indicarne il contenuto, stravagante dal punto di vista tematico e sonoro, sia per presentare il nostro percorso musicale come ensemble, influenzato da un mix di generi che ci rappresentano. Il nostro obiettivo è quello di introdurre gli ascoltatori, in particolar modo quelli che meno conoscono il genere, al mondo della musica strumentale tramite pezzi carichi di groove ed energia.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il progetto nasce nel 2020 per una fortuita serie di incontri musicali mischiata a un pizzico di follia e tanta voglia di suonare. L’idea sin da subito è stata quella di creare un melting pot musicale, un ensemble di musicisti che fosse una via di mezzo fra un gruppo e una big band. Nonostante il momento sfortunato, che ci ha costretti a rimandare buona parte dei progetti per qualche tempo, il gruppo ha continuato a espandersi fino a raggiungere l’attuale formazione, stabile ormai da più di un anno. Il nostro più grande punto di forza (o la nostra fortuna) è senza dubbio essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda ed essere in qualche modo complementari l’uno con l’altro.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Per noi Extravaganza è sicuramente un punto di partenza. Abbiamo tante idee e tanta musica da scrivere che non vediamo l’ora di portare sia live che nei nostri prossimi lavori in studio. Inoltre, abbiamo anche un gran numero di attività legate al nome Extra Sauce che, sebbene non riguardino strettamente la produzione musicale, attendiamo con ansia di poter cominciare a condividere con chi ci segue e con tutta la realtà musicale umbra.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Essendo il gruppo un mix di influenze e culture musicali diverse è difficile elencare tutti gli artisti che hanno impattato in maniera significativa sia sul nostro suono che sul modo in cui componiamo. Possiamo però dire che Marcus Miller, con la sua esibizione a Umbria Jazz alla quale tutti noi eravamo presenti, sebbene non ci conoscessimo ancora, è stato una forte ispirazione per tutti. Oltre a lui Snarky Puppy, Huntertones e Michael Brecker sono alcuni tra gli artisti a cui più ci ispiriamo nel nostro lavoro.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Stiamo già lavorando al nostro prossimo album, sperimentando con nuove sonorità  e strumenti oltre che strutturando molti progetti collegati a Extra Sauce, dei quali speriamo di poter parlare presto con maggior dettaglio. Speriamo di poter continuare a crescere sia singolarmente che come ensemble e di poter diventare un punto di riferimento per il genere.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Abbiamo date in Umbria, Toscana e Lazio nel prossimo futuro, in Piemonte più avanti e ci stiamo muovendo anche in Germania e Inghilterra. A breve annunceremo date e luoghi dei concerti imminenti. Vi aspettiamo!

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Kairos: il jazz incontra il rock e le tradizioni popolari del Sud Italia

Si intitola Celosia il disco d’esordio del progetto Kairos uscito per l’etichetta Emme Record Label. Un disco in cui le radici, i suoni e le tradizioni popolari del Sud Italia si mescolano con il jazz,  il rock e con la musica moderna in una perfetta armonia di suoni e interplay. L’ensemble guidato da Vincenzo Natale alla fisarmonica e Gerardo Pizza al sax contralto, tenore e soprano al quale hanno preso parte anche Lorenzo Gagna al basso elettrico, Iacopo Sichi alla batteria, Edoardo Ferri alla chitarra elettrica, Edoardo Ferri alla chitarra acustica, Stefano Riccio alle percussioni, con gli special guests David Boato alla tromba e flicorno e Marcello Allulli al sax tenore. Ecco il racconto della band.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Celosia è un album che racchiude molteplici sfaccettature del nostro bagaglio musicale. Spicca fra tutte il nostro legame con la musica popolare della nostra terra ovvero l'Irpinia, ma ci sono anche forti contaminazioni che riguardano il jazz, il rock e altri generi.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il progetto Kairos è stato ideato dal sottoscritto e da Gerardo Pizza durante i nostri studi in Irpinia. All'inizio ci esibivamo in duo Fisarmonica e Sax poi, dopo diversi anni,  abbiamo avuto il piacere di conoscere  Edoardo Ferri, Lorenzo Gagna, Iacopo Sichi e Stefano Riccio. Grazie a loro siamo riusciti a coronare il nostro sogno di registrare un album.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Sicuramente questo disco è un punto di partenza per il nostro futuro, ma allo stesso tempo racchiude un periodo di tempo di quasi 10 anni in cui io e Gerardo ci siamo confrontati e abbiamo condiviso le nostre idee. Infatti in questo arco di tempo abbiamo composto diversi brani tra cui gli 8 che potete ascoltare nel nostro disco.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Durante il nostro percorso ci sono stati diversi punti di riferimento tra cui Carmine Ioanna, Daniele Castellano e Luca Roseto. Questi ultimi, oltre ad essere i nostri maestri, hanno saputo indirizzarci nel mondo della musica improvvisata.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Il nostro più grande desiderio è far conoscere la nostra musica e in un futuro poterci esibire all’interno di prestigiosi festival italiani. A questo album seguiranno tanti altri ma per il momento siamo felici di aver potuto realizzare questo piccolo sogno.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Dopo aver presentato il nostro album in diversi eventi in giro per l'Italia, abbiamo in programma alcuni concerti in Irpinia.

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Antonio della Polla e il Vibes Trio: “Un riassunto di esperienze musicali tra generi e stili diversi”

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, Vibes Trio è il disco d’esordio della band guidata dal vibrafonista e percussionista Antonio della Polla. Un disco dallo spiccato senso melodico che fonde diversi stili e che sintetizza alla perfezione le diverse esperienze musicali dei musicisti che vi hanno preso parte. In questo lavoro hanno preso parte Andrè Ferreira al contrabasso e Vladimiro Celenta alla batteria. Ecco il racconto del leader di questo progetto.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Il disco è un simil concept-album dove il filo di connessione fra i brani è la varietà che oppone essi stessi, rappresentano il riassunto delle mie esperienze musicali dove ho voluto tradurre in questa formula del trio jazz generi e stili differenti. In questo modo si passa da brani dove è forte l’influenza dei pianisti che hanno definito le caratteristiche del moderno trio jazz, a brani dove le ritmiche pop e delle culture extra-europee delineano il leitmotiv della composizione.

Raccontaci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il progetto è nato da una voglia di sperimentazione ma allo stesso tempo di consolidamento delle mie esperienze musicali. Quando ho deciso di voler mettere ordine alle mie idee ho subito chiamato Vladimiro che è il batterista che più spesso mi ha accompagnato nel mio percorso, per il contrabasso invece ho voluto cercare qualcuno che oltre ad un contributo musicale mi potesse trasmettere una forte empatia e cosi è partito una sorta di casting dove alla fine la scelta è ricaduta su Andrè, da allora abbiamo provato tanto e abbiamo anche iniziato a proporre i primi brani del futuro disco durante i concerti per testare il feedback del pubblico.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Sicuramente è una fotografia del momento nella maniera più netta anche perché prima di intraprendere questo progetto avevo alcuni brani in cantiere che erano destinati  ad un altro progetto musicale  ma che  non rispecchiavano il mio stato emotivo ed i miei gusti musicali così ho iniziato a lavorare su questi altri brani che meglio descrivevano quel momento.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Assolutamente si, nel mio caso è fortissima l’influenza dei pianisti che hanno fatto la storia del jazz mondiale, da quelli del periodo classico come Bill Evans e Wynton Kelly su tutti, a pianisti del più recente passato come Kenny Barron e Brad Mehldau, in generale la tradizione del jazz rappresenta la mia maggiore influenza quindi si può dire che tutti i grandi artisti del genere mi abbiano influenzato;  ci sono poi alcuni artisti che sono diventati i miei idoli come ad esempio Victor Feldman, vibrafonista, batterista, pianista e percussionista britannico; musicista poliedrico per eccellenza, sono rimasto folgorato dalla capacità di produrre musica di altissimo spessore in diversi contesti, da musicista degli  Steely Dan a i concerti live in trio suonando piano e vibrafono in maniera virtuosistica fino al periodo fusion, davvero incredibile!

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

Spero di continuare a produrre musica per questo trio e di poter incidere anche nuovi lavori, in generale l’esperienza discografica mi affascina e mi piacerebbe poter registrare tanti dischi anche di diverso genere e in progetti musicali altrui. Mi piacerebbe a breve poter fare un progetto dove sia presente un secondo strumento armonico in modo da poter meglio esprimere il carattere solistico di questo strumento e di valorizzarne il timbro; le idee sono davvero tante e hanno bisogno di essere ordinate.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Per il momento non abbiamo in cantiere alcuna registrazione ma ci stiamo concentrando a portare avanti una futura stagione concertistica per il trio, a breve avremo una presentazione del disco nella mia città (Salerno) e a Caserta, seguiteci sempre per le novità!

 

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IFA Quintet: “Una ricerca incentrata sul groove, la melodia e l’improvvisazione”

È uscito per l’etichetta Emme Record Label il disco d’esordio del quintetto IFA dal titolo omonimo. Un progetto raffinato, dal grande senso melodico che si esprime attraverso il linguaggio universale della musica, cercando di non chiuderla nelle barriere degli stili o dei generi. La band, che si è formata dopo il percorso di studi nella Siena Jazz University, è composta da Francesco Assini alla tromba, Matteo Fagioli al sax, Michele De Lilla al piano, Fabio Angeli al basso e da Giuseppe Salime alla batteria. Ecco il racconto di questa nuova avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

IFA è un disco strumentale che è stato registrato nel settembre 2022. In esso troviamo composizioni originali dove spicca una ricerca incentrata principalmente sul groove, la melodia e l’improvvisazione, con alla base un’impronta prettamente jazzistica. Il disco si apre con Pop Song, scritta da Michele de Lilla che ha un andamento cadenzato ed è senza dubbio quella che più si avvicina a una forma “canzone” grazie a una melodia diretta e immediata molto riconoscibile. Floating on the surface, di Francesco Assini, rappresenta invece un omaggio alla spensieratezza ed è caratterizzato all’inizio da un suono quasi etereo dove i fiati fraseggiano alla perfezione con grande lirismo. In un secondo momento la dinamica diventa più sostenuta e subentra un pianoforte dall’andamento più cadenzato che poi lascia nuovamente la parola alla tromba, al sax e anche al basso nell’estro improvvisativo. Possibilities, sempre di Assini, è un brano dal carattere più sinuoso e introspettivo che descrive in musica le scelte che si possono prendere nella vita.  Holding you at distance è scritto a quattro mani con la prima parte che porta la firma di Fabio Angeli, caratterizzata da un tema limpido e diretto, mentre la seconda, più introspettiva e contemplativa, è stata composta da Michele de Lilla. Prayer è invece una composizione dai tratti più malinconica, quasi onirica e in certe fasi anche minimale che mantiene sempre un grande senso melodico, caratteristica peculiare della band. Questa breve descrizione è un incipit, il più possibile oggettivo, per consigliarvi all’ascolto del disco, così da sviluppare delle impressioni personali e soggettive da ascoltatore.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il progetto nasce nelle aule della Siena Jazz University dalle ceneri di diversi progetti e gruppi che non sono stati longevi, ma necessari per capire a fondo quale potesse essere la formazione con la quale poter esprimere la nostra musica al meglio. Nel 2020 IFA nasce in qualità di trio con pianoforte, basso e batteria. Ad inizio 2022 il trio sente la necessità di solisti chiamando Matteo Fagioli al sax contralto e successivamente Francesco Assini alla tromba. Con questa formazione a settembre dello stesso anno registra il disco. Il progetto, dopo la registrazione, si sta piano piano discostando dalle sonorità acustiche, ad esempio viene utilizzato il Rhodes al posto del pianoforte. I brani che stiamo proponendo nei nostri live hanno sonorità legate a neo-soul, hip hop

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Questo lavoro è stato sicuramente un punto di partenza nato dal bisogno di fare un progetto il più longevo e serio possibile. L’atto di registrare un lavoro discografico, in virtù di musicisti, rappresenta la serietà, la dedizione e l’ amore in quello che facciamo. Paragonerei questo lavoro più che a una fotografia a un dipinto. Come un pittore il musicista, soprattutto  in giovane età, tende a evolversi continuamente quindi il disco come il dipinto mette in luce oltre alle abilità tecniche anche i propri sentimenti e quello che si prova in quel preciso istante. La bellezza della musica presente in questo progetto è che si rinnova ogni qualvolta che viene eseguita, che sia alle prove o in una situazione di live session. Ciò può scaturire un continuo sviluppo degli stessi brani all’interno del disco.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Il futuro è sempre un'incognita; il nostro progetto ha sempre subìto una continua evoluzione: è nato con la formazione in trio e si è  allargata in seguito a quintetto, con l'aggiunta dei fiati che hanno cambiato  nettamente il suono del gruppo. Ancora adesso quando riascoltiamo il disco, a distanza quasi di un anno dalla data delle registrazioni, notiamo differenze nel modo di suonare sia individualmente che come gruppo. Ognuno ha la propria vita, il proprio carattere e il proprio modo di esprimersi, sia nella musica che nella vita quotidiana; ma soprattutto ognuno di noi ha la propria storia da raccontare e lo fa attraverso la musica. E il risultato  che viene fuori è sempre una sorpresa, piacevole o meno. Quindi preferiamo non dare troppo peso ad una futura evoluzione del progetto, ma esprimere al meglio noi stessi nell'immediato presente.

 

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Cesare Ferro racconta Wergild: un concept album che descrive la vita di un soldato

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label Wergild è il disco d’esordio del bassista Cesare Ferro che unisce il linguaggio del jazz con il rock, mediando le chitarre distorte a suoni dai tratti contemporanei. Si tratta di un concept album che attraverso la musica descrive le fasi della vita di un soldato che ha visto la partecipazione di Federico Negri alla batteria, Luca Scardovelli alla chitarra e Riccardo Barba al pianoforte.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Wergild è un concept album sulla guerra che attraverso le composizioni descrittiviste racconta il lungo e atroce viaggio di un soldato. Le contaminazioni presenti nel disco permettono di dipingere diversi scenari: il viaggio verso il fronte, il campo di battaglia, i ricordi malinconici degli affetti perduti e l’epilogo della morte

Raccontaci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Il disco è una raccolta di brani scritti in diversi anni e l’idea di racchiuderli in questo prodotto discografico è nata mentre ero a Barcellona durante la mia mobilità Erasmus. In quel periodo infatti ho iniziato ad approfondire la storia del cinema e sono rimasto piacevolmente colpito dal ruolo che recita la musica all’interno della pellicola. Pertanto ho deciso di immaginare una storia e raccontarla attraverso queste composizioni seguendo in maniera coerente il pathos delle diverse scene proprio come in un film.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Per me questo concept album è un punto di partenza che mi stimola ad essere ancora più creativo e alimenta in me il desiderio di poter lavorare con il mondo del teatro o del cinema in futuro.

Se parliamo dei tuoi riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per te sono stati davvero importanti?

Le contaminazioni in questo progetto sono fondamentali come lo sono i diversi colori per un pittore che vuole dipingere un quadro. Ho sempre ascoltato e suonato molti generi musicali differenti tra loro e questo mi ha permesso durante il processo creativo di esprimermi al meglio. Quindi nella mia musica oltre al jazz c’è spazio per altri generi. Musicisti come Chuck Schuldiner, Ennio Morricone, Jaco Pastorius, Jeff Buckley e Pat Metheny sono sicuramente dei punti di riferimento.

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

Come dicevo prima mi auguro di iniziare a collaborare con il mondo del cinema e del teatro affinché il messaggio della mia musica possa arrivare in maniera più fruibile e diretto per tutti.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Al momento ci godiamo il nostro Wergild promuovendolo con un po’ di concerti in giro per lo stivale. Mentre per quanto riguarda il futuro visto che mi piace sperimentare scriverò della musica nuova completamente diversa da questa quindi seguitemi per rimanere aggiornati!

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Filippo Loi racconta Teju: “Un disco di jazz che si lascia influenzare dalla musica rock”

Pubblicato dall’etichetta Emme Record Label, Teju è il disco d’esordio del trio capitanato dal chitarrista Filippo Loi che vede la partecipazione di Carlo Bavetta al contrabbasso e Lorenzo Attanasio alla batteria. Un progetto in cui iljazz si sposa con il Mediterraneo e con le tradizioni locali lasciando entrare la musica rock. Ecco il racconto di questa nuova avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Salve a tutti! Teju è il nostro primo lavoro insieme. I temi e le armonie hanno preso la loro forma nel corso di un anno e mezzo ricco di avventure, prove, concerti. E’ un disco che sicuramente parte da un’esperienza jazzistica e d’improvvisazione ma si lascia influenzare dalla musica rock e dalle ampie composizioni.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Ci siamo conosciuti ai corsi di musica d’insieme del conservatorio di Milano. Circa due mesi dopo è scoppiata la pandemia. Filippo ha impiegato parte del suo tempo chiuso in casa a comporre le tracce del disco. Già durante il lockdown, grazie a internet, abbiamo iniziato a provare i brani con i software di registrazione musicale. Non appena abbiamo avuto la possibilità di rincontrarci di persona, abbiamo iniziato a suonare insieme e fare i nostri primi concerti a Milano fino all’ approdo nei cataloghi di Emme Record Label.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

Sicuramente è un punto di partenza. L’ emozione di entrare in uno studio di registrazione come il Tube Recording Studio e di sentire il nostro primo disco su supporto fisico ci può spingere a continuare a lavorare insieme sul nostro suono, sulla nostra idea di trio e sulla musica che proveremo a comporre in futuro.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Essendo un trio composto da chitarra, contrabbasso e batteria, i riferimenti più importanti vengono dai moderni maestri indiscussi di questo strumento. Pat Metheny è un chiaro esempio non solo per le sue capacità strumentali ma anche come compositore. Scott Henderson e John Scofield per la maestria con il quale hanno saputo fondere la chitarra rock con il linguaggio jazz. Ma anche i grandi compositori come Wayne Shorter e Miles Davis, che ha influenzato le tracce più vicine al jazz di questo album.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Questo è difficile da dire adesso. Speriamo di continuare sia in trio ma anche con qualche aggiunta in funzione di composizioni più ampie. Magari un piano, delle voci, qualche fiato.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Attualmente stiamo scrivendo nuova musica. Vogliamo fare il nostro meglio ed è giusto dedicare il tempo necessario alla stesura di qualcosa che ci soddisfi e ci rappresenti, senza rischiare di cadere in manierismi e ripetizioni forzate. Attualmente stiamo organizzando qualche concerto nei festival jazz nazionali, dalla primavera in poi. Sarà nostra premura avvisarvi tramite i nostri canali social.

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Federico De Zottis racconta il nuovo disco Open: “La ricerca melodica è stata la guida”

 

Si intitola Open il disco d’esordio del gruppo 3.00 a.m. nato dalla volontà del sassofonista Federico De Zottis. Un progetto che prende forma dalla passione per i grandi maestri del jazz anni ’60 pubblicato dall’etichetta Emme Record Label. La formazione è completata da Diego Albini al pianoforte, Mirko Boles al contrabbasso e Stefano Lecchi alla batteria. Il leader di questo quartetto ci ha raccontato come è nata e come si è evoluta nel tempo questa nuova avventura.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Il Disco si intitola Open ed è stato registrato il 4 ed il 5 gennaio 2022 al Bluescore studio di Milano. Il titolo ha un doppio significato; da un lato descrittivo delle musiche e del linguaggio adottato, dall'altro metaforico. Per quanto riguarda il lato descrittivo, le armonie delle parti improvvisate vengono alleggerite e “aperte” rispetto alle armonie utilizzate per i temi, questo per poter consentire una maggiore libertà interpretativa ai musicisti. Dal punto di vista metaforico, invece, la parola open esprime il desiderio di aprirsi al confronto con il prossimo, descrive con efficacia la necessità avvertita di espormi come musicista e compositore. L'album è composto da sei brani, cinque originali più una mia interpretazione del brano Like a queen, una canzone uscita nel 2021 del collettivo svedese Spring Gang. Il materiale utilizzato per la composizione dei brani è stato accumulato molto lentamente, le prime bozze risalgono a circa sei anni fa e sono maturate di pari passo al mio percorso di crescita musicale.

Parliamo adesso anche dell’aspetto compositivo dei brani. Ci vuoi raccontare che tipo di ricerca hai effettuato per portare alla luce questo album?

La ricerca melodica è probabilmente il principio più importante che mi ha guidato. Tutti i brani, tranne uno (Madalena), sono nati da un'idea melodica. Per prima cosa, infatti, ho scritto la melodia dei temi, libera da una forma predefinita.  In alcuni casi l'idea originaria si è riversata naturalmente in strutture più note come la forma canzone AABA (è il caso di Henry e Estremi rimedi); in altri casi, invece, è sfociata in strutture più elaborate e inedite (come Heimay e Nord/ovest). Le melodie dei temi sono state i primi mattoni di questo progetto, risalgono a circa sei anni fa e non hanno subito grosse modifiche nel corso del tempo. Successivamente all'elaborazione delle melodie ho pensato alle armonie, ai ritmi ed alle forme. Questi tre aspetti sono quelli che hanno subito continue modifiche, raffinandosi molto lentamente e maturando di pari passo al mio percorso di crescita musicale.

Il secondo elemento importante di questo progetto riguarda la ricerca del timbro sul sassofono contralto. L'album è registrato in quartetto, batteria, pianoforte e contrabbasso, una scelta che mi ha permesso di lasciare il giusto spazio al timbro del sax. Negli ultimi anni ho lavorato molto su questo aspetto, sia tecnicamente con esercizi e studi mirati, sia culturalmente, ascoltando molti sassofonisti. L'ultimo principio importante che ha guidato le mie scelte compositive è stato la necessità di creare degli spazi comodi per poter sviluppare delle improvvisazioni “aperte”.

Raccontaci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

3.00 a.m. è il nome che da circa 10 anni usavo ogni volta che mi capitava di suonare con un mio progetto, si può dire quindi che lo utilizzassi come una sorta di pseudonimo. Questo significa che nel corso degli anni sono stati diversi i musicisti che hanno fatto parte di 3.00 a.m. Quartet. La più grossa difficoltà che ho dovuto affrontare per poter concretizzare il lavoro è stata quella di trovare musicisti disposti ad investire tempo, energie, risorse e personale sensibilità nel progetto. Non è stato semplice ottenere tre artisti disposti ad impegnarsi nella realizzazione di un lavoro che avrebbe previsto una lunga preparazione.

Sono particolarmente grato ai tre musicisti che mi hanno accompagnato in questa impresa, Stefano Lecchi, Mirko Boles e Diego Albini, non solo per la fiducia accordatami, ma anche per il contributo significativo che hanno dato alla forma finale dei brani con la loro personale sensibilità musicale. Di fatto ora 3.00 a.m. Quartet non può che essere composto da questi musicisti, non è più un mio pseudonimo ma è diventato a tutti gli effetti un gruppo composto da: Federico De Zottis, Stefano Lecchi, Diego Albini e Mirko Boles

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Sinceramente fatico a rispondere. Da un certo punto di vista sicuramente questo disco è stato un punto di arrivo, come ho scritto nella precedente domanda il materiale è stato accumulato negli anni, quindi stavo solo attendendo l'occasione giusta per poterlo incidere.  Da un altro punto di vista invece potrebbe essere considerato un punto di partenza, il risultato ottenuto ha galvanizzato i componenti del quartetto e ci ha lasciato con il desiderio di promuovere e portare in giro questo lavoro

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Il tipo di jazz che preferisco è quello della prima metà degli anni Sessanta. Dischi come Juju di Wayne Shorter; Miles Smile sempre di Shorter con Miles Davis, Page One di Joe Henderson; First meditation, A love Supreme e Crescent di Coltrane; oppure, ancora, Discovery! di Charles Lloyd, rappresentano il tipo di jazz che preferisco ascoltare. Il modo in cui questi grandi maestri hanno affrontato in quel periodo la composizione, e quindi anche l'improvvisazione, è stato, dal mio punto di vista, molto libero, ma al tempo stesso fortemente ragionato e razionale.

Molti dei temi presenti in quei dischi riescono ad essere fortemente melodici e cantabili, nonostante le scelte armoniche alle volte spigolose. Penso a brani come House of jade, o Yes or no di Juju, oppure Forest flower di Discovery!, penso a Jinrikisha di Page One o ancora Footprints in Miles Smile. Le armonie presenti in questi dischi non sono degli impervi percorsi ad ostacoli come quelle tipiche del periodo be-bop, ma piuttosto assomigliano a degli sconfinati campi aperti nei quali è possibile muoversi con maggiore libertà.

Con le dovute proporzioni, questo tipo di sensibilità è quella che ho cercato di riprodurre nel mio lavoro. Pensando, invece, al panorama contemporaneo, il sassofonista che maggiormente mi ha colpito, e che probabilmente ho tentato di emulare inconsciamente, è stato David Binney; inoltre, l'album che ha inciso nel 2017 The time verse ha probabilmente influenzato significativamente due delle mie composizioni (Henry e Madalena).

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Non ne ho la più pallida idea, per quanto l'entusiasmo per il progetto al momento sia alto se non si trovano occasioni per portare il progetto in giro a lungo andare l'entusiasmo cala. Ci impegneremo quanto più ci è possibile per promuovere il nostro lavoro con la speranza di ottenere una buona risposta

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Per il momento, oltre a presentare il disco nei principali locali jazz milanesi (garage moulinsky, bakelite, corte dei miracoli...)  abbiamo un paio di date fissate per l'autunno: una al festival Jazzmi di Milano ed una a Rovereto organizzata da Emilio Galante.

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