Jazz Agenda

Jazztales al 28divino – fra musica e letteratura

Jazztales è un progetto nato dalla collaborazione fra Marcello Rosa, uno dei maestri del trombone jazz in Italia, e Filippo La Porta, critico letterario, giornalista e saggista. Uno spettacolo che aggancia la musica alla letteratura e in cui i due linguaggi si fondono per raccontare un mondo fatto di cultura e tradizioni. Dunque, si tratta di un racconto irregolare sul Jazz, una storia fatta anche di aneddoti e di contrasti, in cui Filippo La Porta, oltre a fare da collante tra un brano e un altro, suona anche le percussioni (il resto della formazione è composto da Caterina Palazzi al contrabbasso e da Paolo Tombolesi al piano). Lo scorso sabato questo spettacolo è andato in scena al 28divino e noi, per approfondire il discorso, abbiamo raggiunto Marcello Rosa e Filippo La Porta.

Quale è stato il punto di partenza di questo progetto “Jazztales”?

Marcello Rosa: “Diciamo che io e Filippo ci conosciamo da decenni, ma la nostra collaborazione è partita un paio di anni fa a Villa Celimontana, quando ci siamo incontrati durante l’anniversario dello sbarco lunare. Nel ’69, in occasione dell’allunaggio, avevo suonato nel parco delle Naiadi a Pescara, il concerto finì all’una e lo sbarco avvenne intorno alle cinque. Durante quella sera c’erano jazzisti venuti da tutto il mondo e anche tanti televisori che trasmettevano l’evento. Quindi, dopo quaranta anni Rubei ha voluto farmi ricreare a Villa Celimontana quell’atmosfera e proprio durante l’anniversario Filippo fece un discorso introduttivo. Diciamo che il progetto è nato da questo punto di partenza, è venuto fuori in modo naturale e ognuno ci ha messo del suo. Inoltre Filippo è un appassionato e, avendo sotto mano anche gli scritti del Jazz, abbiamo parlato e deciso di fare questa avventura, è stata una cosa spontanea, un po’ diversa del solito, con una formazione al minimo”.

Quindi, questi scritti sul Jazz fanno da collante a questo spettacolo?

Filippo La Porta: “Questi scritti fanno da collante cronologicamente. Infatti, fra gli autori citati ci sono Scott Fitzgerald con i racconti dell’ “Età del jazz” degli anni 20, poi si fa un percorso nel blues degli Stati Uniti, poi c’è Marinetti e il futurismo che esaltava la musica sincopata, c’è Boris Vian autore di “Sputerò sulle nostre tombe” che scriveva gialli americani, ci sono Céline, Gregory Corso, c’è Kerouac autore di “Sulla strada”, c’è anche Ginsberg e infine faccio una puntata in America Latina con Julio Cortàzar che ha scritto “Il Persecutore”, un libro su Charlie Parker”.

In cosa consiste, allora, la letteratura Jazz?

Filippo La Porta: “L’obiettivo è proprio quello di capire quale è la letteratura Jazz, che non è tanto quella che parla dei jazzisti, ma quella che assume in sé l’elemento che caratterizza il genere, cioè il rischio, l’improvvisazione, l’imprevedibilità. Tutto parte da una frase di Marcello Rosa che dice: “Noi  sappiamo come comincia un brano ma non sappiamo mai come finisce”. Cito anche Raffaele la Capria che ha associato la letteratura ai salti mortali. Scrivere un romanzo è come un salto e bisogna farlo bene, c’è un elemento di rischio e di imprevedibilità.

E come avete sviluppato questo spettacolo?

Marcello Rosa: “Diciamo che questa cronologia è venuta spontaneamente, ma non è la cosa più importante perché si tratta di curiosità. Per esempio Kerouac, un grande scrittore d’avanguardia,  era un grande appassionato di Jazz tradizionale, mentre nessuno immagina che un pittore all’avanguardia come Pollock amasse il Jazz del Passato. Vengono fuori questi apparenti contrasti, sono curiosità che fanno riflettere e l’ascoltatore esce da questo spettacolo imparando qualcosa. Non c’è niente di artefatto, né di stantio perché io suono i brani che mi piacciono, non mi interessa seguire un filone e se alcune melodie possono essere agganciate al jazz sono molto contento. Poi se a questo discorso si può agganciare anche la letteratura è tanto di guadagnato.

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Luna Nuova, l’ultimo lavoro del Trio Salerno – intervista a Sandro Deidda

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Una musica elegante e molto raffinata, un jazz di chiara matrice europea che esalta la melodia e la lirica. Sono questi gli elementi distintivi del Trio Salerno composto da Sandro Deidda (sassofono tenore e soprano), Guglielmo Guglielmi (pianoforte), e Aldo Vigorito (contrabbasso). Un esordio che risale al 2008 con un progetto dal titolo “Cantabile”, edito dalla storica etichetta capitolina Via Veneto Jazz, e una sperimentazione continua, fatta di innumerevoli collaborazioni, che oggi ha portato alla nascita di un secondo lavoro, “Luna Nuova”. Proprio sabato scorso il Trio è andato in scena all’Alexanderplatz, con special guest d’eccezione, il percussionista Pierpaolo Bisogno. E noi abbiamo chiesto a Sandro Deidda di raccontarci questo nuovo progetto.

 

Sandro, per cominciare, ci vuole raccontare questo progetto, Luna Nuova?

Luna Nuova è un progetto nato nel 2010 che, a differenza del nostro primo Cd, Cantabile, è composto principalmente da temi noti. Per esempio ci sono brani come “Joy Spring” di Clifford Brown, altri di Ennio Morricone come “Metti una Sera a Cena”, per il quale ci siamo avvalsi della collaborazione dei Solis String Quartet, un famoso trio di archi napoletano, e “Deborah’s theme”, tema centrale della colonna sonora di “C’era una volta in America”. C’è anche un omaggio ad una canzone napoletana, “Passione”, di Valente-Tagliaferri e alcuni brani scritti da noi. “Faber”, per esempio, è una mia composizione dedicata a Fabrizio de Andrè e “Luna Nuova”, la title track, è un altro brano che ho scritto io.

C’è un filo conduttore che unisce queste musiche forse così eterogenee fra loro?

Siamo noi a rendere il tutto omogeneo. Anche se suoniamo musiche eterogenee, alla fine il nostro sound è riconoscibile ed è il risultato del nostro affiatamento e della nostra ricerca. Diciamo che c’è un nostro tocco su brani di provenienza diversa che privilegia la melodia, la liricità, senza però perdere il ritmo. Noi perseguiamo questo fine ed è una cosa che ci viene del tutto naturale.

Quindi, come è nato questo Trio Salerno?

Il nostro trio è nato da un antica amicizia che legava i nostri padri. Loro, anche se facevano altri lavori, erano professionisti e svolgevano un’attività concertistica. Il padre di Aldo, che era un chirurgo, ha cominciato a studiare tardi e, una volta in pensione, ha cominciato a prendere lezioni da mio padre. Diciamo che loro ci hanno trasmesso questa loro passione per la musica e poi le nostre strade si sono indirizzate verso il jazz.


E questa vostra scelta di non utilizzare la batteria…

In pratica la nostra scelta è stata quella di eliminare la batteria che solitamente è un elemento costitutivo tipico di una qualsiasi formazione jazz. Quasi sempre ogni gruppo nasce con la batteria, ma noi abbiamo fatto a meno di questo elemento caratterizzante cercando di ottenere qualcosa di differente dagli altri, un sound personale, molto lirico. Diciamo che fin dal principio la nostra ricerca si è sviluppata con l’intento di esaltare la melodia e l’armonia che ne consegue, tutto seguendo una logica “Cantabile”, che è proprio il titolo del nostro primo Cd, edito nel 2008 dall’etichetta Via Veneto Jazz. Non ci piace la definizione cameristica, però talvolta le nostre sonorità sono talmente sottili che potrebbero riecheggiare quelle classiche.

Il vostro è un gruppo molto affiatato in cui c’è un’armonia ben consolidata. Potremmo dire che per voi è valido il concetto di interplay?

Diciamo che ognuno dà il proprio contributo in modo uguale agli altri. Per esempio Dave Brubeck componeva le sue musiche e gli altri sideman lo seguivano; noi, invece, siamo tre compositori allo stesso livello, tre musicisti che si completano, ognuno complementare all’altro. Per fortuna tra di noi c’è un equilibrio magico che è dovuto soprattutto al numero elevato di prove che facciamo. Inoltre registriamo spesso i nostri concerti e valutiamo le cose che funzionano e anche quelle che non funzionano, un consiglio che diamo soprattutto ai giovani che si avvicinano al Jazz. Per quanto riguarda il nostro repertorio, quello composto da brani originali, diciamo che le musiche vengono composte da tutti e tre ed è una collaborazione paritetica. Non c’è qualcuno che prevale.


Sabato scorso avete suonato all’Alexanderplatz insieme al percussionista Pierpaolo Bisogno. Collaborate spesso con elementi esterni al Trio?

Con Pierpaolo collaboriamo anche in altri progetti ed è spesso uno dei nostri ospiti. L’abbiamo chiamato perché la voglia di sperimentare non ci manca e in questo caso, visto che era un sabato sera, volevamo vivacizzare la nostra proposta rendendola più allegra e frizzante. Questo si unisce alla nostra curiosità di sperimentare l’inserimento di alcuni ospiti nel trio. E’ già successo e continuerà a succedere. Pierpaolo Bisogno è un bravissimo vibrafonista e percussionista che vive a Roma da anni e che abbiamo invitato molto volentieri.

Quindi, vi rivedremo presto all’Alexanderplatz?

Si torneremo presto, il prossimo concerto è previsto per il 10 Novembre

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Sesta edizione del Garbatella Jazz Festival – intervista a Pino Sallusti

Si è conclusa la scorso sabato la sesta edizione del Garbatella Jazz Festival, evento che si è svolto nella storica Villetta, al civico 26 di via Passina, che già da un po’ di tempo è entrato a far parte della tradizione di uno quartieri più belli della città. In questa tre giorni completamente dedicata al jazz, sono saliti sul palco il duo Duality, il trio Maurizio Giammarco Jazz3 e il Pino Sallusti. Per approfondire l’argomento e per comprendere la forza di un Festival che sembra radicarsi sempre di più nello spirito di un pubblico che comincia veramente ad amare il jazz, abbiamo intervistato Pino Sallusti, musicista, contrabbassista, nonché direttore artistico del Festival.

Pino, per cominciare ci vuoi raccontare come avete strutturato questo Festival?

“L’iniziativa è stata strutturata in tre giorni, con tre concerti, tre formazioni diverse e, quindi, proponendo tre diversi modi di ascoltare il jazz. Durante la prima serata c’è stato il duo di Andrea Beneventano e Nicola Puglielli, che si basa proprio sull’interplay fra pianoforte e chitarra. E nonostante la villetta non fosse adatta ad un concerto di questo tipo, c’è stata una grossa risposta del pubblico sia per la bravura dei musicisti, sia per il coinvolgimento stesso delle persone. In tutte le serate è stato chiesto a gran voce il bis ed è stata una vera sorpresa anche per il duo”.

E durante le altre serate come è andata?

“Durante la seconda serata c’è stato il trio di Maurizio Giammarco con Francesco Puglisi e Marcello Di Leonardo. Purtroppo la temperatura non è stata molto favorevole, ma anche in questo caso, nonostante le minacce di pioggia, la gente ha risposto molto bene anche se abbiamo dovuto spostare il concerto dal palco centrale. Infine nella terza serata ci sono stato io con il mio gruppo che è composto da Claudio Corvini, alla tromba, Massimiliano Filosi, al sax alto, Marco Conti, al sax tenore, Marco Guidolotti, al sax  baritono, Andrea Frascaroli, al pianoforte, Gianni Di Renzo, alla batteria; tutte formazioni non convenzionali.”

Quindi, come avete organizzato le serate del Festival?

“Prima di ogni concerto c’è stato sempre un quartetto che apriva la serata, eccetto durante la seconda giornata per motivi logistici, a cui si aggiungeva una cantante con un repertorio di pezzi originali e di standard. Ogni anno c’è sempre una formazione che apre il Festival.”

Avete già in mente qualcosa per la settima edizione?

“Diciamo che questo Festival comincia ad essere una bella realtà, stiamo già lavorando alla settima edizione che vorremmo fare tra giugno e luglio, anche perché ci siamo accorti che è un peccato non utilizzare una cornice così bella come è successo per il concerto di Giammarco”.

Quanto è importante un evento di questo tipo per valorizzare un quartiere come Garbatella?

“Sicuramente il Festival è come un vaso di fiori che abbellisce un salotto già bello. Inoltre, grazie al lavoro di organizzazioni come Cara Garbatella, Altre Vie e grazie anche agli sponsor presenti abbiamo registrato sempre il pieno”.

Quindi, il Garbatella Jazz Festival è un evento che rimane legato alla realtà del quartiere o richiama anche un pubblico che proveniente da altre parti della città?

“Ovviamente richiama la gente del quartiere, ma quest’anno, proprio perché abbiamo cercato alzare il livello del festival, c’è stata una risposta non soltanto dal popolo della Garbalella, ma anche dalla gente degli altri quartieri. Infatti, il prossimo anno vorrei riuscire ad ampliare questo festival da tre sere a una settimana, per arrivare a proporre una rassegna estiva che si sviluppi in più mesi, sempre che continui la mia collaborazione come direttore artistico. Inoltre mi piacerebbe ampliare il discorso con la didattica e i seminari”.

Pino, per concludere, quali sono stati i punti di forza del Festival? In particolare su cosa avete affidamento?

“Sull’entusiasmo soprattutto, io ho organizzato il festival dal letto perché a maggio sono stato operato di tumore. E’ stata una cosa che mi ha tirato fuori da una situazione brutta e devo dire che sono stati tutti disponibili a darmi aiuto. La cosa più bella è che l’ultima sera ho risuonato il contrabbasso in pubblico, una scommessa vinta, anche se le condizioni climatiche non erano proprio perfette”.

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Festival Odio l’Estate – Intervista a Stefano Mastruzzi

foto di Mauro Romano

Si è concluso ieri nella splendida cornice di Villa Carpegna Odio l’Estate, il Festival organizzato dalla scuola di musica Saint Louis, che sancisce la fine dell’estate jazzistica. Tanti i nomi che vi hanno preso parte, a partire da Gino Paoli e Simone Cristicchi, tante le iniziative collaterali che hanno accompagnato una manifestazione che anche quest’anno di musica ne ha prodotta davvero tanta. Stefano Mastruzzi, direttore della scuola, nonché musicista ed insegnante, ci ha raccontato quali sono state le novità e i cambiamenti di una manifestazione che, con il passare del tempo, è diventata una realtà con radici molto solide.

 Stefano, una domanda per cominciare, Odio l’estate ha questa doppia valenza: una didattica e un’altra legata alla musica dal vivo. Perché avete deciso di creare questa sinergia fra questi due aspetti della musica?

“Allora, la premessa è che Odio l’Estate è prodotto del Saint Louis, una grande scuola che da anni organizza eventi durante l’estate romana. L’idea del Festival nacque proprio dal fatto che si organizzavano seminari con artisti da tutto il mondo, quindi, avendo a portata di mano grandi musicisti, abbiamo pensato che si poteva fare qualcosa di originale perché c’era la possibilità di far dialogare musicisti come Dave Holland, per esempio, con artisti italiani. In questo modo il Festival ha acquistato una personalità specifica perché, essendo formazioni inedite, era possibile ascoltare musica del tutto originale. L’altro aspetto interessante è che in questo modo abbiniamo gli allievi, che spesso sono già professionisti, con artisti affermati creando spazi per i giovani nomi.”

foto di Mauro Romano

Quindi, quali sono stati i punti di forza della manifestazione di quest’anno?

“Innanzitutto la gratuità, diciamo che abbiamo dato un servizio alla popolazione del Municipio stesso che non soltanto ha permesso al pubblico cultore o a quello di un cantautore specifico di avvicinarsi, ma anche a chi si è semplicemente incuriosito. E’ una sorta di formazione e, allo stesso tempo di informazione, per un pubblico che può diventare amante del jazz. L’altro punto di forza è stato la varierà della musica stessa che passa da un alto jazz a quella d’autore, privilegiando le sonorità acustiche, per poi chiudere con un Festival di musica etnica e di riscoperta delle radici popolari del Sud d’Italia.”

foto di Mauro Romano

Quali sono stati i cambiamenti, rispetto agli anni precedenti?

“Sicuramente negli anni precedenti Odio l’Estate aveva una connotazione prettamente jazz, mentre quest’anno ci siamo aperti anche a musica d’autore con nomi come Gino Paoli, Simone Cristicchi, Joe Barbieri. Un’altra caratteristica di quest’anno è che abbiamo aggiunto una seconda serata dopo le 22:30 con tante proiezioni, cortometraggi muti, come quelli di Chaplin o di Hitchcock, che abbiamo sonorizzato con le band che hanno suonato dal vivo. Ci è sembrato un modo di attualizzare queste pellicole e devo dire che ha funzionato molto perché l’attenzione è stata alta fino a notte fonda.”

Quindi, considerando questi cambiamenti, cosa ha apprezzato maggiormente il pubblico?

“Diciamo che in parallelo alla musica sono state fatte tante presentazioni di libri e tanti incontri con autori cinematografici. L’insieme di queste cose ha attratto un grande bacino di utenti che non erano solo appassionati di musica, ma anche di cinema e di letteratura.”

E se dovessimo fare un bilancio del Festival… 

foto di Mauro Romano

“Direi un Bilancio più che positivo! Parlando in termini numerici ci sono stati circa 25 mila spettatori e la cosa buona è che il pubblico è stato rispettoso perché amava la musica. In genere, quando il pubblico è così eterogeneo è disattento; qui, invece, c’era silenzio e apprezzamento per chi era sul palco. Inoltre chi ha supportato il Festival è rimasto entusiasta e ha già deciso di rifarlo il prossimo anno addirittura prolungandolo a 50 giorni. La cosa bella è che la manifestazione si farà di sicuro e che potremo programmarla bene commissionando già da ora delle opere specifiche. E tutto questo è possibile soltanto con una programmazione.”

 

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Fara Music 2010 – Incontro con Enrico Moccia

Portare la musica fuori dai circuiti tradizionali delle grandi città, in provincia, magari sullo sfondo di uno dei borghi medievali più suggestivi del Lazio. Fara Sabina, dove si è appena conclusa la quarta edizione del Fara Music Festival, un evento che ha visto per una settimana la piazza principale del paese aprirsi al Jazz, con un calendario che non è l’unico motivo di interesse di una manifestazione che può contare su una Summer School che, con gli anni, ha attirato sempre più consensi. Venerdì 23 luglio ci siamo recati nella località reatina per assistere all’esibizione del quartetto Ciammarughi-Leveratto-Bandini Fiorentino, e ne abbiamo approfittato per fare quattro chiacchiere con Enrico Moccia, il giovane e determinato organizzatore del Fara Music Festival…

Enrico, una domanda per cominciare, come avete organizzato questa quarta edizione?
“Rispetto alle prime tre edizioni credo che non ci siano grosse differenze: la mattina e il pomeriggio ci occupiamo della didattica e gli studenti studiano con il proprio insegnante dalle dieci all’una. Dalle tre alle sei, invece, vanno ai laboratori di musica di insieme e la sera ci sono i concerti, tutti completamente gratuiti. Abbiamo organizzato anche il “Jazz Live”, un premio molto ambito per il quale concorrono i giovani talenti del jazz europeo e per il quale verrà prodotto un disco in collaborazione con Rai 3; uscirà in tutti i negozi di dischi a partire dal 2011. Durante la sera, invece, ci sono le degustazioni con le più quotate aziende enogastronomiche, e ci sono anche le jam session. Proprio domenica 25, dalle 18 alle 21, c’è stato il saggio finale dei corsi in cui i vari dipartimenti si sono esibiti sul palco delle jam session, che si trova nella parte bassa del paese”.

Quindi, queste aziende enogastronomiche sarebbero i vostri sponsor?
“Diciamo che più che sponsor sono delle aziende che noi abbiamo voluto coinvolgere proprio perché dal punto di vista qualitativo erano paragonabili alla direzione artistica. Infatti, abbiamo scelto delle aziende laziali che sicuramente hanno contribuito ad aumentare la qualità dell’evento. Chiaramente ci sono anche gli sponsor privati e i contributi pubblici perché, essendo un evento completamente gratuito, ha dei costi notevoli”.

Quanti ragazzi hanno partecipato ai corsi della Summer School?
In questi 4 anni ci sono stati 450 studenti in tutto, mentre quest’anno ce ne sono stati 110 provenienti da tutta l’Italia. Molti di loro sono ritornati, altri sono alla prima edizione. Sicuramente sono estremamente soddisfatto di questo risultato, anche perché, come avrete potuto notare, non è così facile arrivare a Fara Sabina”.

La selezione dei musicisti che si esibiscono è molto legata alla Summer School?
“Sì, in parte è legata ai musicisti che insegnano perché l’idea è quella di affrontare un percorso didattico che gli studenti cominciano con il proprio insegnante. Nel pomeriggio l’insegnante segue i ragazzi durante la musica d’insieme e la sera gli studenti possono vedere il proprio insegnante sul palcoscenico. Chiaramente quest’anno abbiamo investito su progetti internazionali che hanno fatto crescere molto il livello del Festival e, quindi, abbiamo avuto artisti come Stochelo Rosemberg, che è il numero uno al mondo di free jazz, gli Yellow Jackets, che sono una delle band di fusion più famose al mondo e, infine, domenica c’è stato il concerto di Rick Margitza. Diciamo che ogni volta che scegliamo i concerti della programmazione stiamo attenti all’aspetto didattico, all’aspetto spettacolare, ma anche al coinvolgimento di realtà internazionali”.

Il fatto che la Summer School sia un aspetto preponderante del Festival è una cosa che è venuta fuori col tempo o siete partiti con questa impostazione fin dall’inizio?
“Diciamo che la mia idea nasce proprio dopo aver fatto molte esperienze di questo tipo in giro per l’Italia e per l’Europa. Essendo io di Fara Sabina, ho pensato che questa poteva essere una realtà congeniale ad un’organizzazione di questo tipo. Quindi, la didattica nelle strutture storiche del borgo, i concerti, tutto all’interno di questo borgo medievale raggiungibile a piedi con molta facilità. Penso che sia stata la scelta giusta soprattutto perché da parte nostra c’era la volontà di rivalutare questo splendido paese che negli anni precedenti era stato un po’ dimenticato”.

Quindi, sono state le tue esperienze professionali a farti capire che volevi creare un evento del genere in questo posto?
“Fondamentalmente sì. Io, essendo musicista, essendo laureato in semiologia della musica ed in scienze della comunicazione, mi sono sempre interessato al discorso dell’organizzazione degli eventi e, quindi, sono sempre stato convinto che un evento culturale di questo tipo potesse essere l’unica soluzione per rivalutare una piccola realtà geografica come Fara Sabina. Quindi non soluzioni economiche, ma soluzioni culturali in grado di trasformare e di far conoscere una realtà come questa. Come avete visto è un paese splendido e ha una struttura degna di realtà molto importanti come quelle dell’Umbria o della Toscana”.

Quindi, lo sfondo architettonico ha un ruolo molto importante?
“Certo, tutto questo discorso didattico ha un senso ancora più forte se svolto in un contesto architettonico come quello di Fara Sabina, se fosse inserito in una città perderebbe molto fascino”.

Un’ultima domanda, secondo te questa esperienza potrebbe costituire un modello?
“Io penso di sì, proprio ora sto portando avanti un progetto che si chiama Italian Music Festival che racchiude una serie di realtà italiane molto importanti, come i Festival Jazz e Blues che non vengono organizzati nelle grandi città. E visto che questi Festival hanno meno forza mediatica, questo progetto tende ad unirli lasciando autonomia ad ogni iniziativa. Quindi, credo che il modello nostro, ma anche quello di altre realtà italiane, sia da imitare e da copiare assolutamente. E’ una vera e propria rete in cui sono state già state coinvolte realtà molto importanti che rappresentano delle tappe fondamentali del Jazz italiano. Noi come Fara Music, abbiamo questa ambizione, di essere fra i primi eventi in Italia per quanto riguarda questo tipo di esperienza, di didattica e di concerti. In parte, nel Lazio lo siamo già, siamo già stati definiti come l’evento più importante della provincia di Rieti soltanto dopo 4 anni. Magari fra altri 4 anni lo saremo ancora di più nel Lazio”.

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