Jazz Agenda

il viaggio dei F.R.A.M.E. al Nuovo Teatro Colosseo

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Una voce fuori campo apre il concerto dei F.R.A.M.E., venerdì 1 luglio al Nuovo Teatro Colosseo. La voce, a suo modo, ci avvisa del viaggio che stiamo per compiere tra le culture e le coscienze, citando Shopenhauer (o l’induismo) e le 101 storie zen. All’apertura del sipario l’impatto è forte. Veniamo letteralmente investiti dalla musica, non facendo in tempo a capire che siamo già partiti. F.R.A.M.E. è un progetto che spazia nelle sonorità più disparate, dai forti rimandi alla musica Gnawa marocchina, a quella carnatica o al Nadanpattu indiano, con la predominanza di percussioni di ogni foggia, fino alle forme più conosciute di funk, progressive e jazz-rock. Un modo di incontrare culture vicine e lontane attraverso un mezzo sublime qual’è la musica. Ma anche il tentativo di tirar fuori all’ascoltatore emozioni recondite, che scivolano sullo spur of the moment. La voce ritorna, a momenti, giusto per non farci dimenticare la componente “spirituale” di questa esperienza. Così, proprio come la Maya citata, gli strumenti si compattano in un suono unico, completo, nel quale anche il cantato si relativizza. I ragazzi non hanno bisogno di sguardi d’intesa; ognuno, solo col proprio strumento, si lega perfettamente all’altro in maniera quasi inconscia. Sono belli persino da vedere, mentre se la ridono con lo sguardo perso. Il ritmo instancabile e a tratti frenetico proprio non ti lascia la possibilità di star fermo, così i seggiolini rossi non la smettono di vibrare e i piedi accennano quello che tutto il corpo vorrebbe fare. È il richiamo delle percussioni, molto presenti per tutto il concerto, che affascinano con la loro impronta rotonda. È il fascino del laud che tanto ci ricorda i Buena Vista Social Club. E quell’eco che rimanda al progressive italiano della PFM. Due omaggi a chiudere questa serata: il pensiero che tutti i musicisti in questi giorni dedicano ad Alberto Bonanni (giovane musicista picchiato a rione Monti e in gravi condizioni), e a Michael Brecker. F.R.A.M.E. è un’esperienza a più livelli, coraggiosa e di successo. È un giro di montagne russe “sonore”; quando si scende lo si vuole riprovare.

 

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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BARI IN JAZZ live diary – 1 luglio 2011

Al Bari in Jazz l’incontro è di casa. L’incontro. Quella straordinaria possibilità che è l’incontro. Accade. Per strada, da una bicicletta. Davanti a una birra, rigorosamente ghiacciata. Sotto il tetto d’un paradiso d’ombrello, mentre di là dal cielo si scatena l’inferno. All’ombra di un fazzoletto di bistecca, che sarebbe più facile da stracciare, ad averci il coltello giusto. Momenti. Rari. Unici. Non solo jazz. O magari, anche questo è jazz. D’altronde, la musica come la vita, e la vita come la musica, «sono solo questioni di stile», diceva Miles.

Al Piccinni c’è il Blake Allison Drake Trio. Bella l’atmosfera. Si inizia così, d’impatto. L’energico assolo dei drums di Hamid Drake scalda. Si va di stop. È una presenza convinta. Entusiasta. Entra nel vivo. C’è empatia. Il sax di Michael Blake è intenso. Forte. Avvolgente. I colori sono accesi. Poderose e sicure le linee tracciate dal contrabbasso di Ben Allison. C’è carattere. È un carisma perforante, che penetra, di netto. È una sinergia perfetta. Il varco è aperto. Il sax di Blake accede, arruffato, sui ribattuti e i percorsi cromatici di Allison. Caldi. Pastosi s’innervano, esplorando il registro più scuro. Il tema progredisce. Ed è una dolce salita, rotta, ispida sul finale. La percussività mimica di Drake incuriosisce e affascina. Blake ci imbastisce su un ricamo. Soffuso. Fermo immagine. Blake si incaglia su un modulo semplice, ritmicamente segnato, melodicamente circoscritto. È un labirinto che non pare conosca via d’uscita. Soffoca. L’esigenza è la fuga. Ed è un lungo vagare, fatto di passi stanchi e trascinati. Stenta. Esanime. Sfilacciato. Desiste. Cambia l’angolo di campo. Il sax lascia spazio ad una melodica. È quasi un reggae time. Scanzonato. L’interplay è naturale, luminoso. Il racconto avvince. Non ci sono fronzoli. Nessun inutile e frustrante virtuosismo. Le linee sono spezzate, posizionate con cura in uno spazio definito e guidano l’andare. Passa e va. Scompare all’orizzonte. Montreal midnight. Nuovo set. Drake lascia i drums e avanza sulla scena. La pelle del tamburo è una luna. L’archetto di Allison si arma di sonagli, e ne costruisce i bagliori. Illumina Montreal. È una notte ispirata. È un sogno urbano, che conosce possibilità di fuga. È la magia dei rhythmic noises. Il sax asseconda l’idea di Allison e copre il ritorno di Drake ai drums. Risveglio metropolitano. Conquista.

Un isolato più avanti i Camilloré incendiano il campo ferrarese. Ed è una cascata di colori. Ceddia è un divoratore. Consuma a morsi la piazza. Scatena l’incendio «e confonde il mondo con il suo kazoo». Circense. Chiude l’omaggio al Principe De Curtis. È un teatro. E Ceddia ne tiene le fila. Pochi minuti e arriva. Caldo. Lucente. Denso. È Argento vivo che scorre e riempie i vuoti. Cambio d’abito per piazza Ferrarese. Raffaele Casarano presenta il suo ultimo progetto discografico, Argento (Tuk Music, 2010). Suade, ispirato. L’elettronica di Marco Rollo entra, e sfida l’immaginario. È un collage perfetto. Il dialogo con Greco si fa intenso e il groove cresce. Anni settanta. Carla Casarano spinge, preziosa. Ed è una dichiarazione d’eleganza. Un amalgama che si lascia fendere dalle atmosfere andaluse della chitarra di Checco Leo. Bardoscia sostiene, discorsivo. Pressurizza. Il cielo partecipa. È un’intesa che non t’aspetti. Splendida. Argento sul palco, argento nell’aria. Argento è il lampo che all’improvviso squarcia. Argento ogni goccia che raggiunge, inesorabile, le lastre granitiche di piazza Ferrarese. Specchia. Scompone. Segue in ogni riflesso i colori del palco. L’acqua non ha nemici. Monteduro carica, fitto. Il cielo con lui.

Eliana Augusti

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BARI IN JAZZ live diary – 30 giugno 2011

«Water no get enemy». Fela Kuti. Una bottiglia e via. Acqua. E anche del temporale di qualche ora fa non resta che l’odore. Sospiro di sollievo. L’acqua non ha nemici. Nella sede dell’Abusuan di Strada Vallisa ci si incontra, appena il tempo di un bicchiere in compagnia. Sorrisi. Frammenti di vita. Incroci di lingue. C’è tutto un mondo in quest’angolo di Bari vecchia. L’Auditorium è colmo. Michele Giuliani & Reunion Platz sono pronti. Sonorità afro-cubane. Sapore di Sud. Si leva un inciso intenso, tribale. Avvolgono le voci. È un amalgama che consola e riscalda. Secondo intervento. Altra dimensione. Il piano di Giuliani porta lontano. Il pubblico è lì. Inchiodato. Distende. Calma. È un ascolto piacevole. E quando parte Step by Step la voce di Giuliani scava, sensuale. È un pensiero metropolitano che attraversa spazi esotici.  E viceversa. La  rigidità del suo attacco al tasto aggancia l’anima. Poche note. Scalfite. Il basso elettrico di Piarulli è morbido, avvolgente. Le percussioni di Pastanella spingono. C’è sound. L’album da cui sono tratti i brani proposti, tutti a firma Giuliani, è Roots (Zeitgeist Records, 2010). L’esperimento, «creare sonorità e ambienti etno-afro impiegando strumenti della tradizione europea, come il pianoforte o il basso elettrico», nota a margine Giuliani. L’impressione è che, al di là dei contesti geografici che si tenti di raggiungere o creare, Giuliani e i Reunion Platz conquistino un sound raffinato, personale, particolarmente piacevole, che prende, accompagna e appassiona. Ispirato e ottimista. Ovunque.

Piove. Ma al riparo. L’acqua non ha nemici. Approccio veloce ad un cibo che lamenta attenzioni e si corre verso il Piccinni. Appena arrivati l’atmosfera è incandescente. Si celebra il sodalizio Slettino – Bari. IlSylwester Ostrowsky & Piotr Wojtasik Quintet è lì. Francesco Angiulli è il quinto uomo d’una formazione tutta polacca. Perfetto. Il pianismo di McClung corre. È un suono che percorre, vivacizzato da sequenze elettriche, incandescenti. È un delirio di contrasti. I drums di McCraven rincorrono e distendono. La tromba di Wojtasik arriva puntuale, effervescente. Misurato e monocromo l’approccio di Ostrowsky. Gelido. Fitto il tessuto improvvisativo. Lunghi periodi, senza alcun cedimento. Divertente il dialogo a due, drums-tromba. Si va per piccoli moduli imitativi, scanzonati. Il risultato è febbricitante. Il tema acquieta, memorie jazz standard. Wojtasik è magnetico, intimo. Costruisce degli edifici sonori estremamente raffinati. Bello l’assolo del contrabbasso di Angiulli. La tavolozza dinamica è ricchissima. Si cambia sound. Si abbandonano le atmosfere dense per un respiro più leggero, distratto dallo scambio tromba-sax. Ostrowsky è più incisivo nel registro grave. Trascinante il tema. Il sincopato spinge. Pausa.

I tempi sono strettissimi. Il calendario rispettato al millesimo. Si apre il sipario. L’Apulian Orchestraè pronta, schierata. Luci basse. Ralph Alessi descrive da protagonista l’approccio ad una produzione speciale, dedicata all’edizione BIJ 2011. Dark Magus Walkin’ Out Of The Cool. È una presenza scenica forte, le dinamiche sono tutte spinte. È l’esasperazione di una terra che conosce l’orgoglio e sa farne la sua forza. Ed è inevitabile il confronto con sonorità, e personalità, diverse. Ottaviano conduce. È un gioco di stop e presenze, ricche, fittissime, dense. Debordante. Le dinamiche controllano e si controllano. Chiude. Si apre l’assolo della chitarra elettrica di Pino Mazzarano. Balbetta, distonica. Variazioni di intensità e piccoli delay. Tutto è scandito, percussivamente. È un gioco di pieni e vuoti. Ondeggia. Sinuoso. Rientra Alessi e distende. Giorgio Vendola, al contrabbasso, gli prepara un tappeto ritmicamente interessante e detonante. Ottaviano coordina i fiati, li raccoglie, li plasma. E sono vele che si levano. Da una parte Alessi. Dall’altra tutta la potenza percussiva delle sezioni ritmiche (D’Ambrosio-Accardi-Lampugnani) e l’intensità personale di Vendola. Le vele dei fiati, lì, nel mezzo. Gradino dinamico. Ed è ancora Vendola a sostenere, discreto, l’intervento lirico del piano di Mirko Signorile. Carica ancora. È un equilibrio di forme, timbri, colori. Ottaviano miscela, dosa e libera gli assoli. Ed è il piano a fare da ponte. Questa volta è Ottaviano stesso, direttamente dal suo sax soprano, a dare la direzione. Sicura, ricca, avvincente. Riempie a livelli. È un crescendo. E quando interrompe, a lampo si apre davanti un nuovo ambiente, fatto di echi, imitazioni e passi all’unisono con la tromba di Giorgio Distante. È l’elettronica, ora, a fare da ponte. I keyboards creano spazi che avanzano e retrocedono, in un singhiozzo dinamico che prepara l’ingresso della sezione dei fiati. Caldo l’intervento al sax di Vincenzo Presta. Ed è ancora Vendola a dettare il suo stile. Personalissimo. Quando si apre il suo assolo il silenzio è totale. Il respiro si fa affannoso. Palpita. È un percorso emozionale che cattura. È Vendola, sicuramente, una delle presenze più ricche dell’edizione di quest’anno del festival. Ritorna la tromba di Alessi, ritorna la chitarra elettrica di Mazzarano. Scala, fin su in cima. Ed è quasi rock. Divertenti i giochi di stop. Scanditi i quattro tempi di Ottaviano. Bloccano. Variano. Inseriscono un tema ponte. Ed è la volta della tromba di Distante. Il sound si fa quasi latin. Caratterizzata. Carismatica. Emerge, anche nel dialogo a due con Alessi. Si cambia ancora, ora per stop, ora per gradini dinamici. Ritorna il quaternario di netto, e la spensieratezza d’un tema di strada. Va di percussioni. Buio. Maurizio Lampugnani intona un frammento che ha colori d’Africa. Spazio percussivo. Si animano le sezioni ritmiche. È un ménage à trois. Iridescente.

Dal Piccinni a Piazza Ferrarese il passo è breve. Ma il salto di genere è forte e destabilizzante. È uno stato di trance permanente, a firma Anthony Joseph & Spasm Band. È un cocktail acido che porta, immediato, in un’altra dimensione. Alcolica la chitarra elettrica di Christian Arcucci. Convulso lo scambio percussivo Martinez-Castellanos. Antony è vorticoso, prende, travolge, devasta. È un ipnosi di gruppo. «Mi porta una birra?». Miscela esplosiva. Danza.

Eliana Augusti

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BARI IN JAZZ live diary – 29 giugno 2011

Un tavolo per tre. The in ghiaccio. L’atmosfera è quella della festa. Quella di ieri. E l’eco ne partecipa ancora i luoghi. La calura è invadente. Caffetteria del Ferrarese, oggi. Si gusta l’attesa. È lo scambio, piacevole, di impressioni su quello che è stato. È lo scambio, piacevole, di sensazioni su quello che sarà. Secondo giorno. Si riconoscono i volti. Il clima è familiare. Di là dagli spazi, si alzano, curiosi, i suoni della prova finale. Ed è un non-luogo, quello delle voci, dei pizzichi, dei fiati, dei rullati, delle risa, delle indicazioni di scena, quello che non si vede perché non accade, non per tutti, non ora. Il programma è densissimo. Manca poco.

Via di corsa. Sala Murat. Bitches Brew è pronto, come il suo autore. Enrico Merlin, milanese, racconta il suo Miles. Bitches Brew. Genesi del capolavoro di Miles Davis (Il Saggiatore, 2009). Un lavoro complesso, schietto, efficace e originale. Un lavoro che riattualizza la necessità atavica dell’uomo, e del musicista più dell’uomo, di comprendere, di ridurre e contenere quelle strategie, ove ve ne fossero, legate al magico «caleidoscopio» dell’improvvisazione. The Man sapeva. The Man faceva. I suoi colori. Le sue espressioni. È un Davis inedito, quello più discusso e controverso, quello del periodo elettrico. Merlin e Ottaviano si incontrano nel ricordo della storia del jazz e, meglio, di un uomo che ha fatto la storia del jazz. Un uomo raccontato dalle tracce che ha lasciato, quelle rimaste per anni negli archivi polverosi della Columbia Records e riscoperte, ora, dal genio indagatorio di Merlin, dalla sua sensibilità di musicologo, di musicista. Enrico ha ripercorso chilometri di nastri, passato al vaglio frequenze, scovato una fortunosa e fittissima rete di anonimi «scambisti» di rare registrazioni di ancor più rari concerti di Davis. E ha tessuto la rete, ricostruito il genio, intuito il black code e ipotizzato e verificato un linguaggio non verbale dell’improvvisazione, un linguaggio in grado di svelare il mistero di lunghissime sessions, in cui tutto si svolgeva entropicamente, empaticamente. Tutto raccontato con straordinaria e devota dedizione. È un viaggio intimo, fatto di voci e immagini sonore. Oltre lo spazio, oltre i colori dell’Enucleare della Murat, Miles Davis e i suoi, da Hancock a Carter, a Williams, arrivano e vivono, intensi. É una migrazione, affascinante. È un’intuizione, straordinaria. E straordinario è il racconto diBitches Brew, «non la fotografia di un evento sonoro, ma la costruzione tutto a taglio di un film» (E. Merlin). È questa la provocazione di Miles. È questa l’intuizione di Merlin. Suona. Di là dai codici, i piani si manifestano, invertiti. Ed è l’improvvisazione a guidare. Non è preventivato l’errore semplicemente perché non esiste. La composizione segue, in sala editing e montaggio, tutto il resto. Come in un film. Avvincente. «La musica viene prima», ammoniva Frank Zappa. Come dargli torto.

Via per l’Auditorium. Vallisa. Rino Arbore Quartet e le sue Suggestions From Space. Il leitmotiv è ancora lui, Miles. Ma non è un Miles che racconta. Questa volta. È un Miles che ascolta, dedicato, e che ispira. I brani, tutti a firma Arbore, vengono da lontano. Ed è quello stesso “lontano” il luogo in cui la chitarra lirica di Arbore e la tromba boreale di Nikolaisen convergono, e raccontano di un’esperienza intima, che vive ancora. Orgoglio del vivaio pugliese, il quartetto conta Vendola, al contrabbasso. E non inganna la sua giovane età. Conquista, immediato. I drums di Liberti scivolano, netti, ordinanti. È il lato di Miles più intimo, quello che ispira e raccoglie, quello che pervade mistico il racconto del flicorno di Nikolaisen. C’è spazio per la sperimentazione. Ed è Vendola ad osare. Seguono i flussi ventrali della chitarra di Arbore, e il contrasto accattivante coi picchi ispidi della tromba nordica di Roy. È un eloquio acrobatico, è un lirismo avvolgente. Cattura. Gonfiano le dinamiche. La comunione è eclettica. L’interplay definito, geometricamente. Si liberano le linee, gradualmente. È uno spazio, ora, quasi esotico, che si lascia assecondare con audacia e sfrontatezza e che esplode nel grido della tromba, dritto al cielo. Arbore c’è, profondo, personale. E gli armonici ne arricchiscono le tessiture. L’intenzione. «Soffermarsi sull’attimo che viene prima della creatività. Uno spazio dilatato. Una creatività che forse viene dall’alto. Dallo spazio. O che magari, invece, è dentro di noi» (R. Arbore). Suggestions From Space. Risponde. Deciso. Si torna al Piccinni. Ventagli e flash. C’è sound. La Mauro Gargano Reunionfeat. Bojan Z è schierata. Suggestivo il progetto. Ritorna Miles. Ritorna il tema del film. Ritorna l’intuizione registica. È un incontro di anime. Sono due lottatori. Il ring come il palco. Battling Siki. Miles Davis. E la boxe incontra il jazz. Il match è esplosivo. Un viaggio. Dal Senegal agli Stati Uniti, passando per Parigi. Ed è un romanzo. Tragicamente appassionato. Drammatico. Ma pulsa di vita. Un racconto fatto di frammenti, voci, suoni. Il pianismo di Bojan Z è straordinario, trascinante. E quando il testimone passa a Codja e alla sua chitarra è un’esplosione. Irradia. «Travaille avec la tête!», insinua la voce. E vola l’interplay Gargano – Bojan – Vignolò. Robusto, avvolgente, deciso e marcatamente rivelato. Gargano convince e rapisce. Magnetico, nella geometria delle linee e nella profondità dei colori. È un’intesa straordinaria, polarizzata dalla tromba di Gensane e dal sax di Itzquierdo. Smuove.

In piazza Ferrarese, intanto, c’è la bossa di Dario Skèpisi. L’atmosfera è vivace, frizzante. Ha i sapori dell’estate. E incoraggia l’incontro, la danza. C’è spazio per la tradizione e la «contaminazione», sottolinea Skèpisi. Basta un attimo. È Brasilia. È Bari. Il passaggio è naturale, disinvolto. Quasi i due mondi si appartenessero. Ed è una musica che parte dal cuore. Le lingue si sfiorano. Ed è un mélange accattivante. Rilassa e distende. Potere della musica. Suggestivo l’omaggio a San Nicola. La baresità viene fuori. Definitiva. Ed è una festa, da vivere. La samba si presta. E lo spettacolo si anima con le percussioni di Giacovelli. Carica e colora. Un attimo e si cambia scena. Dal brasil etno-jazz si vola al british blues. Ed è la forza dirompente dei Blues Breakers Renewed, progetto a firma Mike Zonno e Mimmo Bucci, a celebrare un album debordante, pietra miliare della storia del blues. Blues Breakers. L’anno era il 1966. L’hammond di Triggiani stilizza ora nuovi spazi. Non c’è spazio per commemorazioni malinconiche. Suona. E la voce di Paola Arcieri trascina, euforica. È da poco passata la mezzanotte.

Eliana Augusti

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BARI IN JAZZ live diary – 28 giugno 2011

Una mezz’ora appena, e anche per quest’anno Bari suonerà jazz. Giugno. Caldo, ma non troppo. Piazza Ferrarese è tutta uno struscio, come si dice dalle nostre parti. Trepida. C’è la fila dei bimbi al camioncino dei gelati. Prove di luci. I ragazzi al muretto si raccontano i primi sorrisi della vacanza. Soundcheck. Granita al limone. «Ma c’è un concerto?» Chiede una donna anziana al suo uomo d’una vita. Lui la guarda, con la stessa espressione di disapprovazione che magari le riserva quando il piatto è sciapo. «C’è il jazz!». Lui che ha letto i giornali, lo sa. Stasera, a Bari, c’è il jazz. Lo sanno tutti. L’entusiasmo di Ottaviano ha vinto ancora. E lo spettacolo è pronto. Anche quest’anno, nonostante i tagli alla cultura. «La vera forza di questi festival è la partecipazione del pubblico, il confronto tra vecchie e nuove generazioni, la progettualità degli artisti del nostro territorio in dialogo con quelli di altri contesti internazionali» (R. Ottaviano). E il BIJ prende le mosse proprio da qui, dal nostro territorio, dalla Puglia. Auditorium diocesano della Vallisa, la chiesa della purificazione, meglio nota come la “Raveddise”. «Il momento è taumaturgico».

Ottaviano consegna all’ascolto del pubblico il Gianni Lenoci Hocus Pocus Quartet. Un ingresso a schiaffo. Improvvisazione. Composizione. Chironomia. Una cartografia di emozioni (scrive Lenoci, citando Deleuze). È un polimorfismo dinamico. È un laboratorio timbrico permanente. «Dobbiamo accettare l’idea che non possiamo possedere la musica, possiamo solo esserne vittime felici» (G. Lenoci). I suoni piramidizzano. I drums di Mongelli sono liberatori. È una trance. Lenoci riempie, fitto. È una febbre. Il sax di Gallo diventa uno strumento nuovo, dove il soffio diventa voce, e la voce grido, e il grido di nuovo suono. Tutto è calibrato. L’effetto è destabilizzante, ma così ricco da sostenere. Feroce. Attacca e spaventa. Non accenna la sosta. È un moto perpetuo. Decomprime e, sfiancato, desiste. Stride. È Mongelli, che vibra il ride con l’archetto, mentre Lenoci pizzica le corde del suo piano. Ritorna il tema. Litanico. Indossa una maschera taurina. È drammaticamente buffo, e fa spavento. Un attimo e si cambia scena. È un melodismo caldo che evapora lento. Belli i contrasti tra gli spazi ampi del sax di Gallo e quelli angusti del pianismo di Lenoci. Si incontrano, in un unisono che armonizza e rompe, d’improvviso, le resistenze. Tutto è così spontaneo e così maniacalmente previsto. Cromatizza un’ascesa. Carica. Contrabbasso e batteria sostengono. È una processione. Sale ancora, mentre cascano, in uno stato quasi di trance, le sequenze di Lenoci. E l’arrivo non deflagra. Resta lì, nell’ovvietà di qualcosa che non può sorprendere, tant’è naturale. Ritorna l’elemento ostinato, quasi marziale. Registri gravi. Il basso di Gadaleta è lamentoso, è un latrato che stringe e riconsegna ad atmosfere tetre tutto il resto. Si gioca ancora col polimorfismo, ed è quasi un rāga. Straordinario effetto visivo, oltre che acustico. Calma e si ritorna alle sonorità dell’inizio, resta il ricordo dell’Oriente. Ipnotico. Il coinvolgimento è totale. È un viaggio della mente. Smorza. Cupo, di tuono lontano. Splendido il terzo intervento, che apre con l’assolo di Gadaleta. Lenoci è ricchissimo, debordante. È un virtuosismo che scorre, ramifica e si scompone, raggiungendo altitudini e direzioni imprevedibili e dannatamente perfette. Bel swing. Il sincopato diverte e crea il giusto spazio al protagonismo di Gallo. Avvincente il disegno. Si sperimenta ancora. Si gioca con gli armonici. L’intro è geniale. Surreale. Libere dagli smorzi, le corde del piano di Lenoci simpatizzano coi richiami di Gallo. È un gioco di voci. È una corrispondenza lontana. C’è qualcuno che risponde, di là. C’è un universo dentro. Bellissimo. Cambio.

Qualche centinaio di metri e si apre un nuovo set. Teatro Piccinni. Tomasz Stanko e il suo Nordic Quintet sono pronti, ad un passo dalla scena. Intensa presentazione di Ottaviano, e si comincia. Il suono della tromba di Stanko è irrimediabilmente caratterizzato. Lirico. Morbido. Carezzevole. Le atmosfere dell’intro disperdono, si disperdono. Eco. É un minimal che solca e percorre. Silenzioso. Pulsante, quasi nervoso il basso elettrico di Christensen. Quello che si avverte, subito, è un’attenzione ossessiva alla linea. Distesa. Morbidamente adagiata. Il piano di Tuomarila è lì, sempre presente, discreto, statico. Non c’è protagonismo. Solo la linea del maestro. Luminosa. Il resto viaggia di sfondo, in sordina. Non c’è esasperazione, non c’è picco. Non c’è trasporto. Soffoca. Tutto è un racconto a mezza voce. Louhivuori crea spazi percussivi prismatici che restano vuoti. S’abbassano le luci, e ora è il basso di Christensen a narrare. L’ascolto si fa muto. Buio. I ribattuti tentano una tensione che non arriva. Innocuo. C’è una campana di vetro. Ovatta. Spegne. Un sound quasi annoiato e stanco. O forse c’è dell’altro. Mi viene da pensare. Tenta la breccia la chitarra di Bro, lavora di profondità. È una lama sottile. Fende. Un attimo, e intravedo la risposta. Dietro quel jazz di velluto, che scorre liscio e morbido al tatto, quasi soporifero, si avverte l’attesa. È come se tutto si svolgesse sotto la mano di qualcosa di più forte, di più grande. Visionario. Si crea un nuovo ambiente, un campo emozionale che tenta la fuga. Ha gli occhi sgranati, rivolti al cielo. Ma è ad un passo da quel cielo che, razionale, torna la tromba di Stanko. Raccoglie e riconsegna al sottocute il tentativo di fuga. La risposta. È come se tutto avvenisse in secondo piano. A voler celebrare una presenza, quella di Miles. Miles lives, impera il sottotitolo dell’edizione 2011 del BIJ. Ecco. Forse il momento taumaturgico si sta svolgendo ora. Celebrativo. È nel pensiero celebrativo si alza, devota, una preghiera. Intensa. Viva. Nuova. Ci riesce il piano di Toumarila, sostenuto con fede dal basso e dai drums. Ci riesce Stanko che raccoglie, ancora coerente, a mani giunte. Commemora la chitarra di Christenson. Semplice. Dolce. Calda. Vagamente blues. È un ricordo sfilacciato, ricucito di swing dalla magistrale tromba di Stanko. Piano, e quasi dei timpani. Chiude funereo. È un’altra dimensione quella che creano basso e chitarra. È fortissima la sollecitazione. Spettrale. Miles vive. Risveglio.

Mentre di là nel Piccinni si commemora e le atmosfere sono nostalgiche e intimiste, in piazza Ferrarese si scatena la festa. Hammond fronte al pubblico. Non ci sono trucchi. Tutto si crea sotto gli occhi trepidanti di un pubblico che vuole divertirsi. Taylor sa come fare. È immediato, e il suo stile è quello d’un trascinatore. Un animale da palcoscenico. Un attimo e riesce ad animare una piazza intera che lo cerca, lo aspetta e lo incontra in uno «Yessss!!» lunghissimo. Tutti sono pronti. «Are you ready for this?». È il richiamo. Ed è un battito di mani che corre dalla prima fila ai corridoi dei locali e accoglie in un abbraccio le migliaia di persone che tra ombrelloni rossi e bicchieri di birra vivono lo spettacolo di piazza Ferrarese. Lei è splendida, la black lady del James Taylor Quartet. Infiamma e consola. Taylor è divertente e trascinante, anche quando riesce a far intonare ad una piazza intera un inaspettato Happy Birthday. È un gioco che non stanca. È un tripudio di colori. Incandescente. È acid. È rock. Detona. Il pubblico va in visibilio. Il «corto circuito» (R. Ottaviano) è innescato. Definitivo. Chissà se era questo il jazz che aveva in mente il vecchietto di qualche ora fa. Mezz’ora a mezzanotte. E la festa continua.

Eliana Augusti

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Live Report: Stewart Copeland alla Casa del Jazz

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Ci sono musicisti che anche con il passare del tempo rimangono sempre gli stessi, magari con qualche capello bianco di troppo, ma con la stessa grinta e voglia di esibirsi che sembra quasi appartenere agli adolescenti. Tra questi c’è Stewart Coplend, storico batterista dei Police, che venerdì scorso abbiamo avuto modo di vedere alla Casa del Jazz, in questa splendida cornice che per una notte ha messo da parte il Jazz per “ospitare” un evento molto particolare. E mentre il Sole sta per tramontare, in un venerdì ancora scandito dal traffico cittadino, mentre gli ultimi ritardatari cercano di trovare un improbabile parcheggio molto lontano dal luogo del concerto, davanti al botteghino c’è una fila che sembra non finire mai, tipica di quei concerti che richiamano un gran numero di fan. Entriamo, allora, nel vivo di questo racconto; la pima cosa che possiamo dire è che quello di venerdì non è stato un vero e proprio concerto, ma forse la celebrazione di un personaggio affascinante ed intelligente che ha suonato nelle arene più grandi del mondo, con uno dei gruppi più famosi al mondo, davanti a centinaia di migliaia di persone. 

Usiamo la parola “celebrazione” non a sproposito, perché il concerto di Stewart Copeland non comincia proprio subito. Dopo una breve esibizione del “Copeland Junior”, con i suoi Hot Head Show, infatti, la serata entra nel vivo ed il batterista dei Police, che dopo tanti anni sembra ancora agile come una gazzella, sale sul palcoscenico della Casa del Jazz presentato da Gino Castaldo e Vittorio Cosma. E la prima parte di questa serata ha inizio con la presentazione, fatta tramite intervista, della biografia di Stewart Copeland, “Strange Things Happen”, libro pubblicato da Minimum Fax in cui questo musicista, in maniera forse estemporanea, ripercorre la sua vita e alcune delle sue tappe fondamentali. Da qui vi raccontiamo un aneddoto divertente della serata. La presentazione del libro viene, infatti, accompagnata da alcuni video e in uno di questi Stewart Copeland, probabilmente per girare uno spot pubblicitario, si trova in sella ad un cavallo in mezzo a delle giraffe: “Ci sono voluti tre giorni per girare quei 20 secondi” confessa ridendo davanti al pubblico e raccontando che il cavallo aveva una paura folle degli animali selvatici… Giraffe comprese. Insomma, questa prima parte della serata se ne vola via così, con un batterista che scopriamo essere un intrattenitore anche seduto su di una poltrona piuttosto che su di uno sgabello con il sedile rotondo.

Quindi, al termine di questa breve intervista Stewart saluta per un momento il pubblico, che per la verità stava anche cominciando a sbuffare un po’ per la lunga attesa, ed esce dalla scena per prepararsi a suonare. Pochi minuti ed il concerto vero e proprio comincia. La line-up è composta da  Vittorio Cosma (purtroppo per lui un braccio ingessato), Armand Sabel Lecco, Cesare “Mac” Petricich e Giovanni Imparato; il sound da loro proposto è un misto di rock, reggae, musica popolare, forse salentina, condito da una chiara matrice mediterranea. Sonorità che forse Copeland ha interiorizzato nei suoi lunghi periodi di permanenza in Italia e che ora ripropone attraverso questa nuova formazione. Come special guest della serata si sono alternati sul palcoscenico John de Leo, ex cantante dei Quintorigo, Max Gazzè che per l’occasione ha cantato Don’t box me in dei Police (in un modo che non possiamo di certo definire impeccabile) e Niccolò Fabi che si è cimentato con Does everyone stare. Una performance nel complesso piacevole che, tuttavia, è durata per circa tre quarti d’ora, lasciando gran parte dei fan, che si aspettavano di ascoltare i bani più famosi dei Police, con un po’ di amaro in bocca. Rimane sempre il fatto che la location in cui si è svolto l’evento è la Casa del Jazz, che per noi rimane sempre un luogo accogliente e affascinante, specie quando la bella stagione è ormai sopraggiunta.

Carlo Cammarella

Foto di marco Trombetta

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Live Report: Vito Favara presenta Even If al Be Bop Jazz Club

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Di giovani talenti che meriterebbero di avere maggiore spazio nel panorama jazzistico capitolino ce ne sono davvero tanti. Fra questi abbiamo il piacere di segnalarvi un giovane musicista siciliano, ormai trapiantato a Roma da un bel po’ di tempo, dal nome Vito Favara. Un pianista originale e virtuoso che venerdì scorso abbiamo avuto modo di ascoltare nel rinnovato Be Bop, un luogo centrale per il jazz romano che dà anche molto spazio ai giovani talenti che forse meriterebbero più attenzione. Ad accompagnare questo ragazzo siciliano, che armato di tanta passione ha girato l’Europa per poi trapiantarsi nella nostra città, c’erano due veterani del Jazz romano: Francesco Puglisi al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria. Dunque, un trio, la formazione che per eccellenza mette in risalto le potenzialità del pianoforte e che attraverso l’essenzialità, secondo noi, raggiunge la perfezione e la giusta stabilità fra ritmo e melodia.

E il concerto comincia sotto le note di “Even If” title track di un album che un orgoglioso Vito Favara ha presentato la sera stessa al pubblico presente. In questo brano, che ha dato il via ad un concerto veramente molto piacevole, abbiamo avuto modo di ascoltare come un giovane musicista, che di talento ne ha da vendere, riesca a giocare con questo strumento, passando dalle costruzioni armoniche, fatte da accordi ascendenti e discendenti, ad assoli velocissimi e musicali. E forse sta proprio qui l’originalità di Vito Favara, nel saper giocare con questo strumento, nel non prendersi troppo sul serio e nel divertirsi a cambiare l’intensità del brano che viene suonato, in questo caso di chiara matrice Even 8. Ma se un concerto comincia in un modo, non è detto che non sia possibile cambiare registro. E così c’è anche il tempo per uno standard, ‘Il Fascio Blues’ che ci fa viaggiare per un po’ nelle atmosfere degli anni ‘50 a tempo di swing. Un ritmo incalzante, divertente, a tratti arrembante, che ci fa pensare alle pellicole in bianco e nero e al fascino di un’epoca che ci ha lasciato un retaggio musicale davvero importante.

Ma sono i pezzi originali quelli più intriganti della serata. Nella composizione Peace for Peace, il brano che senza dubbio ci ha colpito di più, esce fuori tutta l’originalità del Vito Favara compositore. Un brano malinconico, dal sapore (secondo noi) latineggiante in cui spicca la sensibilità di un musicista attento (e brillante allo stesso tempo) e in cui c’è anche il tempo per invertire un po’ le carte in tavola. Per un breve istante, infatti, mentre il contrabbasso esce fuori tenendo la linea melodica, il pianoforte fa da supporto armonico, generando una piacevole sensazione di intimità e rilassatezza. E prima che finisca il primo set c’è anche il tempo ascoltare un brano in ¾, White Flowers, in cui la pulsazione della batteria viene accompagnata da assoli velocissimi e da rapide armonizzazioni. A fotografare l’attimo ci pensa la luce del locale che piano piano si abbassa generando un’atmosfera calda e accogliente che ben accompagna il brano che conclude questa prima sessione del concerto.

Il secondo set prosegue sempre con la stessa filosofia, dando ai singoli lo spazio che meritano, e offendo al pubblico presente tutta la passionalità e la raffinatezza che, unite al giusto tocco musicale, trasmettono emozione e voglia di stupire. E il concerto scorre veloce, leggero e intimo, fino all’ultima immagine che il pianoforte di Vito Favara disegna davanti ai nostri occhi, rendendoci contenti di aver potuto osservare dal vivo un pianista che sicuramente troverà il giusto spazio nel panorama capitolino.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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“Live Report: Il battesimo” del Daniele Pozzovio Trio alla Casa del Jazz

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Tra i giovani talenti dell’attuale scena jazzistica capitolina Daniele Pozzovio, che martedì 10 maggio ha presentato il suo nuovo progetto in trio alla Casa del Jazz, emerge per la sua “gavetta”. Romano classe ’77, si diploma presso la Saint Louis Jazz academy di Roma nel 1996 e al conservatorio di Frosinone nel 2000 con il massimo dei voti. Nello stesso anno frequenta i seminari del Berklee College of music di Boston; conseguendo un riconoscimento alla carriera ed una borsa di studio per la Berklee university, per poi suonare in diverse edizioni di Umbria Jazz. Compone ed esegue al pianoforte le colonne sonore di film appartenenti alla storia del cinema muto, tra i quali: MetropolisL’Inferno del dott. Mabuse di Fritz Lang, il Gabinetto del dott. Caligaridi R.Wiene, l’Uomo con la macchina da presa di D.Vertov, alcuni cortometraggi dei fratelli Lumiere, il viaggio sulla luna di G.Melies, commissionate dall’istituto di cultura tedesca a Roma. Nel 2001realizza un omaggio a Man Ray: una performance di arte realizzata insieme a delle installazioni di pittura elettronica e musica, in collaborazione con Alfredo Anzellini. Nella sua carriera ha collaborato con musicisti come Bruno TommasoGiovanni TommasoStefano TagliettiStefano BollaniRamberto Ciammarughi,Massimo ManziAldo Bassi Gabriele Coen. Nel 2003fonda insieme ad Alvise Seggi l’Arteval TrioScrive nel 2003 quattro colonne sonore realizzate per la rubrica di Rai-educational Il mosaico su delle animazioni per bambini tratte da 4 favole di Alberto Moravia, oltre a diverse collaborazioni con Rai 3. Collabora con l’Istituto superiore di fotografia (2004) per la realizzazione di un seminario di tre appuntamenti sul cinema espressionista tedesco, realizzando tre colonne sonore per il FaustMetropolis ed il Gabinetto del dott. Caligari. Fonda insieme a Leonardo Cesari Max Ottaviani l’Organic Trio, con il quale suona subito al Circolo del Ministero degli esteri. Nasce da qui il progetto Tenco 2005 con Raffaela Siniscalchi cantante di Nicola Piovani. 

Trampolino di lancio per il Trio di Daniele Pozzovio (Daniele Pozzovio al piano, Giorgio Rosciglione al contrabbasso e Andrea Nunzi alla batteria) è, come dicevamo, l’importante “vetrina” della Casa del Jazz, che porta a battesimo questa nuova formazione, come lo stesso Daniele ci racconta: “Con Giorgio suoniamo insieme da una decina di anni. Tra le diverse esperienze fatte assieme c’è anche la creazione di un festival. È un rapporto più duraturo e continuo. Anche Andrea lo conosco da 10 anni, ma sono state minori le opportunità per suonare con lui. Era tanto che volevo farlo però, quindi questa è stata l’occasione… Ed eccoci qua! In pratica il trio nasce stasera. Questo concerto è inoltre il preambolo al disco che pubblicherà la Casa del Jazz e che registreremo a luglio durante l’evento di Villa Celimontana”. Il repertorio esplora un po’ tutte le sfaccettature del jazz classico: “Più vado avanti più mi lego alla tradizione. Sto facendo un back molto forte verso il materiale degli anni ’40-’50”; purtroppo con l’assenza, per questioni tecniche, dei brani originali: “L’esigenza di portare avanti brani originali è forte. Oltre che dal mio background classico, traggo ispirazione molto dai i musicisti con cui lavoro, che mi consigliano anche”. La sua (giusta) “arroganza musicale” contrasta con un’estrema timidezza, che lo porta a sedere di spalle al piano quasi a voler sfuggire agli sguardi e alle lodi del pubblico. Eppure lo si riscopre scenografico e fiero nell’esibizione finale al piano solo, in cui dà un’alta dimostrazione della sua bravura. Rosciglione, come sempre maestrale, fa un po’ da guida e un po’ da tramite tra il pubblico e Pozzovio. Il concerto risulta fitto e incalzante, nel susseguirsi dei brani come nei gesti dei musicisti stessi, tenendo tutti col “fiato sospeso” fino alla fine. Decisamente meritevole la formazione e l’intera serata, immeritata la sala semivuota!

Serena Marincolo

foto di Valentino Lulli

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Live Report: La varietà dei jazz4U al 28divino

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La sera di venerdì al 28Divino Jazz si caratterizza per la forte componente di “varietà”. Vario è il pubblico, varie sono le melodie proposte e varia è la scelta dei brani. Ci troviamo di fronte ai “jazz 4U” diretti dalla batteria di Cesare Botta, il delicato contrabbasso di Enzo Bacchiocchi, armonizzati dal piano di Francesco Bignami e dalla chitarra di Marco Moro. Il gruppo è ormai noto sulle scene romane da alcuni anni e propone una scelta musicale basata su una mistione di standard jazz, condito con blues e swing. Il concerto si apre con atmosfere leggere e riflessive che portano l’ascoltatore a concentrarsi su ogni singolo membro del gruppo, ad essere rapito dal movimento armonico delle dita sulla tastiera, dalla rapidità degli accordi della chitarra, mentre la batteria rimane la base sulla quale il contrabbasso muove la sua sinfonia. 

Durante la serata la varietà delle scelte geografiche è sicuramente molto accattivante e rapisce l’attenzione. I brani spaziano dai classici del panorama americano fino a giungere alle melodie sud americane e brasiliane, il tutto accompagnato da una selezione di brani inediti del gruppo, che mettono in risalto le qualità dei singoli elementi. L’aria che si respira è molto piacevole e non ci si accorge del tempo che passa. In chiusura il gruppo si congeda con il noto brano “ooo aria aio oba oba” e si presta volentieri a parlare con il pubblico, mostrando il lato più familiare della serata. Quello che stupisce di questo quartetto è sicuramente la totale armonia degli elementi; sul palco sembrano divertirsi talmente tanto che lo spettatore rimane coinvolto non solo dai suoni, ma anche dall’affiatamento tra gli elementi. Inoltre il locale si presta benissimo ad un’atmosfera raccolta e familiare: luci soffuse e di colore rosso rendono il tutto molto privato e intimo, nonostante la sala del concerto non sia poi di dimensioni così modeste. Ci auguriamo di sentire nuovamente questo spontaneo quartetto in serate così piacevoli!

Laura Orlandi           

Foto di Valentino Lulli

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Live Report: Lorenzo Tucci Trio – un esordio al Music Inn

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Seguire un concerto in un jazz club è sempre un’esperienza particolare. C’è sempre una forte intimità (o empatia se preferite) fra pubblico e musicisti e c’è sempre l’occasione di osservare tante cose che in un altro tipo di locale sarebbe più difficile notare. Dai semplici sguardi di intesa che potrebbero scambiarsi un bassista e un pianista prima di passare da un assolo al tema principale, dai sussurri con cui alcuni musicisti accompagnano il suono dello strumento, dalle contrazioni dei muscoli che avvengono quando un batterista percuote il suo strumento. Questa atmosfera l’abbiamo percepita in pieno sabato scorso alMusic Inn, storico locale di Roma che, con nostra grande gioia, ha da poco riaperto i battenti.

E nella serata di cui vi stiamo per parlare, in questa splendida cornice situata nel centro di Roma, hanno suonato dei giovani musicisti che, armati di tanto talento e voglia di fare, hanno voluto cimentarsi con uno dei mostri sacri del Jazz, John Coltrane. Il progetto si chiama per l’appunto Tranety, un gioco di parole che deriva proprio da Trane, soprannome che gli amici davano a questo sassofonista geniale. E i musicisti di cui vi stiamo per parlare, invece, sono tre: Lorenzo Tucci, batterista e leader di questa formazione, Claudio Filippini al pianoforte e Luca Bulgarelli al contrabbasso, tutti giovanissimi, affiatati e ansiosi di cimentarsi in un progetto così coraggioso affidandosi proprio ad un trio, formazione essenziale, ma perfetta ed autosufficiente.

Insomma, un tuffo nell’universo di Coltrane! Così possiamo descrivere un concerto che fin dai primi brani ci ha fatto capire lo stile deciso con cui Lorenzo Tucci e il suo trio hanno affrontato la serata. Un’empatia perfetta che abbiamo compreso fin da subito grazie al ritmo incalzante, alla velocità di esecuzione, alla sincronia perfetta con cui sono stati riproposti brani come Moment’s Notice, Lonnie’s Lament, oppure Afro Blue, scritto da Mongo Santamaria, suonato spesso da Coltrane e riprodotto in maniera eccellente con ampio spazio all’improvvisazione. C’è tempo anche per alcuni brani inediti di Lorenzo Tucci, come Hope e Soltice e per una struggente Ivre in Paris di Claudio Filippini; c’è tempo anche per ascoltare un gioiellino come Over The Rain e per raccontare la storia di John Coltrane con musica e parole.

Ascoltando Cousin Mary, infatti, brano che il sassofonista ha dedicato alla cugina e che Lorenzo Tucci ha presentato personalmente al pubblico, noi, con un po’ di fantasia, ci siamo immaginati un ragazzo tenace seduto su uno sgabello con davanti uno spartito aperto. Un ragazzo che studia fino a tarda sera e che vuole a tutti i costi suonare davanti ad un pubblico che prima o poi lo adorerà, proprio come il trio di Lorenzo Tucci che di voglia di stare su di un palcoscenico ne ha veramente tanta. E forse questa musica martellante che sembra non fermarsi mai, che sfocia nell’improvvisazione e che si risolve spesso in ritmi incalzanti e sincopati, per un momento ci ha trasportato con la mente da un’altra parte, in un’altra epoca, o in un altro continente… Magari quando John Coltrane suonava nei locali più in dell’epoca deliziando il pubblico con quello stile innovativo che tutti gli amanti del Jazz a posteriori ricorderanno per sempre.

Carlo Cammarella  

Foto di Valentino Lulli

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