Jazz Agenda

Nugara Trio, Point of Convergency: “Un punto di incontro per sperimentare ed esprimere la diversità”

Un disco variegato, dalle mille sfaccettature in cui confluiscono diversi linguaggi che partono dalla musica classica e romantica, fino a raggiungere il folk, la world music e anche il pop. In questo modo possiamo riassumere Point of Convergency, primo album del Nugara Trio, prodotto da GleAM records, formato da Francesco Negri al piano, Viden Spassov al contrabbasso e Francesco Parsi alla batteria con special guest la straordinaria violinista Anais Drago. Ecco il racconto della band su Jazz Agenda.

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: vi va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Quando ci chiedono di descrivere il disco, ci piace proporre all'ascoltatore di usare l'immagine di una semplice figura geometrica: immaginate di tracciare delle linee a partire dai vertici di un triangolo che si innalzano verso l'alto, intersecandosi in un unico punto, e ricreando, di fatto, una piramide. Immaginate che ogni linea porti con sé un bagaglio fatto di esperienze, musicali in primis, ma anche culturali ed esistenziali, ed ognuna formi e contraddistingua un individuo unico nel suo genere, rendono l'apice della piramide un fertile punto di incontro dove poter sperimentare ed esprimere la diversità di tali individui, stimolando il confronto e la creatività. E' una descrizione un po' evocativa ma secondo noi efficace, che mette in focus il concetto del disco. Per essere più pragmatici “Point of Convergency” è l'unione di tre musicisti, ognuno con il proprio background e la propria storia, che hanno riversato le proprie idee musicali senza porsi limiti di nessun tipo; nel disco sentirete influenze tratte dalla musica classica e romantica, dal folk e dalla world music, il pop, il progressive rock e ovviamente il jazz, vero catalizzatore in grado di chiudere il cerchio. Ci siamo divertiti a confrontarci e a metterci in gioco, a volte anche scontrandoci, ma trovando sempre un punto di incontro che rende il disco vivo e mai banale.

Raccontateci adesso la vostra storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

Ci siamo conosciuti nell'estate del 2021 ai Seminari di Nuoro Jazz, quando siamo stati premiati con le borse di studio destinate ai migliori studenti. E' stata un'edizione particolare per via delle restrizioni sanitarie del Covid e di fatto, ci siamo incontrati solo l'ultimo giorno alle premiazioni. Non ci conoscevamo, ognuno veniva da una città diversa dell'Italia (addirittura Francesco P. studia durante l'anno in Olanda) e ci dissero: “Ok ragazzi, adesso siete un gruppo, ci vediamo tra un anno e ci farete sentire cosa avete combinato”. È stata veramente una sorpresa, considerando il fatto che dal tenere un solo concerto a Nuoro, la faccenda si è evoluta ben oltre le nostre aspettative. Abbiamo cominciato a lavorare nonostante le difficoltà logistiche date dalla distanza; abbiamo trovato i primi concerti con tanto di qualche premio a qualche concorso, vinto un bando Nuovo Imaie che ha finanziato il disco, conosciuto una fantastica persona come Angelo Mastronardi di Gleam Records che ha creduto in noi e guardiamo al futuro con entusiasmo e voglia di suonare la nostra musica!

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per voi cosa rappresenta?

E' il nostro disco di debutto quindi ti direi che tutti e tre vediamo questo lavoro come un punto di partenza si spera, anche se non ti nascondiamo che è anche un bel traguardo che ci rende orgogliosi per la determinazione che abbiamo avuto nel credere nel progetto e in noi.

Se parliamo dei vostri riferimenti musicali cosa vi viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Visto la natura del progetto è davvero complesso fare una lista di nomi. Non essendoci un band leader vero e proprio e non avendo posto limiti artistici o di genere, ognuno di noi tre ha i propri musicisti di riferimento che lo hanno influenzato nella scrittura e nell'arrangiamento dei brani e citarli tutti sarebbe davvero fare un bel calderone di bella musica che va dal jazz, alla musica classica, alla musica balcanica, al rock alternativo.

Come vedete il vostro progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla vostra musica?

Al momento siamo molto concentrati sul presente, il disco è appena uscito e siamo entusiasti nel poterlo suonare il più possibile, anche perché scopriamo sempre nuove soluzioni o nuove idee nel proporre i brani che abbiamo scritto. Non sempre è facile perché la maggior parte delle composizioni contengono arrangiamenti complessi e ben strutturati ed è un attimo basarsi su automatismi che funzionano e sono “sicuri”. Cerchiamo sempre di dare qualcosa di nuovo soprattutto nei momenti più legati all'interplay e all'improvvisazione; piccole idee, che ci scambiamo ed elaboriamo quando suoniamo; alcune funzionano, altre meno ma è sicuramente un modo valido che abbiamo per tenere sotto esercizio la nostra creatività oltre che rendere la musica che suoniamo fresca e viva. Per il futuro più lontano vedremo, come detto il disco rappresenta un punto di partenza, e non ci dispiacerebbe scrivere qualcosa oltre la formazione in trio, coinvolgendo altri musicisti, un po' come abbiamo già fatto con la featuring di Anais Drago in due brani del disco. Lei è stata fantastica, e noi ci siamo tanto divertiti nell'avere uno strumento in più che arricchisse le nostre composizioni.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: avete qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Abbiamo un paio di concorsi durante l'estate ma il grosso arriverà in autunno con il tour di promozione del disco che stiamo allestendo. Per adesso possiamo annunciare una serie di date all'estero finanziate dal bando Jazz ITAbroad di Music Italia Export che ci vedrà impegnati in alcuni clubs in Spagna, Inghilterra, Germania, Austria e Bulgaria. Si parte da Cadiz il 22 settembre, nel sud della Spagna e toccheremo città tra le quali Madrid, Berlino, Manchester, Sofia, Vienna ed altre ancora. Insomma ci aspettiamo un bel tour europeo che non vediamo l'ora di iniziare.

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Mariano Colombatti e il nuovo disco Fly Down: un progetto trasversale tra fusion e black music

Pubblicato nel giugno del 2019, Fly Down è il disco d’esordio del chitarrista Mariano Colombatti uscito per l’etichetta Emme Record Label. Parliamo di un lavoro trasversale, contemporaneo dove fusion e black music si fondono in un minimo comun denominatore. Completano la formazione attuale Marco Zago al pianoforte, tastiere, synth, Alberto Zuanon al contrabbasso e basso elettrico ed Alessandro Arcolin alla batteria: hanno partecipato alla realizzazione del disco anche Federico Cassandro alla batteria e la vocalist Valentina Frezza, presente solo nel brano Another Mistake. Mariano Colombatti ha raccontato questo progetto a Jazz Agenda…

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Si tratta di un album di miei composizioni nate nel corso degli anni immediatamente precedenti alla pubblicazione. Gli arrangiamenti sono frutto di quello che possiamo considerare uno sforzo congiunto, tanto che poi il risultato finale è stato un po’ diverso da come me lo ero immaginato inizialmente, per via delle personalità diverse coinvolte nella realizzazione. A grandi linee rispecchia il mio interesse verso alcune aree del jazz e dalla musica contemporanea, dalla fusion all’hip hop.

Raccontateci adesso la tua storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

È nato all’interno del Conservatorio di Rovigo, dove siamo o siamo stati tutti studenti. Inizialmente era un gruppo di studio di musica di insieme, poi trasformatosi in un laboratorio dove portare le proprie composizioni per suonarle insieme agli altri. Ci sono stati alcuni cambiamenti nella formazione rispetto all’inizio, e alla fine sono rimasti sul piatto solo i miei pezzi, che ho deciso quindi di trasformare in un album vero e proprio. Attualmente la formazione che vede me alla chitarra, Marco Zago al piano e tastiere, Alberto Zuanon al contrabbasso e basso elettrico e Alessandro Arcolin è quella che possiamo considerare definitiva e stabile. Al disco hanno collaborato anche Valentina Frezza alla voce, per un brano dedicato a Marco Tamburini, di cui io, lei e Marco Zago siamo stati allievi. La maggior parte dei brani nel disco è stato suonato alla batteria da Federico Cassandro, mentre Arcolin ha registrato solo la traccia “Inlays”, per poi subentrare come membro stabile, per questioni prettamente stilistiche. Ci siamo allontanati sempre più ritmicamente dal jazz più tradizionale, e Alessandro si sposa perfettamente con questa visione.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Sicuramente un punto di partenza. È stato il primo lavoro dove mi sono occupato un po’ di tutto, composizione, arrangiamento, produzione, trovare le persone per farlo, curare l’aspetto grafico. Ci sono molte cose che rifarei allo stesso modo e altre che farei in modo totalmente diverso, come succede sempre. Il mio obbiettivo è fare tesoro degli aspetti positivi e anche di quelli negativi in modo da lavorare in maniera più efficace nei dischi futuri. Questo disco rappresenta l’esordio, la strada è lunga.

Se parliamo dei tui riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Ce ne sono molti, sicuramente siamo molto appassionati della scena jazz e fusion più contemporanea: artisti come Snarky Puppy, Robert Glasper, Aaron Parks, Tigran Hamasyan, e molti altri, musicisti anche molto diversi fra loro, nei quali vediamo il jazz come radice comune. Io sono avido ascoltatore anche di tutto ciò che sento vicino all’estetica della black music, anche se non classificabile come jazz. Molti artisti della scena hip hop come Kendrick Lamar, il filone del neo-soul, penso a Hiatus Kaiyote, Knower, Isaiah Sharkey, Tom Misch. Sono sempre alla ricerca di nuovi ascolti.

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

Questo quartetto lo vedo come il luogo dove poter portare la mia musica e svilupparla in maniera più intima. Per quanto possa subire le influenze di quello che ascolto, in questo contesto credo che resterò legato a un idea di arrangiamento e performance più vicina al jazz e al quartetto jazz. Alcuni brani saranno più fusion, altri più rock, altri più jazz ma la vedo una dimensione più raccolta rispetto ad altri contesti a cui mi sto dedicando.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Alcuni concerti in arrivo per l’estate, e una registrazione molto importante per me: si tratta di un lavoro per un organico esteso, nel quale confluiscono idee provenienti da più persone, un vero collettivo, diverso quindi dalla forma in quartetto che è il mio personale spazio. Sono molto eccitato per quello che sta nascendo in questi mesi, e di collaborare con musicista capaci di portare idee davvero stimolanti.

Pubblicato nel giugno del 2019, Fly Down è il disco d’esordio del chitarrista Mariano Colombatti uscito per l’etichetta Emme Record Label. Parliamo di un lavoro trasversale, contemporaneo dove fusion e black music si fondono in un minimo comun denominatore. Completano la formazione attuale Marco Zago al pianoforte, tastiere, synth, Alberto Zuanon al contrabbasso e basso elettrico ed Alessandro Arcolin alla batteria: hanno partecipato alla realizzazione del disco anche Federico Cassandro alla batteria e la vocalist Valentina Frezza, presente solo nel brano Another Mistake. Mariano Colombatti ha raccontato questo progetto a Jazz Agenda…

Per cominciare l'intervista parliamo subito del disco: ti va di descriverlo brevemente ai lettori di Jazz Agenda?

Si tratta di un album di miei composizioni nate nel corso degli anni immediatamente precedenti alla pubblicazione. Gli arrangiamenti sono frutto di quello che possiamo considerare uno sforzo congiunto, tanto che poi il risultato finale è stato un po’ diverso da come me lo ero immaginato inizialmente, per via delle personalità diverse coinvolte nella realizzazione. A grandi linee rispecchia il mio interesse verso alcune aree del jazz e dalla musica contemporanea, dalla fusion all’hip hop.

Raccontateci adesso la tua storia: come è nato questo progetto e come si è evoluto nel tempo?

È nato all’interno del Conservatorio di Rovigo, dove siamo o siamo stati tutti studenti. Inizialmente era un gruppo di studio di musica di insieme, poi trasformatosi in un laboratorio dove portare le proprie composizioni per suonarle insieme agli altri. Ci sono stati alcuni cambiamenti nella formazione rispetto all’inizio, e alla fine sono rimasti sul piatto solo i miei pezzi, che ho deciso quindi di trasformare in un album vero e proprio. Attualmente la formazione che vede me alla chitarra, Marco Zago al piano e tastiere, Alberto Zuanon al contrabbasso e basso elettrico e Alessandro Arcolin è quella che possiamo considerare definitiva e stabile. Al disco hanno collaborato anche Valentina Frezza alla voce, per un brano dedicato a Marco Tamburini, di cui io, lei e Marco Zago siamo stati allievi. La maggior parte dei brani nel disco è stato suonato alla batteria da Federico Cassandro, mentre Arcolin ha registrato solo la traccia “Inlays”, per poi subentrare come membro stabile, per questioni prettamente stilistiche. Ci siamo allontanati sempre più ritmicamente dal jazz più tradizionale, e Alessandro si sposa perfettamente con questa visione.

Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?

Sicuramente un punto di partenza. È stato il primo lavoro dove mi sono occupato un po’ di tutto, composizione, arrangiamento, produzione, trovare le persone per farlo, curare l’aspetto grafico. Ci sono molte cose che rifarei allo stesso modo e altre che farei in modo totalmente diverso, come succede sempre. Il mio obbiettivo è fare tesoro degli aspetti positivi e anche di quelli negativi in modo da lavorare in maniera più efficace nei dischi futuri. Questo disco rappresenta l’esordio, la strada è lunga.

Se parliamo dei tui riferimenti musicali cosa ti viene in mente? Ci sono degli artisti, noti o anche meno noti, che per voi sono stati davvero importanti?

Ce ne sono molti, sicuramente siamo molto appassionati della scena jazz e fusion più contemporanea: artisti come Snarky Puppy, Robert Glasper, Aaron Parks, Tigran Hamasyan, e molti altri, musicisti anche molto diversi fra loro, nei quali vediamo il jazz come radice comune. Io sono avido ascoltatore anche di tutto ciò che sento vicino all’estetica della black music, anche se non classificabile come jazz. Molti artisti della scena hip hop come Kendrick Lamar, il filone del neo-soul, penso a Hiatus Kaiyote, Knower, Isaiah Sharkey, Tom Misch. Sono sempre alla ricerca di nuovi ascolti.

Come vedi il tuo progetto nel futuro? In sintesi quali potrebbero essere le evoluzioni legate alla tua musica?

Questo quartetto lo vedo come il luogo dove poter portare la mia musica e svilupparla in maniera più intima. Per quanto possa subire le influenze di quello che ascolto, in questo contesto credo che resterò legato a un idea di arrangiamento e performance più vicina al jazz e al quartetto jazz. Alcuni brani saranno più fusion, altri più rock, altri più jazz ma la vedo una dimensione più raccolta rispetto ad altri contesti a cui mi sto dedicando.

Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?

Alcuni concerti in arrivo per l’estate, e una registrazione molto importante per me: si tratta di un lavoro per un organico esteso, nel quale confluiscono idee provenienti da più persone, un vero collettivo, diverso quindi dalla forma in quartetto che è il mio personale spazio. Sono molto eccitato per quello che sta nascendo in questi mesi, e di collaborare con musicista capaci di portare idee davvero stimolanti.

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Donatella Luttazzi canta Lelio Luttazzi al Teatro Arciliuto: il racconto dello spettacolo

Un concerto dedicato al grande Lelio Luttazzi, dove non mancheranno grandi successi della canzone italiana in bianco e in nero. Venerdì 6 dicembre presso il Teatro Arciliuto Donatella Luttazzi, figlia del grande showman e musicista italiano, e Le Zebre a Pois si cimenteranno con un repertorio composto dai più grandi successi del padre affiancato da brani meno conosciut. Donatella in persona ci racconta come si svolgerà questo spettacolo musicale, non senza ricordare il genio del grande Lelio Luttazzi.

Donatella per cominciare l’intervista parliamo proprio dello spettacolo delle Zebre A pois che si terrà all’Arciliuto il 6 dicembre. Porterete in scena brani più e meno noti di tuo padre, Lelio Luttazzi: ci vuoi dare qualche dettaglio in più sulla serata?

Già da molti anni ho deciso di affrontare il suo repertorio, scoprendo quale grande compositore sia stato papà, con canzoni apparentemente semplici e orecchiabili ma in realtà complesse dal punto di vista armonico. Mi sono messa ad arrangiarle, coadiuvata all’inizio dalla nostra pianista storica Cinzia Gizzi, che al momento è per fortuna o purtroppo per noi, impegnatissima col Conservatorio. Però in quel periodo ci sono stati autori meravigliosi che hanno fatto la tv in b/n, che il compianto Antonello Falqui ha saputo valorizzare, come Gianni Ferrio, Bruno Canfora, Carlo Alberto Rossi, e altri. A questi compositori faremo un omaggio.  Anche io faccio un omaggio personale a mio padre, con la canzone che ho scritto due o tre mesi fa per lui, che si chiama In fondo al cuore mio, che alle mie Zebre piace veramente molto.

Per quanto riguarda la band, invece, visto che sul palco ci sarà un quartetto vocale, ci vuoi raccontare come avete studiato i brani e soprattutto in che chiave li riproporrete?

Li riproponiamo in chiave jazzistica. Tre brani sono stati arrangiati da Lelio apposta per noi. Invece per gli altri, ho sempre fatto io gli arrangiamenti vocali, che richiedono voci di cantanti professioniste, quali sono Giovanna Bosco, Simona Bedini e Sonia Cannizzo, che sono cantanti soliste, anche jazziste e conoscono l’arte del cantare armonizzate, devo dire anche grazie al lavoro che da anni facciamo insieme. Avremo come ritmica Andrea Saffirio, che pur essendo giovanissimo, è già stimatissimo e considerato tra i migliori pianisti. Ci sarà al basso il bravissimo Guido Giacomini, reduce dai mille successi con Arbore, ma anche cantante e un po’ mattatore, e Gianni Di Renzo alla batteria, nostro collaudato batterista, e grande amico, insegnante al Saint Louis.

Per quanto riguarda la parte artistico-musicale legata alla figura di Lelio Luttazzi, cosa ti piace ricordare di lui? Qualche brano in particolare o magari il suo modo originale ed ironico di approcciarsi alla musica…

Secondo me papà era un cantautore ante-litteram, una specie di Paolo Conte, ma ancora più ironico. Non posso dire che ci sia una canzone che preferisco di lui: tutte mi commuovono. Non so le lacrime che ho versato sul pianoforte mentre le studiavo. Poi il suo amore per il jazz, che mi ha trasmesso, e lo swing che aveva. E’ uno dei musicisti più dotati di swing, tra tutti quelli che ho sentito. E come pianista, posso dire che era eccellente: difficile per me accontentarmi di musicisti mediocri.

Quali sono stati secondo te, artisticamente parlando, i più grandi pregi a livello artistico e musicale di Lelio Luttazzi?

In parte ho già risposto a questa domanda: la musicalità, lo swing, e come approccio artistico, questa sua leggerezza e modestia, per cui diceva di non saper suonare, e ci credeva anche. Vero è che un Lelio Luttazzi poteva permettersi di dire “Non so Suonare” visto il suo livello di genialità, e anche di notorietà. Un’altra cosa che ho sempre apprezzato è la sua lealtà nei confronti sia dei suoi colleghi, che dei musicisti con cui collaborava, che dirigeva. Grande rispetto per gli altri. Pur nella consapevolezza quasi inconscia di essere un grande. Poi il suo modo di arrangiare, arte che tecnicamente gli è stata insegnata da Gianni Ferrio. Ma lui sapeva perfettamente che quella nota era indispensabile e quella invece no. Questo è dei grandi musicisti. La canzone che aveva scritto per me, Papà fammi cantare con te, che abbiamo anche messo su 45 giri, è talmente bella e anche difficile, che tirandola giù a orecchio, come ho fatto con altre canzoni di cui non ho la parte, ho avuto delle difficoltà.

C’è secondo te una parte nascosta legata alla figura artistica di Lelio Luttazzi che magari è rimasta nascosta ai riflettori che ti piacer ricordare di più?

Direi una forma di ritrosia e anche di onestà tipicamente triestine, secondo me. Non si sarebbe mai preso il merito di qualcosa che fosse di qualcun altro, per esempio.  Ancora adesso, quando guardo le parti che ha scritto appositamente per me a mano, all’età di 80 anni circa, vedo la precisione nella scrittura, che ancora mi stupisce. E l’intransigenza in tutto, anche nei confronti della sua unica figlia, ma questo è un altro discorso!

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Alberto La Neve racconta Night Windows: “Penso alla musica come qualcosa di introspettivo”

Pubblicato dall’etichetta indipendente Manitù Records, Night Windows è il nuovo album del sassofonista e compositore Alberto La Neve. Un disco sperimentale che si discosta da una catalogazione precisa che rappresenta, secondo noi, l’evoluzione di un percorso artistico e musicale cominciato diverso tempo fa. Alberto La Neve ci ha raccontato questo progetto.

Ciao Alberto e ben trovato: partiamo subito dal titolo suggestivo che hai dato a questa tua opera che trae spunto dalle opere del pittore Edward Hopper: ce ne vuoi spiegare il significato?

Ciao Carlo, ben trovato. Prima di tutto grazie per lo spazio dedicatomi. Sono felice di poter parlare di questo mio nuovo lavoro discografico. Le otto composizioni contenute nell’album traggono ispirazione da alcuni dipinti del pittore statunitense Edward Hopper. “Night Windows” oltre ad essere la Title Track, nonché il titolo di un suo quadro, rappresenta l’essenza dell’intero disco. Ogni composizione vuole essere una finestra notturna dalla quale poter osservare il mio mondo interiore.

 

Ci vuoi raccontare dunque come questo pittore ha ispirato le musiche di questo disco?

Ho scoperto questo pittore qualche anno fa attraverso uno dei suoi più famosi dipinti: “Nighthawks”. Questo quadro mi ha letteralmente rapito. Le leggere sfumature descritte attraverso i tenui colori di un’America del ‘900 mi hanno catapultato emotivamente nell’epoca del jazz che da sempre ho immaginato. Le sensazioni scaturite hanno generato una curiosità tale da approfondire Edward Hopper e ispirarmi ad alcuni suoi dipinti per delle nuove composizioni.

Più di due anni fa ti avevo fatto la stessa domanda, ma a distanza di un po’ di tempo, con un disco forse più maturo e nitido ti faccio la stessa domanda: quali sono le potenzialità e gli orizzonti che si possono esplorare con il sax solo?

Credo fermamente che le potenzialità di un qualsiasi strumento musicale siano infinite.

L’infinito è generato dalle sfumature che possono differenziare ogni suono o rumore. Così come nell’orizzonte, anche nella musica le venature che riesci a cogliere possono essere sempre differenti e rappresentare un nuovo punto di partenza.

 

Abbiamo notato che in questo disco utilizzi sax soprano e tenore: c’è uno strumento fra i due che preferisci oppure usati al punto giusto sono entrambi due strumenti che per te hanno lo stesso potenziale espressivo?

Sax tenore e sax soprano hanno delle caratteristiche differenti. Credo che, usati nel momento giusto, entrambi abbiano delle potenzialità espressive al servizio della musica.

In uno dei brani Room in Brooklyn, ha collaborato ancora la vocalist Fabiana Dota: come nasce questa collaborazione?

Fabiana ha una versatilità vocale e un’espressività non indifferente. Riesce a trasformare perfettamente in musica ciò che il mio pensiero trasforma in note. Non sempre l’interpretazione affidata ad altri musicisti rispecchia l’idea compositiva. Con Fabiana invece ho avuto sempre una perfetta sintonia e ormai da diversi anni collaboriamo nel rispetto assoluto di ciò che la musica stessa chiede.

Se dovessimo paragonare questo disco a quello uscito un paio di anni fa quali sono secondo te le differenze?

Questo disco è stato pensato per essere più sobrio, a volte minimalista, tenue in alcuni momenti e aggressivo in altri, ma sempre mantenendo una compattezza musicale in linea con la fonte d’ispirazione differente rispetto al passato.

E soprattutto cosa è cambiato in te in questi due anni?

Probabilmente più passa il tempo e più penso alla musica come qualcosa di estremamente introspettivo, mettendo in risalto sempre più il concetto stesso di suono.

Chiudiamo con una proiezione verso il futuro: Ti abbiamo spesso intervistato in progetti minimali dove il tuo sassofono è autosufficiente: per il futuro stai pensando anche ad un disco con una band?

Assolutamente si. Suonare “in solo” si muove parallelamente con altri progetti condivisi. In autunno uscirà un nuovo album concepito insieme al chitarrista Francesco Mascio e ispirato al nostro Mar Mediterraneo. Avrà come ospiti musicisti di altre nazionalità in un progetto comune di “musica” pensata come unione introspettiva di culture differenti.

 

 

 

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