Oregon, In Stride – una recensione
- Scritto da Carlo Cammarella
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Se parliamo degli Oregon, la prima cosa che ci viene da dire è che questo gruppo, capace di miscelare il jazz con il pop e la world music, rappresenta per molti amanti del jazz uno spaccato di storia. Con questo nome sono attivi dal 1970, anche se i tre membri storici del gruppo, Paul McCandless,Ralph Towner e Glen Moore avevano cominciato a suonare ben prima, quando andavano all’università dell’Oregon. Ora di acqua sotto i ponti per loro ne è passata davvero tanta e dopo la morte del percussionista Callin Walkat ed una parentesi abbastanza lunga con Trilok Gurtu, i tre membri rimanenti hanno trovato già da tempo un nuovo batterista/percussionista in Mark Walker (con loro dal 1996) che è presente nell’ultimo lavoro firmato Oregon, intitolato “In Stride”. Una cosa ve la diciamo subito, se pensato che questi ragazzi forse un po’ troppo cresciuti abbiano perso lo smalto di un tempo, allora vi sbagliate di grosso, perché questo ultimo disco, pubblicato dall’etichetta Cam Jazz, stupisce ancora per la freschezza e per l’originale miscela di suoni che da sempre hanno caratterizzato la loro musica.
Una delle loro caratteristiche principali, infatti, è quella di essere tutti dei polistrumentisti che all’occorrenza, per una data musica, sanno usare con maestria lo strumento più adeguato. E da questa miscela iniziale nascono melodie colte, sublimi e molto articolate che, per non si sa quale recondito motivo, risultano semplici anche per un orecchio profano. Quindi, la caratteristica principale degli Oregon, che è quella di non dare punti di riferimento, in questo ultimo disco la troviamo ancora una volta, come se per loro il tempo non fosse mai passato, ma si fosse fermato per dargli il dono di scrivere sempre qualcosa di innovativo. L’aria di contaminazione, che da quando sono insieme non li ha mai abbandonati, la ritroviamo soprattutto nei brani “As she sleeps”, “Nação” e “On the rise”, dove spicca quella commistione di Jazz con sonorità etniche, ma anche pop, caratterizzate sempre da una melodia semplice che ben si sviluppa grazie all’utilizzo di quello strumento giusto che, messo nel posto giusto, fa sempre la differenza.
Ma limitare la musica degli Oregon ad una semplice contaminazione forse sarebbe troppo riduttivo, perché in ogni loro brano, ciò che salta subito alla mente di chi ascolta è che c’è qualcosa di più, qualcosa di inafferrabile e di astratto che rende le loro composizioni delle forme geometriche perfette, sublimi, articolate e allo stesso tempo semplici ed orecchiabili. E questo spirito di astrazione spicca ancora di più in brani come “Glacial Blue”, di solo pianoforte, e “Aeolus”, dove si percepisce bene quella forte componente di sperimentazione che raggiunge orizzonti nuovi e sonorità del tutto originali. Senza togliere, però, un velato richiamo al Cool Jazz che ritroviamo in “Summer’s End”, composizione triste e malinconica ricorda proprio la fine di una bella stagione. E forse questa componente di velata tristezza, di piacevole malinconia, di distacco dal mondo terreno rappresenta il filo conduttore di un lavoro fatto con cura, con un missaggio veramente perfetto, che per quasi un’ora ci ha fatto venire voglia di sederci su un bel divano, ascoltando una musica che vale proprio la pena di essere ascoltata.
Carlo Cammarella
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