Jazz Agenda

Luca Mannutza's Uneven Shorter 4tet in concerto al Caffé Bugatti

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Rielaborare la musica di Wayne Shorter nella parte ritmica è il motivo ispiratore del lavoro di arrangiamento e ricomposizione reso dalla penna di Luca Mannutza, che ha realizzato appositamente per questo progetto un repertorio rivisitato di suoi brani classici. Il concerto andrà in scena mercoledì 27 dicembre presso il Caffè Bugatti di Terni.

La fedeltà alle scritture originali del maestro ispiratore di una vastissima generazione di musicisti, è integrata in una tessitura ritmica di accompagnamenti poliritmici sistemati in un overlapping di metriche, risultanti in una dissolvenza continua tra i livelli di volta in volta predominanti, come in un'immagine di matrice escheriana.

Caffè Bugatti

Via Fratini 13, Terni

Inizio concerto ore 21:30

Formazione
Luca Mannutza – Pianoforte; 
Paolo Recchia – Sax; 
Daniele Sorrentino – Contrabbasso; 
Lorenzo Tucci – Batteria

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Lorenzo Tucci, Max Ionata, Luca Mannutza Trio in concerto al Bebop Jazz Club

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Sabato 29 aprile in occasione della giornata Internazionale del Jazz istituita dall’Unesco, il trio di grandissima fama internazionale composto da Lorenzo Tucci, Max Ionata e Luca Mannutza sarà in concerto al Bebop Jazz Club.

LORENZO TUCCI 
Nato ad Atessa (CH) si trasferisce a Roma giovanissimo ed è proprio nella capitale che inizia ad affiancarsi ad artisti italiani e internazionali di grande profilo. Negli anni ha collaborato con numerosi artisti del calibro di Phil Woods, Tony Scott, Ronnie Cuber, George Garzone, Mark Turner, Tim Warfield, Emmanuel Bex, Kirk Lightsey, George Cables, Joanne Brakeen,Fabrizio Bosso, Massimo Urbani, Danilo Rea, Enrico Pieranunzi, Enrico Rava, Flavio Boltro, Giovanni Tommaso, Mario Biondi, Daniele Scannapieco, Maurizio Giammarco, Stefano Di Battista, Dado Moroni, Rosario Giuliani, Luca Mannutza, Salvatore Bonafede, Karima, Max Ionata, Ada Montellanicoe molti altri.

Il suo ultimo album si Intitola “SPARKLE” per Jando Music/Via Veneto jazz (Aprile 2016) con alcune stelle del jazz italiano: Flavio Boltro – tromba, Luca Mannutza – piano, Luca Fattorini – contrabbasso e la partecipazione di Karima sul brano “E po che fa” di Pino Daniele. Molti i suoi dischi di successo TRANETY e TRANETY live, quest’ ultimo uscito in allegato con la rivista JAZZIT con Claudio Filippini al piano e Luca Bulgarelli al contrabbasso, “DRUMPET“, disco realizzato in duo insieme a Fabrizio Bosso alla tromba, ricordiamo anche LUNAR, disco sperimentale per l’etichetta Schema Records in duo con Luca Mannutza al piano e tastiere, “DRUMONK” omaggio a Thelonius Monk, l’album d’esordio SWEET REVELATION del 2000 e recentemente rimasterizzato in giappone per la Alborè jazz, SCHEMA SEXTET altro disco importantissimo con Petrella, Giuliani, Bosso, Lussu, PHIL WOODS meets the italian new generation con la partecipazione di Franco D’ Andrea, PARADOXA con Salvatore Bonafede etc

MAX IONATA 
Classe 1972, Max Ionata è considerato uno dei sassofonisti più interessanti del panorama jazzistico italiano; si è avvicinato alla musica non proprio giovanissimo, quando nel 2005 dopo essersi trasferito a Roma, ha iniziato la sua carriera professionale collezionando successi ed approvazioni da parte di critica e pubblico. Ha suonato in alcuni tra i più importanti jazz club e jazz festivals al mondo e ha collaborato con grandi musicisti tra i quali: Robin Eubanks, Reuben Rogers, Clarence Penn, Steve Grossman, Mike Stern, Bob Mintzer, Bob Franceschini, Hiram Bullock, Joel Frahm, Miles Griffith, Anthony Pinciotti, Roberto Gatto, Dado Moroni, Gegè Telesforo, Giovanni Tommaso, Flavio Boltro, Furio Di Castri, Fabrizio Bosso, Lorenzo Tucci, Rosario Bonaccorso, Mario Biondi e molti altri.

Conduce un’intensa attività concertistica e discografica in Italia e all’estero, in particolare in Giappone dove gode di una notevole fama artistica; oltre a guidare diversi progetti a proprio nome, collabora stabilmente con alcuni dei migliori musicisti della scena internazionale. Tra i riconoscimenti internazionali:

- Il premio “Massimo Urbani” per la sezione fiati nell’anno 2000
- Il primo premio al Concorso Nazionale di Jazz “Baronissi” nell’anno 2000
- Il premio del pubblico al concorso internazionale “Tramplin Jazz D’Avignon” in Francia nell’anno 2002.
- L’importante rivista giapponese “Jazzlife”, oltre ad avergli dedicato un importante spazio all’interno del numero speciale “Jazz horn 2010” con un’intervista, lo ha segnalato come “uno di quei sassofonisti che hanno aperto una nuova frontiera nel jazz”.

LUCA MANNUTZA 
Nato a Cagliari nel 1968, si è avvicinato alla musica giovanissimo, grazie al padre che a soli 4 anni gli ha impartito i primi insegnamenti pianistici. Iniziati a 6 anni gli studi classici, nel 1979 si iscrive al Conservatorio “G.P. da Palestrina” di Cagliari e qui a 18 anni si diploma con ottimi voti. Dopo anni di varie esperienze, anche con gruppi di rock progressivo e fusion, si avvicina al jazz nel 1990, assecondando una naturale predisposizione all’improvvisazione e alla creatività. L’intensità della sua attività musicale in questo campo inizia a crescere due anni più tardi, quando comincia a suonare con il sassofonista argentino Hector Costita e incontra il trombettista di New York Andy Gravish, con il quale tuttora collabora. Nel 1993 comincia anche ad esibirsi al fianco dei migliori jazzisti italiani, tra cui Paolo Fresu, Emanuele Cisi, Maurizio Giammarco, Bebo Ferra.

Numerosi gli importanti riconoscimenti conseguiti nei concorsi di jazz cui ha partecipato all’inizio della sua carriera. Oltre ad esibirsi in piano solo, suona in duo con il sassofonista Max Ionata e in duo col batterista Lorenzo Tucci (Lunar duo),in trio con Luca Bulgarelli e Nicola Angelucci; inoltre co-dirige il quintetto Sound Advice insieme ad Andy Gravish, cui partecipano Marcello di Leonardo, Luca Bulgarelli e Max Ionata e guida un sestetto, Sound Six, con Max Ionata,Andy Gravish,Paolo Recchia,Andrea Nunzi e Renato Gattone. Dal 2002 fa parte di tanti importanti progetti del batterista Roberto Gatto, con cui si è esibito in numerosi concerti a livello internazionale, realizzando registrazioni per diversi album.

Dal 2002 collabora a tutt’oggi stabilmente con Fabrizio Bosso, in qualità di organista e di pianista, e fa parte degli High Five, il gruppo più rappresentativo del successo del jazz italiano nel mondo, campione di vendite con l’album Five for Fun (Blue Note/EMI Italia 2007) e Handful of Soul (Schema 2006) insieme a Mario Biondi. Di rilievo è anche la collaborazione con il trombettista statunitense Jeremy Pelt. Luca Mannutza affianca la sua intensa attività live con quella di arrangiatore per vari artisti e progetti discografici, quali Mario Biondi, Rosalia de Souza, Filippo Tirincanti,Lorenzo Tucci. Luca Mannutza ha suonato nei più importanti jazz club italiani (Torrione Jazz Club, Panic Jazz Club, Cantina Bentivoglio, Alexanderplatz, Blue Note Milano, Pinocchio Jazz Club e molti altri) e nel mondo (Blue Note Tokio, Blue Note Osaka, Sunset e Sunside Parigi, Bimhuis Amsterdam, Pizza Express Londra, Smoke New York, Fat Cat New York).

Bebop Jazz Club

Via Giuseppe Giulietti

14 - Roma (Zona Testaccio - Piramide)

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Paolo Recchia, Luca Mannutza, Lorenzo Tucci Trio in concerto al Bebop Jazz Club

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Il trio formato dal sassofonista Paolo Recchia, dal pianista Luca Mannutza e dal batterista Lorenzo Tucci, sarà protagonista della grande serata di musica live di venerdì 29 aprile al Bebop Jazz Club di Roma (Via Giuseppe Giulietti 14, Zona Testaccio Piramide ore 22.00).

Pensare al jazz come a un oggetto dalle molte faccettature, attingere da generi come samba, funk, latin jazz, bossa nova ispirandosi anche ad alcune sonorità degli anni Settanta, rievocate dalla presenza del Fender Rhodes e dell'organo Hammond.

Il trio di Mannutza, Tucci, Recchia è una formazione di grande livello artistico, capace di spaziare da un genere all’altro e di trovarsi a proprio agio sia nel reinterpretare gli standard del jazz sia nell’affrontare sonorità del funky o di repertori più sperimentali.

PAOLO RECCHIA LUCA MANNUTZA LORENZO TUCCI TRIO

BeBop Jazz Club

Via Giuseppe Giulietti 14 - Roma (Zona Testaccio - Piramide)

Venerdì 29 Aprile 2016 – ore 22.00

 

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Live Report: Filippo Tirincanti “Otherwise” feat. Fabrizio Bosso

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Odio l’Estate. Primo agosto. Villa Carpegna, il «lido jazz» di Roma tra i pini di via Cornelia (L. Palmiero), apre la sua suggestiva e accogliente prateria di sdraio a Filippo Tirincanti. A battesimoOtherwise, l’album uscito lo scorso aprile per la Eleven. Di e su Tirincanti, in pochissimi mesi, è già stato scritto tanto. Per alcuni è la nuova black voice della musica d’autore italiana. Per altri l’accostamento a Biondi o a Gualazzi non potrebbe essere più naturale. Tirincanti è evidentemente qualcos’altro, pensavo durante la performance. Certo, il timbro della sua voce, nudo e ruvido, la struttura degli arrangiamenti e la scelta di una sezione ritmica d’eccezione, più spinta verso la formula jazz che pop, grazie anche alle partecipazioni di Luca Mannutza, Lorenzo Tucci e Fabrizio Bosso, non dovrebbero lasciare spazio a dubbi. In Otherwise c’è tutta l’aria di una dichiarazione di genere. Qui si fa jazz, pare si voglia dire. Senza indagare, l’esperimento incuriosisce e si gusta. Tirincanti non è propriamente un chitarrista jazz, e anche questo è chiaro. Ma il suo stile, personalissimo, non avverte imbarazzi di stile. Esplorazioni pop, jazz, soul, blues, finanche reggae. Poi l’intesa con Sananda Maitreya, che ha segnato. Il gioco regge e la scommessa vince.

 

La musica di Tirincanti ha con sé una freschezza raccolta e discreta, profondamente intima, ma anche sorniona e leggera. Si avverte, e questo tanto nella cura dei testi, rigorosamente English, quanto nei temi, immediati e orecchiabilissimi. Tirincanti, mimico, spiega ogni gesto sonoro che nasce con la voce, che vibra sulle corde della sua chitarra. È il racconto fisico di una passione. Coinvolgente. Dalle effusioni sonore di Sweet Love al blasonato She Smiles, azzeccatissima soundtrack dello spot di una nota casa automobilistica francese, Tirincanti anima la scena. Slanciano i tempi in levare. Solca il basso elettrico di Francesco Puglisi. Tutta la leggerezza di un racconto estivo. Tirincanti sa essere irriverente e dolce, giocoso e intenso. Il suo graffio insidia le morbidezze armoniche di Mannutza in Gaze. Swinga Tucci. Interessanti le perlustrazioni di Bosso, sostenute in profondità dall’effetto echo. Here I am, soffiata ballad che trova ristoro e si compiace di uno spazio personale, interamente affidato a Mannutza. Torna sul palco Tirincanti e regala una sospensione carica di poesia. Si cambia scena. Ed è la formazione a fare da protagonista. Carica Bosso. Fende la chitarra di Egidio Marchitelli. A pioggia. Tucci scalpita. C’è spazio per l’elettronica, mentre s’insinua l’esperienza acustica di Bosso, ispida, pungente. Via per Realitye Ladies, s’innesta intenso l’assolo di Puglisi, mentre suona l’imperativo di Tirincanti «no rules, no roots». C’è tutto il tempo di una dedica alla compianta Amy Winehouse, rivisitando Rehab, e di un Get Up Stand Up che omaggia il grande Bob Marley. Quindi Otherwise, il brano che presta il nome all’album, riassunto personalissimo dello stile di Tirincanti. Ripercorrendo a ritroso la tracklist, chiudeBlues 4 Jaco. Se ne parlerà ancora.

Eliana Augusti

Foto di Valentino Lulli

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Il Jazz fra due mondi – intervista a Lucio Ferrara

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E’ un progetto dal chiaro sapore internazionale quello che abbiamo avuto modo di ascoltare ieri alla Casa del Jazz, un disco che racchiude anni di viaggi e di lavoro ricchi di entusiasmo. Parliamo dell’ultimo lavoro del chitarrista Lucio Ferrara, “It’s all right with me”, presentato ieri in una delle location più belle della capitale. Insieme a lui c’erano Nicola Angelucci (batteria) e Luca Mannutza(hammond) due musicisti che Lucio conosce bene, con i quali ha condiviso molte esperienze e che hanno preso parte ad un progetto cominciato dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti. Dunque, un disco a cui hanno partecipato, oltre ai nomi appena citati, artisti come Lee Konitz, Antonio Ciacca, Ulysses Owens, Kengo Nakamura e Yasushi Nakamura. Lucio Ferrara ci ha raccontato in prima persona questa esperienza.

Lucio, per cominciare volevo parlare dalla genesi di questo progetto: “It’s All Roght with me”. Come mai è stato registrato luoghi diversi, tra Sorrento, Roma e lo stato del New Jersey?

“Diciamo che non c’è un motivo preciso. Quello che ho scelto sono state le formazioni con cui preferisco sonare come il quartetto con pianoforte, il trio con lo hammond e il quintetto con il sassofono. La scelta vera e propria è stata l’idea di registrare un disco a New York, ma alla fine ho preferito aggiungere due brani con due musicisti, Nicola Angelucci e Luca Mannutza, con cui sono tutto l’anno. Con loro c’è un vero e proprio rapporto di amicizia perché ci vediamo continuamente, mentre le esperienze con i musicisti americani sono momenti occasionali in cui ci si incontra una volta all’anno a New York”.

Quindi, potremmo dire che in questo progetto c’è un’anima internazionale?
Esattamente, diciamo che in questo progetto viene fuori questa mia internazionalità legata ai rapporti di lavoro e ai viaggi continui. E’ un aspetto che effettivamente rappresenta gli ultimi anni della mia carriera.

E il titolo di questo tuo progetto è forse legato ad un tuo stato d’animo particolare?
“Sicuramente è legato a quella positività che incontro quando lavoro con gli american negli Stati Uniti e a quell’incoraggiamento che loro hanno verso la vita. Questo progetto rappresenta tutta quella positività che sento quando vado in questo paese. E’ un momento in cui sento un’altra aria e in cui respiro in un altro ambiente. Con questo titolo ho cercato di descrivere apertamente questo stato d’animo”.

Il fatto di non avere una formazione stabile è forse legato al fatto di considerare la musica come qualcosa in continuo cambiamento?
“Si, sicuramente c’è il vantaggio di suonare con diversi musicisti e di scoprire come la musica viene fuori in maniera sempre differente. Ovviamente la cosa ideale sarebbe quella di suonare con una band fissa con cui lavorare per tutta la vita perché soltanto in questo modo raggiungi un Interplay unico, però ci sono anche gli aspetti legati alle novità. Suonando con diverse persone Impari da tutti e collezioni esperienze che ti aiutano a crescere”.

Quindi, potremmo dire che l’approccio con i musicisti con cui suoni è legato proprio al concetto di Interplay?
“Credo di si, io lo vivo così. Il mio modo di suonare dipende anche dagli altri musicisti, dagli imput continui che mi trasmettono e dal continuo sviluppo del l’idea di Interplay”.

E il fatto di aver viaggiato tanto quanto può avere influito sulla tua musica?
“Sicuramente ha influito tantissimo. Viaggiare è fondamentale perché a un certo punto, quando pensi di sapere tutto, scopri che ci sono delle novità. Per crescere hai bisogno di cercare sempre nuove esperienze”.

E se dovessimo fare un parallelismo fra un’esperienza dal vivo in America ed una in Italia…
“Diciamo che il pubblico americano in generale è molto entusiasta e senti la sua presenza continuamente. E’ un pubblico attento che conosce bene la storia del jazz e al quale non hai bisogno di spiegare la musica che suoni. Quando ti esprimi con un bambino usi un determinato linguaggio e quando ti trovi in America è come se parlassi ad un adulto che ti capisce bene”.

Carlo Cammarella

Foto di Valentino Lulli

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Fabrizio Bosso Quartet feat. Roberto Cecchetto all’Auditorium

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In una serata romana gelida e piovosa, di quelle in cui farebbe piacere stare sotto le coperte a guardare un buon film, abbiamo avuto la fortuna di poter fare qualcosa di diverso, qualcosa che veramente abbiamo il piacere di potervi raccontare. Giovedì scorso, infatti, ci siamo recati all’Auditorium per il Roma Jazz Festival e con grande sorpresa abbiamo scoperto una lunga fila di attesa per l’evento di Fabrizio Bosso Quartet feat. Roberto Cecchetto. Ancora più stupiti ci siamo resi conto che la sala dove si sarebbe svolto il concerto (Sala Petrassi) era già esaurita mezz’ora prima dell’inizio dell’evento.  Bene, anche se quel giorno il tempo atmosferico è stato a dir poco tremendo, nella sala Petrassi c’era un’atmosfera calda, viva e vivace. Il pubblico attendeva trepidante l’inizio del concerto che come in tutte le grandi occasioni si è fatto attendere un po’.

Ma appena è entrato in scena Lorenzo Tucci (batteria), la sala si è acquietata e si è lasciata trasportare da un assolo di batteria che ha funzionato da richiamo per tutti gli altri componenti di un quartetto che forse si potrebbe definire quintetto, dato che Roberto Cecchetti (chitarra) per le innumerevoli partecipazioni non può essere più considerato come uno special guest. Sul palco la formazione si è presentata cosi: Fabrizio Bosso al centro della scena a dirigere la musica, dietro Luca Bulgarelli(contrabbasso), sulla sinistra Luca Mannutza (pianoforte e fender rhodes), a muoversi tra le tastiere , e in fine sulla desta Lorenzo Tucci e Roberto Cecchetto un po’ in disparte.

Il quartetto segue le evoluzioni alla tromba di Bosso che ci trascinano tra il jazz e lo swing, che ci lasciano incantati e rapiti dalle sue sonorità così coinvolgenti. E nel momento in cui Bosso smette di suonare entra prepotentemente Roberto Cecchetto onirico, sentimentale che ci avvolge con la sua chitarra. Quello che sembrava non far parte del gruppo, vista anche la disposizione sul palco, diventa parte integrante del tutto e quello che fuoriesce dalla miscela di questi 5 artisti è un sonorità del tutto particolare che porta con se le radici di ognuno dei musicisti, dal drumming di matrice nera di Lorenzo Tucci all’esperienza variegata di Roberto Cecchetto, passando per l’impostazione puramente jazzistica di Luca Mannutza e alla freschezza di Luca Bulgarelli. Il tutto unito dalla bravura di Fabrizio Bosso. Una serata da ricordare a da incorniciare tra gli eventi più belli del Roma Jazz Festival e se mai avrete la possibilità e la fortuna di imbattervi ancora in Fabrizio Bosso Quartet  feat. Roberto Cecchetto non lasciatevelo scappare, sicuramente non ne rimarrete delusi.

Valentino Lulli

Foto di Valentino Lulli

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Max Ionata Quartetto – Dieci – una recensione

Matteo Pagano e Via Veneto Jazz presentano Max Ionata Quartetto. Max Ionata (sax tenore), Luca Mannutza(piano), Nicola Muresu(contrabbasso) e Nicola Angelucci (batteria) per questa produzione di rara bellezza, un “complealbum” per e da festeggiare. Dieci è straordinariamente jazz. Un jazz autentico che riconosce e si riconosce. Sin da Astobard(Muresu). L’ingresso è trionfale e rivela subito il featuring. La tromba di Fabrizio Bossosvetta. Il dialogo col sax di Ionata si fa d’intesa. Ionata e Bosso direzionano, puntano e conquistano. Angelucci macina uno swing spassoso che viaggia come un treno. Il pianismo di Mannutza è discreto, morbido, un velluto. Gioca di stop. E ogni fermata riparte con uno slancio che appassiona. Ionata, funambolico e disinvolto, crea edifici melodico-armonici di un fascino raro. Entrano subito in testa. L’attenzione per la linea e la discorsività dei fraseggi spingono l’interplay in uno spazio empatico totale e totalizzante, dove tutto è univocamente percepibile. Perfetto il timing. Un dialogo a tre, fatto di entusiasmati personali e ben sostenute confidenze sax-tromba. La traccia 2 è un omaggio a due grandi del jazz. Coltrane meets Evans (Mannutza) è un incontro per incontrare. Scorre, vivo. Bosso lancia note a cascata. Mannutza incasella, parsimonioso. È un singhiozzo che arresta e spinge. La talpa (Ionata) inverte la marcia. È un cambio di rotta. Scanzonato e disinvolto. Mannutza conquista un assolo ricco ed estremamente vario, sostenuto da un walking bass sempre presente, discreto, stabile. Pochi secondi e si riconquista il tempo. Ionata detta il riff. Mannutza segue, a mani slegate. Il basso provoca. Il fraseggio della destra è fitto e ricco, un ricamo. Turn around (Mannutza) sollecita un’atmosfera da promenade. Gira intorno. Uno standard dedicato, Who can I turn to (Bricusse-Newley), ripensato in tempo medio, raccoglie e a metà strada prepara il giro di boa. Finalmente emerge, timido, Muresu. Lode 4 Joe (Ionata) è la ballata che resta, di un lirismo che consola. Carezzevole e intimo. Con Altalena (Mannutza) ritornano i giochi a due. Il contrappunto è intrigante e sintonico. La voce di Ionata incontra quella di Bosso, in uno scambio amabile d’eleganza e raffinatezze. È un fluire di suggestioni. Chiude l’album Attila (Lease) (Muresu), dai contenuti che non t’aspetti, a confidare nel titolo, ma che comprendi con l’ascolto. Un abbraccio da congedo, che lascia nelle orecchie, mistico e dolce, il desiderio del re-start. Evapora, fino a scomparire in uno spazio immobile, quello, stanco, che ha visto il passaggio e ha vissuto le turbolenze di un’emozione che non torna. Ionata distende il pensiero, mentre Mannutza, sullo sfondo, ne conserva, vivo e in moto perpetuo, il ricordo. Tace.

Eliana Augusti

(VVJ Records 2011)

Max Ionata – sax tenore

Luca Mannutza – piano

Nicola Muresu – contrabbasso

Nicola Angelucci – batteria

Special guest Fabrizio Bosso – tromba e flicorno

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Live Report: Filippo Tirincanti “Otherwise” feat. Fabrizio Bosso

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Odio l’Estate. Primo agosto. Villa Carpegna, il «lido jazz» di Roma tra i pini di via Cornelia (L. Palmiero), apre la sua suggestiva e accogliente prateria di sdraio a Filippo Tirincanti. A battesimoOtherwise, l’album uscito lo scorso aprile per la Eleven. Di e su Tirincanti, in pochissimi mesi, è già stato scritto tanto. Per alcuni è la nuova black voice della musica d’autore italiana. Per altri l’accostamento a Biondi o a Gualazzi non potrebbe essere più naturale. Tirincanti è evidentemente qualcos’altro, pensavo durante la performance. Certo, il timbro della sua voce, nudo e ruvido, la struttura degli arrangiamenti e la scelta di una sezione ritmica d’eccezione, più spinta verso la formula jazz che pop, grazie anche alle partecipazioni di Luca Mannutza, Lorenzo Tucci e Fabrizio Bosso, non dovrebbero lasciare spazio a dubbi. In Otherwise c’è tutta l’aria di una dichiarazione di genere. Qui si fa jazz, pare si voglia dire. Senza indagare, l’esperimento incuriosisce e si gusta. Tirincanti non è propriamente un chitarrista jazz, e anche questo è chiaro. Ma il suo stile, personalissimo, non avverte imbarazzi di stile. Esplorazioni pop, jazz, soul, blues, finanche reggae. Poi l’intesa con Sananda Maitreya, che ha segnato. Il gioco regge e la scommessa vince.

La musica di Tirincanti ha con sé una freschezza raccolta e discreta, profondamente intima, ma anche sorniona e leggera. Si avverte, e questo tanto nella cura dei testi, rigorosamente English, quanto nei temi, immediati e orecchiabilissimi. Tirincanti, mimico, spiega ogni gesto sonoro che nasce con la voce, che vibra sulle corde della sua chitarra. È il racconto fisico di una passione. Coinvolgente. Dalle effusioni sonore di Sweet Love al blasonato She Smiles, azzeccatissima soundtrack dello spot di una nota casa automobilistica francese, Tirincanti anima la scena. Slanciano i tempi in levare. Solca il basso elettrico di Francesco Puglisi. Tutta la leggerezza di un racconto estivo. Tirincanti sa essere irriverente e dolce, giocoso e intenso. Il suo graffio insidia le morbidezze armoniche di Mannutza in Gaze. Swinga Tucci. Interessanti le perlustrazioni di Bosso, sostenute in profondità dall’effetto echo. Here I am, soffiata ballad che trova ristoro e si compiace di uno spazio personale, interamente affidato a Mannutza. Torna sul palco Tirincanti e regala una sospensione carica di poesia. Si cambia scena. Ed è la formazione a fare da protagonista. Carica Bosso. Fende la chitarra di Egidio Marchitelli. A pioggia. Tucci scalpita. C’è spazio per l’elettronica, mentre s’insinua l’esperienza acustica di Bosso, ispida, pungente. Via per Realitye Ladies, s’innesta intenso l’assolo di Puglisi, mentre suona l’imperativo di Tirincanti «no rules, no roots». C’è tutto il tempo di una dedica alla compianta Amy Winehouse, rivisitando Rehab, e di un Get Up Stand Up che omaggia il grande Bob Marley. Quindi Otherwise, il brano che presta il nome all’album, riassunto personalissimo dello stile di Tirincanti. Ripercorrendo a ritroso la tracklist, chiudeBlues 4 Jaco. Se ne parlerà ancora.

Eliana Augusti

Foto di Valentino Lulli

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Otherwise, l’esordio discografico di Filippo Tirincanti

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Otherwise, ovvero l’esordio discografico di Filippo Tirincanti, è un lavoro che abbraccia sonorità soul, blues e jazz. Un Cd ricco di contaminazioni scritto, come ci ha raccontato in questa intervista lo stesso autore, “Senza compromessi”. Pubblicato dall’etichetta indipendente Eleven e distribuito da Edel, Otherwise è un lavoro che mette in risalto tutte le doti di questo giovane autore che, forse anche in maniera istintiva, ama spaziare fra diversi generi musicali. Alla realizzazione di questo progetto hanno partecipato dei grandi jazzisti come Luca Mannutza al piano, Fabrizio Bosso alla tromba, Egidio Marchitelli e Roberto Cecchetto alle chitarre, Francesco Puglisi al basso e Lorenzo Tucci alla batteria. Filippo ci ha raccontato in prima persona questa esperienza.

Filippo, partiamo dal tuo background. Tu hai girato molto l’America in macchina e sei stato anche per un lungo periodo a Seattle. Quanto ha influito la musica “nera” e in particolare il Jazz e il Blues nel tuo percorso musicale?

Sicuramente la musica nera ha influito molto nella mia vita. Considera che a cinque anni ho iniziato ad ascoltare Jimmy Hendrix e poi sono arrivato a Robert Johnson, fino a Miles Davis. La musica nera ha influito tantissimo anche perché per fortuna o per sfortuna il 90 % della musica che ascolto è nera e va dal rock, blues, jazz, soul, R&B e quindi ha avuto una grande influenza. In più stando 10 anni in America l’ho sentita ancora di più.

Quasi tutti i musicisti che hanno partecipato alla realizzazione di questo Cd sono Jazzisti. Perché?

Diciamo che sono tutti jazzisti tranne me. Questo è successo perché avevo scritto questi brani… Che fanno parte di un album che considero un album un po’ dolce, morbido e tranquillo. Quindi questa influenza jazz e l’utilizzo di queste sonorità, secondo me, si sposavano molto bene con questo progetto. Poi abbiamo iniziato a collaborare insieme, abbiamo visto che le cose funzionavano e siamo arrivati fino in fondo. Ribadisco sempre che questo è un Cd senza compromessi, nel senso che ho potuto veramente scrivere come volevo e come mi pareva sia nei testi che nella musica. E loro sono riusciti a colorare veramente bene il tutto.

Quindi, potremmo dire che il jazz nel tuo caso è venuto in un secondo momento?

Guarda, io non sono poi così ferrato nella musica jazz, la ascolto e come ti dicevo a 10 o 11 anni mi sono avvicinato a Miles Davis e soprattutto alla fusion. Poi piano piano sono andato anche a scoprire il jazz un po’ più vecchio, da Charlie Parker, John Coltrane, Charlie Christian, che è un chitarrista che mi piace molto, a Jungle Reinhard. E’ una musica che mi piace tantissimo, ma la lascio suonare a chi di dovere, visto che è difficile, richiede tanto talento, tanto impegno e tanto studio.

Però possiamo dire che in questo tuo lavoro, almeno in una parte, l’approccio jazzistico si sente molto…

Si, perché il jazz è anche improvvisazione, un aspetto della musica che per me è molto importante. Quindi, questo derivato che parte dal blues e poi ve verso il jazz lo sento molto dentro di me. E’ che non sono un jazzista, lo ribadisco soprattutto per il grande rispetto che ho nei confronti di questa musica complicata, difficile e che richiede tanto talento. Tuttavia, quando riesco a rubare qualcosa dall’improvvisazione jazz per portarla… Diciamo verso la musica che compongo, per me è sempre un fattore positivo.

E per il futuro? Magari hai anche in mente di fare un lavoro che abbracci il jazz nella sua purezza?

Non lo so dipende… Se mi metto a studiare seriamente per una ventina di anni può essere (ride). Sono molti i musicisti italiani che dicono di suonare jazz perché magari fanno tre standard e quattro accordi jazz, mentre invece ci sono personaggi come Fabrizio Bosso o Luca Mannutza (che ho avuto la fortuna di sentire) che quando suonano… Suonano veramente! Il jazz è un po’ come la musica classica, richiede tanto impegno e tanta dedizione.

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Il Jazz fra due mondi – intervista a Lucio Ferrara

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E’ un progetto dal chiaro sapore internazionale quello che abbiamo avuto modo di ascoltare ieri allaCasa del Jazz, un disco che racchiude anni di viaggi e di lavoro ricchi di entusiasmo. Parliamo dell’ultimo lavoro del chitarrista Lucio Ferrara, “It’s all right with me”, presentato ieri in una delle location più belle della capitale. Insieme a lui c’erano Nicola Angelucci (batteria) e Luca Mannutza(hammond) due musicisti che Lucio conosce bene, con i quali ha condiviso molte esperienze e che hanno preso parte ad un progetto cominciato dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti. Dunque, un disco a cui hanno partecipato, oltre ai nomi appena citati, artisti come Lee Konitz, Antonio Ciacca, Ulysses Owens, Kengo Nakamura e Yasushi Nakamura. Lucio Ferrara ci ha raccontato in prima persona questa esperienza.

 Lucio, per cominciare volevo parlare dalla genesi di questo progetto: “It’s All Roght with me”. Come mai è stato registrato luoghi diversi, tra Sorrento, Roma e lo stato del New Jersey?

“Diciamo che non c’è un motivo preciso. Quello che ho scelto sono state le formazioni con cui preferisco sonare come il quartetto con pianoforte, il trio con lo hammond e il quintetto con il sassofono. La scelta vera e propria è stata l’idea di registrare un disco a New York, ma alla fine ho preferito aggiungere due brani con due musicisti, Nicola Angelucci e Luca Mannutza, con cui sono tutto l’anno. Con loro c’è un vero e proprio rapporto di amicizia perché ci vediamo continuamente, mentre le esperienze con i musicisti americani sono momenti occasionali in cui ci si incontra una volta all’anno a New York”.

foto di Valentino Lulli

Quindi, potremmo dire che in questo progetto c’è un’anima internazionale?
Esattamente, diciamo che in questo progetto viene fuori questa mia internazionalità legata ai rapporti di lavoro e ai viaggi continui. E’ un aspetto che effettivamente rappresenta gli ultimi anni della mia carriera.

E il titolo di questo tuo progetto è forse legato ad un tuo stato d’animo particolare?
“Sicuramente è legato a quella positività che incontro quando lavoro con gli american negli Stati Uniti e a quell’incoraggiamento che loro hanno verso la vita. Questo progetto rappresenta tutta quella positività che sento quando vado in questo paese. E’ un momento in cui sento un’altra aria e in cui respiro in un altro ambiente. Con questo titolo ho cercato di descrivere apertamente questo stato d’animo”.

Il fatto di non avere una formazione stabile è forse legato al fatto di considerare la musica come qualcosa in continuo cambiamento?
“Si, sicuramente c’è il vantaggio di suonare con diversi musicisti e di scoprire come la musica viene fuori in maniera sempre differente. Ovviamente la cosa ideale sarebbe quella di suonare con una band fissa con cui lavorare per tutta la vita perché soltanto in questo modo raggiungi un Interplay unico, però ci sono anche gli aspetti legati alle novità. Suonando con diverse persone Impari da tutti e collezioni esperienze che ti aiutano a crescere”.

Quindi, potremmo dire che l’approccio con i musicisti con cui suoni è legato proprio al concetto di Interplay?
“Credo di si, io lo vivo così. Il mio modo di suonare dipende anche dagli altri musicisti, dagli imput continui che mi trasmettono e dal continuo sviluppo del l’idea di Interplay”.

E il fatto di aver viaggiato tanto quanto può avere influito sulla tua musica?
“Sicuramente ha influito tantissimo. Viaggiare è fondamentale perché a un certo punto, quando pensi di sapere tutto, scopri che ci sono delle novità. Per crescere hai bisogno di cercare sempre nuove esperienze”.

E se dovessimo fare un parallelismo fra un’esperienza dal vivo in America ed una in Italia…
“Diciamo che il pubblico americano in generale è molto entusiasta e senti la sua presenza continuamente. E’ un pubblico attento che conosce bene la storia del jazz e al quale non hai bisogno di spiegare la musica che suoni. Quando ti esprimi con un bambino usi un determinato linguaggio e quando ti trovi in America è come se parlassi ad un adulto che ti capisce bene”.

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