Si scrive Man Trio, ma secondo il suo fondatore – Roberto Spadoni, chitarrista, compositore, arrangiatore e direttore, insegnante e divulgatore – si legge Man-trah, come una preghiera indiana, come una declinazione musicale sobria e di qualità, come il piccolo gioiello al quale abbiamo assistito la sera di giovedì 27 maggio 2010 al 28divino.
Roberto è uno di quei musicisti eclettici che in silenzio e con pazienza lavorano costantemente per fare in modo di espandere il più possibile il linguaggio del jazz tra le giovani generazioni. Nella breve chiacchierata che facciamo prima del suo set parliamo di questo sistema Italia, delle difficoltà che attraversa, soprattutto nel campo culturalee musicale. Roberto mi spiega che in realtà c’è un movimento amplissimo di giovani ragazzi che non solo sono estremamente capaci e talentuosi, ma che credono fino in fondo alla possibilità di vivere e lavorare nel campo del jazz. La rete li aiuta molto, hanno a disposizione una tale quantità di materiale che gli permette di partire con delle basi molto più ampie di quelle che hanno avuto musicisti anche solo di dieci anni più ‘anziani’. Roberto insegna a Ferrara, a Rieti, a Chieti, e incontra ogni volta giovani di ogni età e classe sociale. Sono molto preparati, mi dice, e tante volte mettono in imbarazzo persino gli insegnanti, contestandoli senza paura, discutendo animatamente, interagendo ben più del ‘dovuto’ o del ‘normale’.
Grazie all’ospitalità di Marc e Natacha, (che il cielo ringrazi sempre chi gestisce un jazz club nel 2010), riusciamo a chiacchierare ancora un po’ davanti a un bicchiere di ottimo rosso anche con Francesco Galatro ed Enrico Morello, contrabbasso e batteria. Sono loro, anche loro, i giovani di cui mi parlava Roberto. Francesco Galatro ha 26 anni e viene da Salerno, si è caricato il contrabbasso sulle spalle ed è arrivato nella capitale armato di un talento fuori del comune, talento che esprime in una intonazione perfetta, in un groove trascinante soprattutto nelle uscite dei soli e una tendenza alla ripetizione discendente e cromatica delle frasi, che era tanto cara a certi grandi, penso a Scott LaFaro, o al tardo Mingus. Enrico Morello di anni ne ha 22 e la batteria non la suona, la muove lentamente dentro il brano, saltando gli accenti in un modo che ti fa perdere i battiti del cuore, rientrando e riuscendo dal tempo come fosse quella cabina telefonica dove entrava il dottor Who. Forse nessuno si ricorda il dottor Who, ma chi se ne frega. Era un complimento. Chiacchiero con questi ragazzi e ne scopro oltre al talento anche la voglia di mollare e andare via. Usare Roma solo come un trampolino, e poi fare come hanno già fatto in tanti, andarsene in America, a combattere davvero per la musica. Anche loro mi parlano di giovani. Giovani diciottenni americani che suonano in un modo pazzesco, che hanno voglia di emergere, energia per fare. Io, che ormai la musica la vivo solo di striscio, mi limito a rispondere che uno che ha voglia di suonare suona, suonerà sempre. Annuiscono. Non so fino a che punto mi credono.
Poi scendiamo. Il 28 divino ha questa bella anticamera dove puoi fermarti a bere un bicchiere senza scendere negli inferi della live music. C’è il bar, ci sono i tavoli, c’è il disco di Roberto che suona (a proposito, si chiama Panta Rei, e potete ascoltarne qualche estratto sul suo myspace (http://www.myspace.com/rspadoni ), ma se volete addentrarvi nella liveroom dovete scendere una scala stretta che sembra di entrare in un locale della 52a di New York, rosso fuoco, dominato da ‘numero5′, il robot che abbiamo ammirato in ‘Corto Circuito’, che Marc ha pazientemente e diligentemente ricostruito.
Il Man Trio suona i brani originali di Spadoni. Apre con ‘La sfera blu’, che è un blues dedicato al mitico ‘Sphere’ Monk, il tempo di introdurre il tema e fare un paio di chorus di solo e Roberto spacca il mi cantino della chitarra. In tanti anni di onorata carriera, sussurra ai suoi, non era mai successo al primo brano. Ma non c’è alcun problema. Francesco ed Enrico tengono il brano alla grande per tutto il tempo in cui lui deve cambiarla. Così si riprende con i salti di tempo e gli obbligati di ‘Mingus 5 e 6′, lo swing pesante e cadenzato di ‘Sofdudu’, la cadenza bluesy di ‘Girotondo’. Quello che vediamo (e ascoltiamo) è un gruppo composto, sobrio, intento a suonare parti anche piuttosto difficili, mai banali, a tratti sorprendenti. Il primo set finisce con una versione di ‘All the things you are’ rapidissima, enorme, con il suono della chitarra di Spadoni che non so per quale motivo mi fa venire in mente una specie di incrocio tra Metheny e Barney Kessel. In realtà è Roberto Spadoni, e il suo stile non fa mai una piega, mai una concessione, è di un rigore clamoroso, mentre l’ottimo vino di Marc sta facendo effetto su di me e sulla mia macchinetta fotografica.
Sì perché il jazz, quando ci metti vicino il buon vino, fa delle cose che neanche ti immagini. Me ne accorgo durante il secondo set, quando ad un certo momento, tra i bei brani di Roberto, ne parte uno, lento, che si intitola ‘Sulle spiagge”. Ora, dovete immaginarvi un ragazzo che con la batteria sappia farvi riscoprire il rumore del mare, utilizzando le spazzole, i piatti, una specie di collarino di cozze (sono cozze? scheletri di gambero? che diavolo sta usando?) e altri marchingegni fantastici e poveri, e che stia facendo tutto questo mentre legge su uno spartito. Roberto inserisce un tema romantico e struggente, Francesco accarezza i cordoni del contrabbasso e tutto il locale si trasforma. Vedi le coppie che si stringono, i festeggianti che ammutoliscono, e un velo, una patina di qualche cosa di magico che ci si posa addosso a tutti. La cosa più incredibile è che questa specie di magia la stanno leggendo su una partitura, dannazione, la curiosità mi rode: che diavolo c’è scritto su quella parte?
Si chiude con il magnifico blues ‘La pensione degli artisti’, titolo quanto mai appropriato di questi tempi, e alla fine il pubblico chiede insistentemente un bis. Il Man Trio concede una bella versione – molto metheniana per la verità – di ‘On green dolphin street’. Buonanotte a tutti. Saluto, salgo sulla mia bici, me ne vado a casa, me ne vado a dormire, con quel pedalone iniziale del brano di Kaper & Washington che mi martella nella testa. Allo stesso tempo non posso fare a meno di pensare a quel mare, quel rumore del mare, quell’atmosfera del mare che stava dentro ‘Sulle spiagge’, e a Roberto, Francesco, Enrico nel locale di Marc e Natacha. Ma che diavolo c’era scritto su quelle partiture?
Adelchi Battista