Jazz Agenda

COSE dell’altro… Jazz

Sperimentazione, avanguardia, improvvisazione, nuovi incroci musicali e, ovviamente, tanto jazz. Questi gli ingredienti di COSE, la “rassegna che non si rassegna”, la cui quarta edizione partirà nei prossimi giorni. La prima sezione della manifestazione, (totalmente autofinanziata e sostenuta da Associazione Controchiave, Live Sound Development, Scuola Popolare di Musica di Testaccio e Centro di cultura sperimentale Rialto) si svilupperà ogni settimana, dal 4 novembre al 16 dicembre, presso la sala concerti (Sala Mangiatoia) della Scuola popolare di musica di Testaccio, all’ex mattatoio di Roma (Area MACRO Future). Piccole formazioni provenienti da tutto il mondo, recital solitari, inediti connubi e molto altro ancora, si daranno il cambio per tutto l’inverno stravolgendo con le loro performance, assolutamente uniche, le notti romane. Si parte giovedì 4 con Il volto di infiniti passi: il duo formato dal clarinettista basso Marco Colonnae dal batterista Ivano Nardi incontra la fotografia di Alessandro Serranò in un progetto dedicato ai migranti, alle loro storie, al loro continuo ed inesorabile movimento. Giovedì 11 si esibiranno invece il pianista australiano Chris Abrahams e il polistrumentista inglese Mike Cooper. Esibitisi per la prima volta insieme a Sydney nel 2005 per la registrazione dell’album “Oceanic feeling – Like”, il duo ha pubblicato l’anno scorso un secondo album, “Live in Sydney”. Il 18 novembre  doppia serata all’insegna dell’incontro anglo italiano. La prima parte del concerto vedrà l’esibizione in solo del pianista e compositore di colonne sonore Steve Beresford, musicista londinese di primo piano nell’ambito della scena improvvisativa europea. Membro di spicco della London Improvisers Orchestra, Beresford al pianoforte fonde lo stile pirotecnico ad alta energia con sprazzi di delicato lirismo intervallati da momenti di sottile umorismo. La seconda parte del concerto vedrà l’esibizione di un quartetto; Alberto Popolla e Noel Taylor ai clarinetti, Roberto Raciti al contrabbasso e lo stesso Steve Beresford al pianoforte. Venerdì 26 spazio al Chicago Underground Duo formato da Rob Mazurek e Chad Taylor. Il primo si divide fra cornetta, flauto e programmazione, il secondo prende per mano bacchette, percuote il vibrafono, disegna linee al basso, utilizza la sua mbira e martella il pianoforte oltre a prendersi cura di elettronica e bellezza varia assortita. Il primo appuntamento di dicembre, giovedì 2, ci porta in India, con una performance video-musicale dedicata a uno dei luoghi più sacri e fondativi della mitologia religiosa del subcontinente. Siamo nella città di Tiruvannamalai, nel sud, in una zona dell’interno piuttosto arida. dove sorge una montagna di circa 800 metri, Arunachala, simbolo di Shiva, la montagna sacra per definizione, ombelico del mondo. A esibirsi sul palco saranno il sassofonistaEugenio Colombo, il batterista Ettore Fioravanti e il pianista Luigi Bozzolan, coadiuvati dai cineasti Salvatore Piscicelli e Carla Apuzzo. Il 9 dicembre il progetto People Places & Thingsstudierà e reinventerà parte di un repertorio poco conosciuto dal pubblico del jazz, quello cioè della scena di Chicago della seconda metà degli anni ’50. On Stage Mike Reed (batteria, piano), Tim Haldeman eGreg Ward (sassofoni) e Jason Roebke (basso). Si conclude, provvisoriamente, con ACQUA “Suite Multimediale per Improvvisatori“, con Angelo Olivieri alla tromba

Silvia Bolognesi al basso e la parte visuale affidata a Koreman. Gli artisti proveranno a tradurre in musica ciò che evoca l’acqua: il suo movimento (come una danza), i suoi tempi complessi (il poliritmico battere della pioggia sui vetri) e la sua libertà, la stessa del jazz.

Ciccio Russo

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Le vie del Pane e del Fuoco – intervista ad Ettore Fioravanti

Si chiama Le vie del Pane e del Fuoco l’ultimo lavoro del quartetto di Ettore Fioravanti prodotto dalla nuova etichetta discografica Note Sonanti. Un progetto sperimentale  a cui hanno preso parte musicisti come Marcello Allulli al sax, Marco Bonini alla chitarra, Francesco Ponticelli al contrabbasso e anche Enrico Zanisi al pianoforte. Si tratta di un disco in cui diverse sonorità confluiscono in un unico filo conduttore che è il linguaggio del jazz. E noi che abbiamo già avuto modo di vedere dal vivo questa formazione abbiamo deciso di approfondire l’argomento con Ettore Fioravantiin persona.

Ettore, per cominciare volevamo chiederti di raccontarci la genesi di questo progetto. Come è nata questa collaborazione fra musicisti così diversi per stile e per età?

“Il quartetto nasce dalla ricerca di personalità compatibili e disponibili a creare un ensemble maggiormente elastico e flessibile rispetto alle formazioni che ho gestito in passato. Con Marcello Allulli c’erano già state numerose collaborazioni, lui rappresenta insieme la voce pura e l’iconoclasta; Marco Bonini ha nel repertorio tutte le sfaccettature della chitarra, dal rock all’elettronica all’improvvisazione radicale; infine Francesco Ponticelli possiede uno dei più bei suoni di basso da me sentiti in  questi ultimi anni, e ha il dono della sintesi. Forse loro tre rappresentano quello che non sono io, e mi completano.”

Questo nuovo lavoro, dal titolo “Le vie del pane e del fuoco” ha, secondo noi, una natura decisamente sperimentale: è una scelta che avete fatto per dare vita a qualcosa di innovativo oppure qualcosa che avevate proprio nel vostro DNA?

“Ho sempre suonato musica libera, quasi per terapia: una delle possibilità che mi regala il quartetto è proprio l’imprevedibilità, l’improvvisazione collettiva, il girotondo tenendosi per mano dove tutti danno forza a tutti. Tutto ciò non impedisce di continuare ad amare e rappresentare la vena melodica che penso di avere dentro, come la hanno i miei compagni. Il jazz veramente free vuol dire anche fare una canzone, magari rovesciandola, ma rispettandone gli elementi caratterizzanti.”

Quindi, perché avete deciso di portare avanti un approccio ad un jazz forse più contaminato piuttosto che tradizionale?

“Boh, sai le cose le fai e ti trovi a farle con quelli che hai scelto senza troppa coscienza. Anche la conoscenza spesso fa gabbia intorno ad un’idea perché relaziona quello che fai ad un progetto precostituito. Ma noi siamo carpentieri che tradiscono molto spesso il progetto disegnato, e lo fanno proprio con la voglia di mettersi alla prova: il rischio che sia un disastro c’è, e guai a chi lo tocca ‘sto rischio. Ma il feeling deve viaggiare e guai a chi lo ingabbia.”

E soprattutto quale potrebbe essere secondo te l’anima di questo disco?

“Credo proprio la compattezza del gruppo: ci sono pochi assoli nel vero senso del termine, il più dei casi ci sono depistamenti a turno dalla linea centrale, e mi piace pensare che se uno si sgancia gli altri lo tengono per le bretelle per permettergli di rientrare in riga prima o poi. Inoltre credo che se si faccia il calcolo degli “sganciamenti” ci sarebbe un pari e patta fra tutti e quattro. Comunque la ricerca di questi equilibri ci tengo che sia fatta con la musica più che con le parole, cioè è conseguenza degli assestamenti tellurici del feeling di gruppo piuttosto che di singole piroette intellettuali studiate a tavolino per staccarsi dalla routine del tema-impro-tema.”

E per quanto riguarda questa formazione, così eterogenea dal punto di vista generazionale, ci vuoi parlare dell’approccio che avete in sala di registrazione?

“La differenza di età io la sento più sul piano delle fonti ispirative e formative, che nel caso di loro tre sono senz’altro più variegate delle mie. L’approccio rock per me rappresenta un vestito della domenica: anche se sono cresciuto col rock, nel mio cervelletto vagano più le musiche dei King Crimson e di Lucio Battisti che quelle dei Beatles o Rolling Stones. Nel mio passato vedo di più la canzone (intesa proprio come relazione fra una melodia agganciata al suono delle parole) e la sinfonia (ma de noantri, sia ben chiaro), cioè una storia compositiva con variazioni e ripetizioni. Loro tre vivono i suoni di oggi con maggiore osmosi, e non hanno remore a usare le chitarre “alla Nirvana” accoppiate a Straight no chaser. Lo fanno in automatico e senza sovrastrutture. E questo voglio imparare da loro.”

Quindi, dovendo trarre delle conclusioni da questo disco, cosa ti aspettavi all’inizio e cosa, invece, è venuto fuori una volta che è stato registrato?

“Bella domanda, perché racchiude tutte le altre: diciamo che è venuto diverso dalla mia prefazione, ma non l’ho mica cancellata, ho solo aggiunto un epilogo che la contraddice. E poi forse succederà che quando si registrerà ancora (prevedo entro sei/sette mesi) anche l’epilogo di cui sopra sarà tradito. Ho portato un pezzo jazz ed è diventato un rockabilly, la canzone di Mina è un puzzle smontato e rimontato a rovescio, gli accordi tonali sono diventati atonali e viceversa. Siamo un gruppo di traditori musicali, felici di esserlo.”

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Il Jazz e le nuove generazioni – Intervista ad Ettore Fioravanti

Se parliamo di jazz, la prima cosa che ci viene in mente possono essere i grandi nomi che ne hanno la fatto la storia, oppure le grandi formazioni che dominano il panorama di questo periodo. Ciò che, invece, abbiamo intenzione di fare noi, oltre a segnalarvi i grandi nomi e i grandi concerti, è di dare uno spazio alle giovani generazioni che in questo periodo stanno imprimendo una ventata di rinnovamento. Ebbene sì, di giovani talenti che si stanno avvicinando a questo genere musicale ce ne sono veramente tanti e per questo ci siamo detti: “Perché non dargli uno spazio?” Quindi, iniziando questa settimana, inauguriamo una nuova rubrica che chiameremo “Jazz New Generation” con un’intervista ad un musicista, Ettore Fioravanti, che già abbiamo avuto modo di apprezzare dal vivo al 28divino (per vedere il live cliccaqui). Lui, a contatto con i giovani ci sta davvero tanto, non solo perché insegna al conservatorio, ma anche perché ci suona…

 Ettore, tu sei un musicista che sta molto a contatto con i giovani. Quali sono, secondo te, le nuove tendenze musicali delle nuove generazioni?

Partendo dal fatto che ho 53 anni e non sono più tanto giovane, posso dirti che, oggi più che mai, c’è una interessantissima volontà di fusion, ma non nel senso limitante della parola che è stato dato alla musica elettronica e degli anni 80. Diciamo che c’è una tendenza a mischiare i generi senza vergogna e senza particolari scrupoli, con una volontà che rientra nel proprio gusto. Vedo ragazzi di 25 ani che suonano tranquillamente i Nirvana con spirito jazzistico, o viceversa la musica di Parker con spirito rock, mettendoci dentro la loro esperienza di musica classica o di altra provenienza. In più è aumentata la competenza del linguaggio jazzistico perché sono migliorate le didattiche nei conservatori e nelle scuole. Diciamo che la gente che suona jazz lo studia e lo perfeziona in modo organico.

Ho notato ultimamente, ascoltando nuovi musicisti che si avvicinano a questo genere, che si tenta di fondere diversi linguaggi con il jazz. Mi riferisco soprattutto alle sonorità psichedeliche che spesso ho notato nei più giovani. E’ una tendenza che hai notato anche tu?

Si, perché psichedelica mi fa venire in testa i gruppi degli anni 70, ovvero quelli che ho iniziato ad ascoltare io. Quel tipo di suono è stato recuperato positivamente senza che ci si ponga il problema di vederlo legato ad uno stile che può essere considerato vecchio o inadatto. Da questo punto di vista la mia generazione era più casta e mischiava meno i generi sul piano delle sonorità, mentre oggi mi sembra che non esista più questa vergogna.

Nel tuo quartetto ci sono anche degli elementi giovani come Marco Bonini e Francesco Ponticelli. Per un musicista come te, quanto è importante confrontarsi con le nuove generazioni?

E’ fondamentale perché ti accorgi che loro non hanno un senso di riverenza non tanto nei miei confronti, ma su come fare musica insieme. Uno come Ponticelli, che ha 25 anni, e Marco, che ne ha un po’ di più, quando suonano insieme a me si pongono sullo stesso piano… E meno male! Sono contento, anche perché spesso vengono fuori delle linee musicali che non sono dettate da me. Questo mi piace molto perché si può discutere di musica quanto vuoi, ma quando ti metti a suonare insieme è tutta un’altra cosa.

E come hai conosciuto Marco e Francesco e Marcello, il quarto componente del quartetto?

Io avevo già suonato con Marcello Allulli in trio con Siniscalco. Marco Bonini era iscritto al conservatorio di Frosinone, dove insegno, ed era uno studente. Invece, per quanto riguarda Ponticelli sapevo soltanto che era bravo, non lo conoscevo e lo ho semplicemente contattato.

E quanto si impara dalle nuove generazioni?

Moltissimo! Si impara molto soprattutto sul piano della freschezza. Inoltre una persona che suona da 40 anni come me in questo modo ha la possibilità di eliminare quelle sovrastrutture che si è creata in testa. È fondamentale quando hai che fare con dei figli o con degli allievi, perché smetti di pensare che hai sempre ragione.

Quindi, si potrebbe dire che stando a contatto con le nuove generazioni si ha la possibilità di reinventarsi?

Si, il reinventarsi deriva dal fatto che elimini un meccanismo. Infatti, quando vai avanti ti dai dei punti fermi che in un certo senso distruggi quando hai a che fare con persone nuove. In questo senso è vero, ti reinventi e ti rimetti in gioco.

E che ambiente si respira nel mondo della didattica?

Dunque, io insegno in conservatorio e quindi posso testimoniarti che c’è una la situazione molto vitale proprio perché le scuole stanno uscendo dallo stretto campo della musica accademica. Tutto questo permette a gente che si occupa di jazz, di rock e musica non accademica di avvicinarsi al conservatorio. E’ un rinnovamento che alcuni considerano negativo e che io, invece, considero molto positivo. In genere alcuni musicisti considerano negativo il fatto di studiare questa musica, lo vedono come sbagliato. In più gira molto l’idea che la musica jazz non vada studiata, ma io non sono d’accordo perché il jazz, come disciplina, anche se possiede un linguaggio e una pronuncia non insegnabili, ha delle regole e delle storie che sono sintetizzabili e comunicabili. I giovani, per l’appunto, sono capaci di fare questo e prendono le regole senza recepirle come un aut aut. C’è la freschezza, l’ingenuità, a volte la provocazione rispetto all’insegnamento applicato in un conservatorio che, ora più che mai, ha bisogno di rinnovamento. E’ come se fosse un frullatore energetico.

Quindi, in fin dei conti, tenendo presente le nuove generazioni potremmo dare un giudizio positivo?

Assolutamente positivo! Quando c’è un rinnovamento in atto e idee che si incrociano, o che a volte si scontrano, vengono fuori anche delle ferite, ma sono positive perché portano sempre nuovi stimoli. Il jazz ha bisogno di essere continuamente messo in discussione altrimenti diventi un museo, una statua di marmo fissa. Io dentro casa non metto la “Venere di Milo”, ci metto la lavatrice perché mi serve… Ci metto qualcosa che mi può servire per crescere.

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Quasi Troppo Serio, un disco d’esordio per Enrico Zanisi

Enrico Zanisi è un ragazzo romano di 20 anni, appena diplomatosi presso il Conservatorio de L’Aquila sotto la guida del M° Walter Fischetti. Il suo CD d’esordio si intitola Quasi Troppo Serio ed è un lavoro molto originale registrato insieme a Pietro Ciancaglini ed Ettore Fioravanti. Dunque, parliamo di un’opera prima per un pianista che a soli 20 anni dimostra di avere già la maturità del grande musicista. Ed Enrico ci ha raccontato volentieri questa sua prima esperienza da studio.

Enrico, ti sei diplomato in pianoforte da poco tempo, come ti sei avvicinato al jazz?
Con la musica jazz ho avuto un approccio particolare, a dirti la verità inizialmente io volevo fare il cantante rock, ma in ogni caso ho sempre avuto un approccio improvvisativo perché cercavo sempre di comporre melodie nuove. Quindi, i miei genitori, che sono musicisti, hanno capito che c’era questo nesso e mi hanno indirizzato su questa strada.

C’è qualche musicista da cui hai preso spunto per cominciare con il piano jazz?
Sicuramente all’inizio ho preso spunto da Oscar Peterson, però immediatamente dopo ho capito che ero molto più vicino a Brad Mehldau, che è un pianista molto classico. Ed essendo io classico ho preso spunto da lui, da Keith Jarret, ma anche da Bill Evans.

 

Hai appena terminato questa tuo primo lavoro che si intitola “Quasi Troppo Serio”. Perché hai voluto mettere una musica di Schumann come prima traccia?
Diciamo che questo disco percorre un cammino che ho fatto fino ad oggi, partendo dalla musica classica per poi arrivare al jazz e anche al pop. Infatti in questo CD ho voluto registrare come ultima traccia un brano di Burt Bacharach che ovviamente è rivisitato in chiave jazz. Comunque ho voluto mettere questa musica di Schumann perché è breve, incisiva, perché mi ha fatto vincere un concorso quando ero bambino e, quindi, ha un valore molto importante per me. In generale sono davvero affezionato a tutta la raccolta Kinder Venin, ovvero i brani infantili di Schumann, e per questo ho deciso di inserirne un brano in questo CD.

E per quanto riguarda gli altri brani…
Il volo e il Caso Pane rispecchiano quello stile compositivo vicino a Brad Mehldau, mentre Corale è un omaggio ai Corali di Bach, un brano di musica lirica che forse si avvicina a Keith Jarret e anche al mio stile personale.

Quindi, come è nato questo titolo?
Questo titolo è nato da due cose, la prima è che Quasi Troppo Serio è la traduzione di un titolo di questa raccolta di Schumann, una musica bellissima che volevo registrare e che alla fine ho deciso di non mettere. In secondo luogo Quasi Troppo Serio rispecchia quello che sono io, come mi hanno trattato a scuola per gli studi che ho sempre fatto. E’ un titolo ironico, ma non poteva essercene uno diverso o più azzeccato di questo.

E come ti sei trovato a suonare con due professionisti come Pietro Ciancaglini ed Ettore Fioravanti?
Innanzitutto devo dirti che non mi aspettavo una resa così alta da parte del trio. E poi ho avuto il piacere di suonare con due musicisti così importanti, come Ciancaglini e Fioravanti, che sono davvero due uomini al servizio della musica, due persone umili, due amici, due papà che hanno accolto con gioia questa proposta e che ora mi chiedono di vederci ancora per suonare insieme. Le registrazioni che abbiamo fatto sono avvenute in maniera quasi istintiva, sono quasi tutte prime take. E questo perché mi interessava davvero scattare una fotografia del momento.

Quindi, quali saranno i tuoi prossimi progetti?
Adesso mi sto dedicando al trio e in inverno faremo un giro per l’Italia… Comunque sto lavorando anche ad un piano solo.

E le tue prossime serate?
Ho appena presentato questo Cd a Mantova, ma è stato un piano solo. Il 29 luglio suonerò a Feltre con il trio e presenterò il Cd in un Festival di Jazz vero e proprio, mentre il 10 agosto sarò a Villa Celimontana

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