La fusion, avete presente? A parole certo, tutti sanno cos’è. Meno noto è come incominciò – a detta degli esperti quando un certo Davis fece questo disco pazzesco intitolatoBitches Brew che mandò ai matti mezzo pianeta – e quali furono i fiumi attraverso i quali si sviluppò: il jazzrock, il funk, la musica latina, e poi la world music e le contaminazioni più ardite.
Oggi incontriamo questo quintetto di altoatesini, gente che viene dalle montagne, che tenta un recupero musicale nello spazio e nel tempo: mettiamo su questo ‘altavia’ degli OZ quintet ed eccoci scaraventati più o meno alla metà degli anni 80. All’inizio, lo dico subito, la sensazione è di fastidio. Ancora questa batteria brillante, questo Fender Rhodes, questi chorus sulla chitarra, il sassofono soprano, ma andiamo, è roba datata. Poi, con calma, arriva il resto: i ricordi, per esempio. Senti una scala, una progressione e dici, oddio i Weather Report, poi senti un virtuosismo tecnico e ti viene in mente la Elektrik band di Chick Corea, poi una melodia lenta ed eccoci proiettati nei primissimi Rippingtons, con Russ Freeman che suonava tutti gli strumenti, che strano, mica succede in tutti i dischi tutta questa roba.
E poi, all’improvviso, arriva questo pedalone di Re, con l’improvvisa apertura della musica dentro spazi inesplorati, ecco i richiami al Gordon Matthew Sumner di Sister Moon, e al sax di Branford Marsalis, e infine la chitarra che introduce dentro il brano omonimo, Altavia, questa strada delle montagne. Urca, qua non si scherza, musica e ritmo gradevolissimi, miscelazione perfetta, sarà anche anni 80, ma si vede che anche allora c’era qualcosa di veramente buono, e trasmetterlo ai lavori di oggi, 2010, non è cosa per tutti.
Sicché ci deve essere una qualche preparazione in questi ragazzi del nord, e forse ci siamo lanciati troppo nel giudizio, io sto sempre a ripensarci su, e allora meglio indagare un po’ di più. Di certo il gran lavoro è affidato a Michele Ometto alla chitarra e a Fiorenzo Zeni al Sax. Ma si vede che anche gli altri, Marco Facchin alle tastiere, Victor Tirado al basso e Sandro Giudici alla batteria la fusion degli anni 70-80-90 se la sono smazzolata per bene. Metheny, Brecker Bros, Stern, Steps, ma anche Corea, persino lo Stanley Clarke di ‘Schooldays’ o addirittura, non volendo apparire troppo colti, la chitarra di Gianluca Mosole e quant’altro. Ascoltare e ripetere. Ascoltare e rifare, prendi qui, ruba là, traduci, trasla. In due parole studio e passione. E quando traduci lo studio e la passione in un progetto tuo, magari si sente che sei ancora in fase di lavoro su te stesso, ma si sentono anche bei progressi e una sana voglia di suonare, che in questi casi è fondamentale.
Per dire, nel disco ci sono due brani dal vivo in cui si sente benissimo che i ragazzi agli strumenti non solo se la spassano, ma sono perfettamente in grado di passare agli ascoltatori tutta la loro allegria e tutta la loro energia. Si richiede quindi presto un intero lavoro di registrazioni dal vivo, e magari anche andarli a vedere non guasterebbe. Per il resto non si può che dire agli OZ quintet di continuare così e andare ancora avanti, anche se la fusion pare sempre più una grande utopia. Come diceva il grandissimo Eduardo Hughes Galeano, ‘l‘utopia si trova all’orizzonte. Quando mi avvicino di due passi, arretra di due passi. Se avanzo di dieci passi, rapida scivola via di dieci passi più avanti. Per quanto innanzi io mi possa spingere, non potrò mai raggiungerla. Che scopo ha quindi l’utopia? Quello di indurci ad avanzare.’
Adelchi Battista