Un disco in cui ogni brano racconta una storia attraverso nove differenti ambienti sonori che si intrecciano tra loro, finalizzati al racconto di differenti emozioni e sensazioni. Si presenta così Turning Point, secondo disco del chitarrista Edoardo Liberati uscito per l’etichetta Wow Records. Un lavoro al quale hanno preso parte Dario Piccioni al contrabbasso e Riccardo Marchese alla batteria che, con una grande attenzione alla melodia, fonde il jazz con il rock, la musica contemporanea e altri linguaggi. Ne parliamo a tu per tu con il leader di questo progetto.
Per cominciare l’intervista parliamo subito del disco: Il titolo Turning Point ha un significato particolare per te?
Ciao Carlo e grazie per l’intervista! Si, il disco Turning Point ha un significato speciale per me. Partendo dal presupposto che ogni disco racconta, descrive e fissa un preciso momento nella vita di un artista, il titolo di questo disco posso definirlo come una piccola auto-dedica al fatto che ho appena compiuto trent’anni. Il titolo, infatti, non è casuale. Turning Point significa punto di svolta. I trent’anni sono sicuramente un passo importante, nella vita di una persona. Al di là del fatto anagrafico, credo che questo disco possa davvero rappresentare un punto di svolta per la mia vita da musicista e compositore, ritenendolo infatti un lavoro più maturo rispetto ai miei precedenti lavori.
All’interno del disco abbiamo potuto riscontrare la presenza di diversi linguaggi e fonti di ispirazione. Ti va di descriverlo ai nostro lettori brevemente?
Assolutamente. Non posso esimermi dal prendere ispirazione dai miei idoli, dai musicisti che ritengo essere punti di riferimento importanti nella mia formazione e nella mia vita. La frase “Steal like an artist” (letteralmente ruba come un’artista), credo che sia molto esplicativa in tal senso. Lungi da me cadere nel plagio, intendo dire che l’ascolto di dischi o brani specifici talvolta innesca in me delle dinamiche che mi portano alla scrittura e al concepimento di un brano. In generale, al di là dell’aspetto jazzistico su cui ovviamente il disco è concepito (essendo la musica jazz parte fondamentale della mia formazione), devo annoverare ispirazioni derivanti da rock, pop, e altri generi. Non a caso (ne parleremo nelle prossime domande) ho scelto di arrangiare un brano dei Red Hot Chili Peppers, celebre gruppo Rock, adattandolo a un contesto di jazz guitar trio.
Raccontaci adesso la storia di questo progetto, come si è evoluto nel tempo e soprattutto la scelta dei musicisti che hanno preso parte alla sua realizzazione…
Nel disco hanno partecipato i musicisti Riccardo Marchese, alla batteria, e Dario Piccioni al contrabbasso. Ho conosciuto loro in circostanze diverse, e anche in periodi molto diversi della mia vita. Io e Dario ci siamo conosciuti molti anni fa (ricordo che avevo iniziato a studiare e suonare jazz da poco) in occasione di un workshop in Puglia, ad Orsara. Abbiamo subito legato e, nel corso degli anni, abbiamo collaborato in diverse situazioni. Per molti anni però, a causa degli spostamenti dell’uno e dell’altro (ho vissuto in Olanda cinque anni, mentre Dario in Belgio, Spagna), ci eravamo un po’ persi di vista, anche se ogni tanto ci incontravamo nelle jam session di Roma, quando tornavo in occasione di vacanze e altro. Essendoci poi ristabiliti a Roma, ho deciso di coinvolgerlo in questo progetto, sentendo molto forte la necessità di realizzare un nuovo lavoro a mio nome.
L’incontro con Riccardo è avvenuto invece durante i nostri studi di biennio presso Siena Jazz. Siamo diventati subito molto amici, abbiamo una visione della musica molto simile. Abbiamo collaborato tanto in formazioni a nostro nome (suoniamo infatti nei progetti dell’uno e dell’altro), e in formazioni di altri musicisti. Nonostante ci conosciamo solo da qualche anno abbiamo registrato insieme già due dischi e fatto due tour in Italia e Olanda. Ognuno di noi è sia side-man che band-leader, e credo che questo sia un grande punto di forza del progetto.
Un disco per una band o per un artista può sintetizzare diverse cose: una fotografia del momento, un punto di arrivo o di partenza: per te cosa rappresenta?
Un disco rappresenta tutte le cose che hai citato. In primis, è una fotografia del momento, uno scan di te stesso in quel periodo preciso. Al tempo stesso, però, è l’inizio di un qualcosa, professionalmente parlando. Dal momento della pubblicazione, infatti, si può dire che inizia il vero lavoro di promozione nei vari ambiti e settori (concertistico, radiofonico, editoriale).
In questo disco c’è un brano che rappresenta un omaggio al grande John Scofield. Quali sono i musicisti a cui ti ispiri, dunque, e che nel tuo bagaglio culturale sono stati davvero importanti?
John Scofield è per me un enorme punto di riferimento. Ho avuto il piacere di ascoltarlo di nuovo in concerto a distanza di tanti anni dalla prima volta e sono rimasto davvero folgorato. Ho voluto quindi comporre un brano ispirandomi al suo modo di vedere la musica, cercando però al contempo di fare del brano una mia personale sintesi. Sempre ovviamente con grande umiltà ed enorme rispetto.
Oltre a lui non posso non citare i chitarristi Gilad Hekselman, Lage Lund, Jonathan Kreisberg e, tra tutti, un altro gigante come il pianista Brad Mehldau. Ho avuto la fortuna di ascoltare anche lui in concerto, recentemente, per la prima volta dopo anni e anni di ascolto dei suoi lavori. è stato un concerto veramente toccante.
Gli unici brani non originali, Porcelain e Stardust, sono anch’essi degli omaggi. Ci vuoi spiegare perché questa scelta?
A differenza del mio primo disco, “Everyday Life”, composto interamente da musica originale, in questo disco ho deliberatamente deciso di includere brani di altri compositori. Come prima idea ho avuto quella di arrangiare Porcelain, e devo dire che sono rimasto molto soddisfatto del risultato. I musicisti hanno subito capito che tipo di brano ricercavo, sotto tutti i punti di vista. Brano lento, caratterizzato da un groove reiterato sul quale ho deciso di sorreggere tutto il brano, rullante con un suono molto gonfio, molto grasso (fat snare, in gergo). Anche in studio ho cercato, in fase di mixing, di portarlo in una specifica direzione.
Stardust, invece, è uno standard , una delle song più belle mai scritte, a mio parere. La melodia è meravigliosa, e anche molto complessa, sorretta da un’armonia altrettanto geniale. Il brano è di Hoagy Carmichael, famoso per aver composto anche Skylark, un’altra bellissima song. Ho deciso di proporlo in chitarra solo, con la mia semi-acustica Ibanez del 1986 (una chitarra più tradizionale come concezione, rispetto alla Gibson 335 che ho usato in altri brani del disco). Una versione di grande ispirazione per me è quella di George Benson nel disco Tenderly, oppure quella del grande Nat King Cole.
Abbiamo notato una ricerca timbrica evidente. In ogni brano spesso la chitarra cambia suono, a seconda del tipo di composizione. Quanto è importante questo aspetto per te?
Per me è a dir poco fondamentale. Quando ascolto un disco, soprattutto di un chitarrista, vorrei ascoltare una palette timbrica diversa. Vorrei essere sorpreso sia dal punto di vista compositivo, performativo ma anche e soprattutto nella scelta dello strumento. Adoro i dischi dove c’è alternanza di suoni, brani con semi-acustiche (ognuna con un suono ben preciso), brani con chitarre classiche, acustiche o alle volte baritone. Ovviamente non critico chi registra un disco con un solo strumento, anzi, è sicuramente un altro approccio.
Nel disco turning point ad esempio, essendoci alcuni brani di chiaro stampo Rock/Fusion (tra i quali il brano dedicato a John Scofield, One for Uncle John), ho ricercato l’aggressività tramite il pedale overdrive. In altri brani invece ho lavorato più sulla riverberazione e sull’effettistica di stanza, usando una combinazione sempre diversa di echo e riverbero. Due brani invece sono stati registrati con chitarra acustica, strumento che ritengo fondamentale nel mio playing.
Chiudiamo con un ulteriore sguardo al futuro: hai qualche concerto in cantiere o qualche nuova registrazione da portare avanti?
Sono felice di presentare questo lavoro discografico presso la Casa Del Jazz di Roma, il 14 dicembre. Oltre a questo concerto, registrerò un mini-documentario/intervista su invito di David Gauthier, video-maker francese che gestisce un canale di chitarra jazz ben seguito in Francia. In quell’occasione suonerò a Parigi, l’8 dicembre, in duo con il chitarrista Gianluca Figliola.
Sto portando avanti alcuni progetti in duo, uno con Attilio Sepe, sassofonista, e uno con Federico Bosio, chitarrista. Sono in fase di scrittura e preparazione per un possibile nuovo disco a mio nome, ma vorrei attendere almeno un anno per crescere ulteriormente e per scrivere nuovo materiale che mi convinca appieno.